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~ Vanitas ludus omnis

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Archivi Mensili: febbraio 2022

Teologia della storia, ovvero la storia vista dalla parte giusta (#Dante, Paradiso, canto VII, vv. 10-120)

27 domenica Feb 2022

Posted by leonardolugaresi in Dante per ritrovarsi

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creazione, Dio e l'uomo, don Giussani, Incarnazione, libertà, teologia della storia

La storia, vista da dentro (o da sotto) sembra assurda, proprio «a tale / Told by an idiot, full of sound and fury, / Signifying nothing», come dice Macbeth. In questi giorni di guerra, lo sentiamo angosciosamente, con un’evidenza che pare indiscutibile. Anche dall’Inferno (soprattutto da lì), la visuale è questa: la sua a-teologia della storia, come allora la chiamammo, il poeta ce l’ha esposta nel canto XIV dell’Inferno (vedi qui: https://leonardolugaresi.wordpress.com/2020/01/05/una-a-teologia-della-storia-dante-inferno-canto-xiv-ultima-parte/). Per quanto la si voglia razionalizzare, da quaggiù (e ancor più da laggiù) la costruzione della storia poggia su un piede fesso («salvo che ‘l destro piede è terra cotta»): imperi, alleanze, strategie di lungo periodo, grandi visioni e progetti ambiziosi … tutto lo sforzo di umana razionalità, profuso dalle “menti migliori“ dei centri di potere del mondo, si sfarina irrimediabilmente nell’insensatezza e nell’autolesionismo. Castelli di sabbia, per quanto impastati di lacrime e di sangue, non più stabili di quelli di un bambino – se osservati da una certa distanza temporale.

Ma qui siamo in paradiso, dalla parte giusta per vedere la realtà: qui la teologia della storia si vede bene, in tutta la sua luminosa chiarezza.

Dante non ha capito una cosa che Giustiniano aveva detto nel canto precedente: la giustizia divina ha concesso all’aquila imperiale prima, con Tiberio, la «gloria di far vendetta a la sua ira» (VI, 90) e poi, con Tito, di «far vendetta […] / de la vendetta del peccato antico» (VI, 92-93). Che bello per noi trovare uno che dichiara candidamente i propri dubbi e la propria incomprensione, circondati come siamo di espertoni che, “dopo”, sapevano sempre tutto prima! In paradiso, anche i dubbi e l’ignoranza hanno un che di ilare, perché certa e pronta è la loro soddisfazione: è come aver sete con una sorgente di acqua purissima a nostra disposizione. Così ne sgorga una terzina quasi festosa, come un tintinnio di campanelle: «Io dubitava e dicea ‘Dille, dille!’ / fra me, ‘dille’, dicea, ‘a la mia donna / che mi diseta con le dolci stille’» (vv. 10-12). A trattenere Dante c’è però «quella reverenza che s’indonna / di tutto me, pur per Be e per ice,» (vv. 13-14), ma che qui serve più che altro per far sì che «cotal Beatrice» gli faccia dono della sua “carità docente” di propria iniziativa, senza bisogno di essere sollecitata da una domanda esplicita, «raggiandomi d’un riso / tal, che nel foco faria l’uom felice» (vv. 17-18).

La lezione che segue (vv. 19-120) va seguita con attenzione, meditandola verso per verso, e io qui non mi permetto certo di chiosarla, tanto è perfetta. Mi limito a dire una cosa sola, sperando che sia utile per far capire quanto bisogno abbiamo di una dottrina come questa. Noi l’incarnazione del Figlio di Dio no riusciamo assolutamente a capirla, cioè la fraintendiamo completamente, se non meditiamo abbastanza lo scandaloso mistero della creazione e non ci lasciamo provocare dalla formidabile domanda che essa (e con essa la nostra stessa esistenza) ci pone: se Dio è tutto, io (con il mondo intero attorno a me) perché ci sono? Che cosa sono? Quel che è altro dal Tutto, che altro può essere se non il niente? Dio solo è, ma – come dice don Giussani in un testo che sto meditando in questo tempo – «accanto a ciò, “io ci sono”, e questo resta l’unico vero mistero per la ragione; senza questo mistero, la ragione non ragiona, perché la ragione è coscienza della realtà secondo la totalità dei suoi fattori. […] Che cosa nell’uomo può essere concepito in qualche modo – anche se paradossalmente – come “sottratto” alla dipendenza da Dio che lo crea? […] Nella libertà! […] come fa il Mistero a creare qualcosa che non si identifichi con Se stesso? Questo è il vero mistero. […] La libertà è l’unica cosa che appare alla ragione come fuori da Dio. All’Essere come tale non si può aggiungere né togliere niente: la libertà però sembra sottrarre qualcosa al mistero dell’Essere, a Dio» (Dare la vita per l’opera di un Altro, pp. 19-21).

