La storia, vista da dentro (o da sotto) sembra assurda, proprio «a tale / Told by an idiot, full of sound and fury, / Signifying nothing», come dice Macbeth. In questi giorni di guerra, lo sentiamo angosciosamente, con un’evidenza che pare indiscutibile. Anche dall’Inferno (soprattutto da lì), la visuale è questa: la sua a-teologia della storia, come allora la chiamammo, il poeta ce l’ha esposta nel canto XIV dell’Inferno (vedi qui: https://leonardolugaresi.wordpress.com/2020/01/05/una-a-teologia-della-storia-dante-inferno-canto-xiv-ultima-parte/). Per quanto la si voglia razionalizzare, da quaggiù (e ancor più da laggiù) la costruzione della storia poggia su un piede fesso («salvo che ‘l destro piede è terra cotta»): imperi, alleanze, strategie di lungo periodo, grandi visioni e progetti ambiziosi … tutto lo sforzo di umana razionalità, profuso dalle “menti migliori“ dei centri di potere del mondo, si sfarina irrimediabilmente nell’insensatezza e nell’autolesionismo. Castelli di sabbia, per quanto impastati di lacrime e di sangue, non più stabili di quelli di un bambino – se osservati da una certa distanza temporale.
Ma qui siamo in paradiso, dalla parte giusta per vedere la realtà: qui la teologia della storia si vede bene, in tutta la sua luminosa chiarezza.
Dante non ha capito una cosa che Giustiniano aveva detto nel canto precedente: la giustizia divina ha concesso all’aquila imperiale prima, con Tiberio, la «gloria di far vendetta a la sua ira» (VI, 90) e poi, con Tito, di «far vendetta […] / de la vendetta del peccato antico» (VI, 92-93). Che bello per noi trovare uno che dichiara candidamente i propri dubbi e la propria incomprensione, circondati come siamo di espertoni che, “dopo”, sapevano sempre tutto prima! In paradiso, anche i dubbi e l’ignoranza hanno un che di ilare, perché certa e pronta è la loro soddisfazione: è come aver sete con una sorgente di acqua purissima a nostra disposizione. Così ne sgorga una terzina quasi festosa, come un tintinnio di campanelle: «Io dubitava e dicea ‘Dille, dille!’ / fra me, ‘dille’, dicea, ‘a la mia donna / che mi diseta con le dolci stille’» (vv. 10-12). A trattenere Dante c’è però «quella reverenza che s’indonna / di tutto me, pur per Be e per ice,» (vv. 13-14), ma che qui serve più che altro per far sì che «cotal Beatrice» gli faccia dono della sua “carità docente” di propria iniziativa, senza bisogno di essere sollecitata da una domanda esplicita, «raggiandomi d’un riso / tal, che nel foco faria l’uom felice» (vv. 17-18).
La lezione che segue (vv. 19-120) va seguita con attenzione, meditandola verso per verso, e io qui non mi permetto certo di chiosarla, tanto è perfetta. Mi limito a dire una cosa sola, sperando che sia utile per far capire quanto bisogno abbiamo di una dottrina come questa. Noi l’incarnazione del Figlio di Dio no riusciamo assolutamente a capirla, cioè la fraintendiamo completamente, se non meditiamo abbastanza lo scandaloso mistero della creazione e non ci lasciamo provocare dalla formidabile domanda che essa (e con essa la nostra stessa esistenza) ci pone: se Dio è tutto, io (con il mondo intero attorno a me) perché ci sono? Che cosa sono? Quel che è altro dal Tutto, che altro può essere se non il niente? Dio solo è, ma – come dice don Giussani in un testo che sto meditando in questo tempo – «accanto a ciò, “io ci sono”, e questo resta l’unico vero mistero per la ragione; senza questo mistero, la ragione non ragiona, perché la ragione è coscienza della realtà secondo la totalità dei suoi fattori. […] Che cosa nell’uomo può essere concepito in qualche modo – anche se paradossalmente – come “sottratto” alla dipendenza da Dio che lo crea? […] Nella libertà! […] come fa il Mistero a creare qualcosa che non si identifichi con Se stesso? Questo è il vero mistero. […] La libertà è l’unica cosa che appare alla ragione come fuori da Dio. All’Essere come tale non si può aggiungere né togliere niente: la libertà però sembra sottrarre qualcosa al mistero dell’Essere, a Dio» (Dare la vita per l’opera di un Altro, pp. 19-21).
