Qualche giorno fa notavo quanto sia bello e importante che il Canone Romano nomini copiosamente i santi: «Pietro e Paolo, Andrea, Giacomo, Giovanni,Tommaso, Giacomo, Filippo, Bartolomeo, Matteo, Simone e Taddeo, Lino, Cleto, Clemente, Sisto, Cornelio e Cipriano, Lorenzo, Crisogono,Giovanni e Paolo, Cosma e Damiano e tutti i santi» e poi ancora «Giovanni, Stefano, Mattia, Barnaba, Ignazio, Alessandro, Marcellino e Pietro, Felicita, Perpetua, Agata, Lucia, Agnese, Cecilia, Anastasia e tutti i santi».
Nominare è il primo e fondamentale atto di relazione: esso dice riconoscimento e rispetto dell’altro, ed è la premessa indispensabile per l’amore e la venerazione. L’odio, invece, in radice nega all’altro il suo nome, lo cambia, lo deforma, lo ignora.
La storia è, a mio avviso, anzitutto un grande esercizio di pietà, proprio perché si sforza di recuperare e conservare i nomi degli uomini e, in questo senso, direi che essa non può che essere anche prosopografica. Ma se l’uomo, in questo suo pur nobile sforzo, si scontra subito, tristemente, col limite della sua possibilità di memoria – che cosa possiamo ricordare noi? A stento, e malamente, un’infima particola degli innumerevoli nomi di uomini e donne che sono vissuti prima di noi – Dio no.
Dio conosce tutti per nome e pronuncia eternamente il nome di ciascuno. Se smettesse anche per un solo istante di farlo, noi non saremmo.
I nomi dei santi, cioè dei cristiani, sono preziosi ai nostri occhi. Il Nuovo Testamento ne è pieno e dunque fanno parte a pieno titolo della Sacra Scrittura. Sono parola di Dio, e faremmo male a trascurarli perché “sono solo nomi”.
Domani, per esempio, alla messa si legge una parte del capitolo 16 della lettera ai Romani. È l’ultimo capitolo di quel testo poderoso, e si potrebbe essere tentati di pensare che, rispetto al resto, sia meno importante: saluti finali, titoli di coda a cui non si bada perché i film ormai l’abbiamo già visto. Non è così: quella serie di nomi, se la sappiamo leggere, è la carne della chiesa, il tessuto organico delle relazioni personali che sono la materia di cui è fatto il corpo di Cristo.
Ora, un merito indiscutibile della riforma liturgica postconciliare, come si dice sempre, è quello di avere ampliato grandemente la selezione delle letture bibliche che si fanno nella messa. Così, anche se solo una volta ogni due anni, nel sabato della XXXI settimana del tempo ordinario vengono proclamanti quei nomi cari e santi a cui Paolo teneva tanto. Però, siccome i liturgisti anche quando fanno una cosa giusta ci vogliono mettere del loro (e di solito fanno dei danni), per qualche a me ignoto motivo hanno stagliuzzato il testo del capitolo 16, inserendo nella lettura della messa solo i vv. 3-9, il v.16 e poi i vv.22-27.
Nei versetti mancanti Paolo dice così: «Vi raccomando Febe, nostra sorella, che è al servizio della Chiesa di Cencre: accoglietela nel Signore, come si addice ai santi, e assistetela in qualunque cosa possa avere bisogno di voi; anch’essa infatti ha protetto molti, e anche me stesso». Poi, nei versetti che si leggeranno domani ricorda «Prisca e Aquila, miei collaboratori in Cristo Gesù. Essi per salvarmi la vita hanno rischiato la loro testa, e a loro non io soltanto sono grato, ma tutte le Chiese del mondo pagano. Salutate anche la comunità che si riunisce nella loro casa. Salutate il mio amatissimo Epèneto, che è stato il primo a credere in Cristo nella provincia dell’Asia. Salutate Maria, che ha faticato molto per voi. Salutate Andronico e Giunia, miei parenti e compagni di prigionia: sono insigni tra gli apostoli ed erano in Cristo già prima di me. Salutate Ampliato, che mi è molto caro nel Signore. Salutate Urbano, nostro collaboratore in Cristo, e il mio carissimo Stachi».
I liturgisti, a questo punto, hanno deciso che bastava, ma invece Paolo continua: «Salutate Apelle, che ha dato buona prova in Cristo. Salutate quelli della casa di Aristobulo. Salutate Erodione, mio parente. Salutate quelli della casa di Narciso che credono nel Signore. Salutate Trifena e Trifosa, che hanno faticato per il Signore. Salutate la carissima Pèrside, che ha tanto faticato per il Signore. Salutate Rufo, prescelto nel Signore, e sua madre, che è una madre anche per me. Salutate Asìncrito, Flegonte, Erme, Pàtroba, Erma e i fratelli che sono con loro. Salutate Filòlogo e Giulia, Nereo e sua sorella e Olimpas e tutti i santi che sono con loro».
Sempre i liturgisti hanno deciso di riassumere il tutto con il v.16 e poi di riattaccare dai vv.22-24: «Anch’io, Terzo, che ho scritto la lettera, vi saluto nel Signore. Vi saluta Gaio, che ospita me e tutta la comunità. Vi salutano Erasto, tesoriere della città, e il fratello Quarto» e Dio solo sa perché (ma forse nemmeno Lui) hanno escluso il v.21 che dice: «Vi saluta Timòteo mio collaboratore, e con lui Lucio, Giasone, Sosìpatro, miei parenti».
I nomi sono tutti importanti, perché «sono scritti in cielo» (Lc 10,20).