Solo se si riflette che questa è la profondità e l’altezza del livello a cui Dio “mette in gioco se stesso” nell’atto di creare qualcosa di altro-da-sé, si può cominciare non dico a comprendere, ma almeno a “pesare” che cosa sia il peccato originale, cioè l’assurda, inconcepiblie, eppure reale decisione della libertà creata di non rivolgersi all’Essere, cioè di negare propriamente anche se stessa, poiché, come dice sempre don Giussani nel testo sopra citato, «in quanto libertà, la natura dell’essere partecipato si esprime […] come preghiera. Se la liberà è riconoscimento dell’Essere come Mistero, il rapporto dell’essere partecipato con Dio è solo la preghiera. […] la preghiera è “domanda di essere” […] se è preghiera e domanda, è dentro il Mistero anche la libertà» (p. 22). La natura umana, dice Dante, «sbandita / di paradiso, […] si torse / da via di verità e da sua vita» (vv. 37-39). Eppure, questa stessa natura che ha negato il suo rapporto costitutivo con Dio che la fa essere, viene assunta, nella sua integrità creaturale originaria, da Dio stesso che si incarna in Gesù Cristo. La morte in croce del quale, dunque, è al tempo stesso la più giusta delle punizioni inflitta all’umanità peccatrice e il più ingiusto dei peccati dagli uomini: «La pena dunque che la croce porse / s’a la natura assunta si misura, / nulla già mai sì giustamente morse; // e così nulla fu di tanta ingiuria, / guardando a la persona che sofferse, in che era contratta tal natura» (vv. 40-45). Ecco spiegato il senso di quell’espressione di Giustiniano che era rimasta oscura: la dignità “teologica” dell’impero si dimostra nel fatto che Dio ha legittimato la sua autorità conferendo ad essa il potere legittimo di punire entrambe le colpe, con la condanna a morte di Gesù e poi con la distruzione di Gerusalemme, interpretata tradizionalmete, e ance da Dante, come una punizione del popolo della città, responsabile di aver chiesto tale condanna.

Chiarito questo, il vero problema che però si presenta alla mente di Dante (e nostra, se finalmente siamo stati indotti a pensarci, a queste cose!) è un altro, ben più profondo: «ma perché Dio volesse, m’è occulto, a nostra redenzion pur questo modo» (vv. 56-57). È inutile, proprio non lo capiamo cos’abbia in testa Dio: incomprensibile la creazione; incomprensibile anche l’incarnazione-morte-resurrezione del FIglio di Dio come modo per salvarci. (Se è per questo, tuttavia, non capiamo bene neanche che cosa abbiamo in testa noi: incomprensibile pure il peccato originale!). Anche se «a questo segno / molto si mira e poco si discerne» (vv. 61-63), Beatrice ci spiega «perché tal modo fu più degno» (v. 63). Come ho detto, non voglio in alcun modo sovrappormi al suo limpido dettato: insisto soltanto nell’invitare a pensare (cioè a “pesare”) che cos’è stato per Dio creare l’essere partecipato, altro da Lui e libero, e dunque che cos’è stato, da parte dell’essere creato, il rifiuto di essere preghiera, cioè libertà che chiede l’Essere.

Con questo pensiero (se diventa anche un rovello) in mente, non è poi così difficile seguire la dimostrazione dantesca che l’unica strada per ricomporre quel disastro passava per la crocifissione del Figlio di Dio.

Con l’uscita dei progenitori dal paradiso terrestre, comincia la storia, con il suo infinito carico di ingiustizie e dolori. Ma la storia, la vera storia, non è quella che appare, né quella che riscostruiscono gli storici nei loro libri. La storia, in tutti i suoi contorcimenti a noi quasi sempre indecifrabili, ha tuttavia un punto di consistenza fondamentale (non dunque il piede fesso del Veglio di Creta): «Né tra l’ultima notte e ‘l primo die / sì alto o sì magnifico processo, o per l’una o per l’altra,» – si intende per la giustizia e la misericordia, le due dimensioni dell’agire divino – «fu o fie; // ché più largo fu Dio a da sé stesso / per far l’uom sufficiente a rilevarsi, / che s’elli avesse sol da sé dimesso;» – cioè se fosse rimasto fuori della storia e, dall’alto, avesse condonato il peccato originale senza soddisfazione della giustizia – «e tutti li altri modi erano scarsi / a la giustizia, se ‘l Figliuol di Dio / non fosse umilïato ad incarnarsi» (vv. 115-120).