Solo se si riflette che questa è la profondità e l’altezza del livello a cui Dio “mette in gioco se stesso” nell’atto di creare qualcosa di altro-da-sé, si può cominciare non dico a comprendere, ma almeno a “pesare” che cosa sia il peccato originale, cioè l’assurda, inconcepiblie, eppure reale decisione della libertà creata di non rivolgersi all’Essere, cioè di negare propriamente anche se stessa, poiché, come dice sempre don Giussani nel testo sopra citato, «in quanto libertà, la natura dell’essere partecipato si esprime […] come preghiera. Se la liberà è riconoscimento dell’Essere come Mistero, il rapporto dell’essere partecipato con Dio è solo la preghiera. […] la preghiera è “domanda di essere” […] se è preghiera e domanda, è dentro il Mistero anche la libertà» (p. 22). La natura umana, dice Dante, «sbandita / di paradiso, […] si torse / da via di verità e da sua vita» (vv. 37-39). Eppure, questa stessa natura che ha negato il suo rapporto costitutivo con Dio che la fa essere, viene assunta, nella sua integrità creaturale originaria, da Dio stesso che si incarna in Gesù Cristo. La morte in croce del quale, dunque, è al tempo stesso la più giusta delle punizioni inflitta all’umanità peccatrice e il più ingiusto dei peccati dagli uomini: «La pena dunque che la croce porse / s’a la natura assunta si misura, / nulla già mai sì giustamente morse; // e così nulla fu di tanta ingiuria, / guardando a la persona che sofferse, in che era contratta tal natura» (vv. 40-45). Ecco spiegato il senso di quell’espressione di Giustiniano che era rimasta oscura: la dignità “teologica” dell’impero si dimostra nel fatto che Dio ha legittimato la sua autorità conferendo ad essa il potere legittimo di punire entrambe le colpe, con la condanna a morte di Gesù e poi con la distruzione di Gerusalemme, interpretata tradizionalmete, e ance da Dante, come una punizione del popolo della città, responsabile di aver chiesto tale condanna.
Chiarito questo, il vero problema che però si presenta alla mente di Dante (e nostra, se finalmente siamo stati indotti a pensarci, a queste cose!) è un altro, ben più profondo: «ma perché Dio volesse, m’è occulto, a nostra redenzion pur questo modo» (vv. 56-57). È inutile, proprio non lo capiamo cos’abbia in testa Dio: incomprensibile la creazione; incomprensibile anche l’incarnazione-morte-resurrezione del FIglio di Dio come modo per salvarci. (Se è per questo, tuttavia, non capiamo bene neanche che cosa abbiamo in testa noi: incomprensibile pure il peccato originale!). Anche se «a questo segno / molto si mira e poco si discerne» (vv. 61-63), Beatrice ci spiega «perché tal modo fu più degno» (v. 63). Come ho detto, non voglio in alcun modo sovrappormi al suo limpido dettato: insisto soltanto nell’invitare a pensare (cioè a “pesare”) che cos’è stato per Dio creare l’essere partecipato, altro da Lui e libero, e dunque che cos’è stato, da parte dell’essere creato, il rifiuto di essere preghiera, cioè libertà che chiede l’Essere.
Con questo pensiero (se diventa anche un rovello) in mente, non è poi così difficile seguire la dimostrazione dantesca che l’unica strada per ricomporre quel disastro passava per la crocifissione del Figlio di Dio.
Con l’uscita dei progenitori dal paradiso terrestre, comincia la storia, con il suo infinito carico di ingiustizie e dolori. Ma la storia, la vera storia, non è quella che appare, né quella che riscostruiscono gli storici nei loro libri. La storia, in tutti i suoi contorcimenti a noi quasi sempre indecifrabili, ha tuttavia un punto di consistenza fondamentale (non dunque il piede fesso del Veglio di Creta): «Né tra l’ultima notte e ‘l primo die / sì alto o sì magnifico processo, o per l’una o per l’altra,» – si intende per la giustizia e la misericordia, le due dimensioni dell’agire divino – «fu o fie; // ché più largo fu Dio a da sé stesso / per far l’uom sufficiente a rilevarsi, / che s’elli avesse sol da sé dimesso;» – cioè se fosse rimasto fuori della storia e, dall’alto, avesse condonato il peccato originale senza soddisfazione della giustizia – «e tutti li altri modi erano scarsi / a la giustizia, se ‘l Figliuol di Dio / non fosse umilïato ad incarnarsi» (vv. 115-120).