Kiev, Mosca e (soprattutto) Pechino.

24 giovedì Feb 2022

Posted by leonardolugaresi in Senza categoria

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Sarebbero posti lontani dal mio buchino, ma il mondo – che era grande – è stato reso piccolo e quindi sono vicini. Questa mattina guardiamo tutti a Kiev, molto preoccupati o addirittura angosciati: una guerra! in Europa! Una capitale europea bombardata! (Già, come Belgrado nel 1999). È comprensibile, ed è anche giusto.

Penso però che dovremmo guardare anche a Mosca, dove sta l’uomo nero. Se c’è una razionalità nell’azione di Putin, cioè un ponderato calcolo dei costi e dei benefici delle sue scelte – ed io non so se vi sia, può anche darsi che, come succede spesso ai dittatori, ad un certo punto anche lui abbia perso il senso delle misure, ma nelle presenti circostanze non possiamo fare altro che presumere che una razionalità vi sia – se c’è dunque una razionalità nell’aver attaccato militarmente in questo modo l’Ucraina, mi pare ovvio che egli sappia (o pensi) di poter contare sulla complicità, o connivenza, o benevola acquiescenza della Cina. Che infatti, a quanto mi pare di vedere, in queste ore è pressoché silenziosa o comunque molto felpata. Lo sguardo, quindi, bisogna spingerlo fino a Pechino, e non distoglierlo mai da lì.

È di questa convergenza di interessi, mi pare, che dovremmo avere più paura che di ogni altra cosa. Putin è cattivo? Ma certo che lo è, tutti lo sono! Quando lo sfruculiarono, a proposito della bontà, Gesù fu molto tranchant: “Nessuno è buono, tranne Dio solo!” (Mc 10, 18 e paralleli). Ma l’aspirante “Padrone del mondo” non è e non potrà mai essere lui, non fosse altro perché non ha i mezzi per poterlo neppure sognare. Può fare del male, ma fino a certi limiti, per tanti motivi, tra cui ad esempio la sua grande debolezza economica. Gli “uomini neri”, come è noto, si possono bastonare, sentendosi per giunta virtuosi, ma solo finché sono abbastanza piccoli. Putin, evidentemente, non può essere trattato come Milosevic perché è molto più grosso. Ma da solo non sarebbe così grosso da non poter essere contrastato. Il problema, a quanto pare, è che non è isolato. È dunque giusto avere una proporzionata paura di lui, ma sarebbe del tutto irragionevole dimenticare per questo che dobbiamo avere molta più paura di Xi Jing Pin, il vero aspirante “Padrone del mondo”. È l’alleanza di fatto tra i due, che in questa circostanza si palesa, che dovrebbe veramente preoccuparci. Si tratta, spiegano gli esperti di geopolitica, di un’alleanza del tutto “innaturale” e “antistorica”, ma il mondo è pieno di cose innaturali e la storia poi, te la raccomando. Impedire che essa si consolidi dovrebbe essere il primo obiettivo dell’Occidente (qualunque cosa voglia ormai dire Occidente nel mondo di oggi).

Nella presente situazione, mi sembra improbabile che noi possiamo fare granché, sia per noi che per gli Ucraini. Chi ci governa (?), dovrebbe però pensare urgentemente a come prepararsi per il prossimo colpo, (sperando di averne il tempo).

Lodare Dio, per meditarne il mistero. (#Dante, Paradiso, canto VII, vv. 1-3)

21 lunedì Feb 2022

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#Dante, adorazione, lode, Mistero

Leggere il canto VII è come adorare il Santissimo. Si entra in chiesa, con la testa piena delle sciocchezze e del rumore di cui sono fatte le nostre giornate, ci si inginocchia davanti al Mistero e poi ci vuol tempo, silenzio e pazienza perché la mente e il cuore si liberino dell’ingombro dell’io ipertrofico che un po’ tutti ci opprime. E non è detto che succeda. Fortuna che almeno il corpo sta lì, almeno quello è relativamente facile comandarlo (come dice Eb 10, 5: «un corpo invece mi hai preparato». Che dono prezioso è averlo); perché lo spirito invece scappa da tutte le parti. Tutto, pur di non stare lì, davanti alla Presenza. Con pazienza e umiltà bisogna lasciare che torni a casa, e aspettare finché non accada che l’ostinato silenzio del Santissimo Sacramento ci parli. Magari non succede, come ho detto, e la nostra adorazione consisterà allora soltanto nel fatto che il nostro corpo è stato davanti al corpo di Cristo, faccia a faccia, a pochi metri di distanza, per un po’ di tempo. È già tantissimo.

Qui, nel VII canto, sarà un po’ la stessa cosa. Dante fa una meditazione altissima del mistero centrale della nostra fede, la creazione e l’incarnazione – strette in un nesso che mai è stato così splendidamente illustrato – e noi non siamo pronti, non siamo adeguati. Io, almeno, non lo sono proprio. Abbiamo la testa, come ho detto, da un’altra parte, piena di sciocchezze e di rumore.

Dobbiamo dunque prepararci. Un grande aiuto ce lo darà la ardua difficoltà del testo stesso, che costringe il lettore a “stare attento”, cioè tutto teso a captare le parole e il loro senso. Un’altra grazia concessa all’uomo, infatti, oltre a quella di avere un corpo e non essere puro spirito, è di essere messo talvolta alle strette. Costrizione contro distrazione. È una scoperta dei Padri (origeniana in particolare) quella che il testo biblico, con le sue asprezze, oscurità e provocazioni, è un grande aiuto all’intelligenza spirituale della Scrittura. Lo stesso vale per Dante: benedetta la fatica che, soprattutto il Paradiso, ci costringe a fare.

Occorre però anche una purificazione preliminare, e qui il maestro ce la somministra con il sorprendente esordio del canto: «Osanna, sanctus Deus sabaòth, / superillustrans claritate tua / felices ignes horum malacòth!» (vv. 1-3). Lo stacco dalla carovana consueta delle parole e dei pensieri che ci occupano da mane a sera non potrebbe essere più netto e più felice. Di primo acchito non si capisce neanche che razza di lingua sia (certo non la nostra!). Un po’ latino, un po’ ebraico, un po’ lingua dantesca (superillustrans è di suo conio); ma, presi da questa lingua altra, siamo portati nella dimensione della lode.

La lode è uno degli atti che noi fraintendiamo di più, perché tendiamo pervicacemente a concepirla come una nostra azione, una delle tante che facciamo. Come tale, essa è sempre ambigua perché rischiamo di confonderla con il complimento, se non addirittura con l’adulazione (che è la sua contraffazione diabolica). Si loda per rendersi graditi al lodato: questo è ciò che pensiamo. Al massimo, arriviamo a pensare che la lode sia una forma di approvazione, cioè un’estrinsecazione della nostra misura. Essa, invece, è quella dimensione dello spirito in cui si dà realmente tutto lo spazio all’Altro. Non è l’espressione di una mia valutazione positiva (“bravo Dio, sei promosso!”), ma il puro, amoroso riconoscimento dell’Altro: “Tu” (invece di io, come sempre, come tutto il santo giorno, come anche quando penso a te, insopportabilmente).

17 febbraio 1992: c’ero. E mi ricordo.

17 giovedì Feb 2022

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Italia, Memoria, politica

La conoscenza del futuro a noi uomini è totalmente preclusa. Per molte nostre attività siamo costretti a fare previsioni, ma si tratta solo di scommesse (per quanto auspicabilmente ponderate). Guai a chi le scambia per predizioni: si candida inevitabilmente a passare per uno sciocco, come ad esempio hanno incessantemente fatto (e continuano a fare) in questi due anni tanti “scienziati” della pandemia attualmente in corso.

Il presente sì, lo sperimentiamo, ma quasi mai lo comprendiamo. I “contemporanei” – quelli che a volte i posteri stoltamente invidiano perché “erano lì, sul posto, nel momento in cui la cosa accadeva, quindi potevano vederla con i loro occhi”, di solito non capiscono quasi niente di ciò che accade. Prendere fischi per fiaschi o scambiare lucciole per lanterne, come si usa dire, non è l’eccezione per noi, bensì la regola. Chiunque sia abbastanza vecchio per ricordarsi un po’ di passato può confermarlo.

Ecco, il passato è l’unica cosa che un pochino conosciamo e un pochino comprendiamo. Meglio se è passato-passato (la storia antica, così remota nel tempo e così povera di documenti, è paradossalmente quella di cui possiamo avere la conoscenza qualitativamente migliore, ma questo sarebbe lungo da spiegare), però anche il passato recente può essere illuminato da qualche raggio di luce. Posso sapere come è andata la giornata, ma solo quando è finita: farmi un giudizio di quella di ieri, non di quella di oggi.

Il 17 febbraio 1992 io ero al mondo e mi ricordo. (Un grande privilegio dei vecchi è il nitore della memoria remota nelle nebbie di quella recente: ricordiamo perfettamente cose di mezzo secolo fa, ma non se stamattina abbiamo preso o no le pillole per la pressione).

L’arresto di Mario Chiesa, che segnò l’inizio “ufficiale” dell’operazione Mani Pulite, parve una brillante inchiesta giudiziaria contro dei politici corrotti. Era invece l’inizio di un colpo di stato per via giudiziaria; sostanzialmente riuscito, possiamo dire a distanza di trent’anni. Pareva allora quasi a tutti che avessimo un sacco di motivi per essere scontenti della nostra repubblica (notre chère république, come dicono, o dicevano, i francesi della loro). Dopo trent’anni, possiamo serenamente affermare che la nostra situazione è immensamente peggiorata, da tutti i punti di vista. Saperlo è l’unico motivo di conforto.

Siamo girati dalla parte sbagliata.

14 lunedì Feb 2022

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chiesa e mondo, conversione, Dio è tutto, mondanità spirituale

Sento il bisogno di ripetere innanzitutto a me stesso, e poi anche alle persone che passano di qui, una osservazione di Agostino che mi ha da tempo folgorato. Siccome ne avevo scritto qualcosa circa tre anni fa, e rileggendo quel pezzo mi pare che funzioni ancora, mi permetto di riproporlo, qui: https://leonardolugaresi.wordpress.com/2019/03/23/una-questione-di-posizione-santagostino-ci-spiega-tutto-per-la-nostra-conversione/

In questi tre anni non direi che la situazione della chiesa sia migliorata, anzi! I cristiani continuano a sentirsi ripetere che devono guardare il mondo, gli uomini e ora anche la “madre terra” (!). Quale prete, o vescovo o cardinale o papa, comincerebbe oggi l’omelia di una messa funebre come fece Massillon al funerale di Luigi XIV (e sia reso grazie alla santa memoria di don Giussani che ce lo ricorda!): Dieu seul est grand, mes frères? Che era poi nient’altro che il modo, comprensibile perfino alla corte di Versailles, per dire una cosa ancor più radicale: Dio solo è.

Non saprei quale altro significato attribuire, se non questo di un’errata direzione dello sguardo, al concetto di “mondanità spirituale” che oggi viene tanto spesso evocato, quasi mai chiarito e, temo, quasi sempre equivocato. E penso che sia lecito anche temere che tutto il gran parlare che ora si fa di una “chiesa sinodale”, qualunque cosa ciò voglia dire, non porti ad altro che ad una chiesa ancor più intenta a guardare (e a parlare di) se stessa intenta a guardare il mondo. “Alla luce del vangelo”, naturalmente!

Un verso, un verso solo. (#Dante, Paradiso, Canto VI, v. 124)

11 venerdì Feb 2022

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#Dante, armonia, Bellezza, musica, poesia

Dopo aver camminato nel canto VI ed avere raccolto qualche dono della sua ricchezza, mi volgo indietro “a rimirar lo passo” e leggo un verso: «Diverse voci fanno dolci note» (v. 124). Non sono io che torno da lui, è lui che viene da me, e si impone, lasciandomi stupito di non averlo notato prima.

Com’è bello! Non dirò che è “di straordinaria, incomparabile bellezza”, e nemmeno che è “molto“ bello; non userò gli avverbi e le altre espressioni di rinforzo che si presenterebbero, con una certa petulanza, alla mia mente. Ciò che è bello è bello, e non ammette comparazioni, gradazioni, aggiunte … “molto bello” è meno di “bello”; “una grande bellezza” è una cosa come un’altra; “più bello” relativizza e “meno bello” vuol dir brutto.

Diverse voci fanno dolci note. Il grammatico qui vede solo cinque parole, tra le più semplici del lessico comune, disposte nel modo più ordinario. Non vi è traccia di alcuna rielaborazione “poetica” (neanche l’ombra di una figura retorica, tanto per dire, a meno che non si voglia considerare tale l’ormai scontata sinestesia di “dolci note”). Eppure, come è bello! Il lettore se ne accorge – magari solo alla fine, in un ultimo sguardo retrospettivo, se è un po’ tardo come me – e lo contempla pieno di meraviglia.

Donde nasce la sua bellezza? L’assoluta semplicità ci aiuta a intuirlo, perché elimina ogni ipotesi alternativa: è il puro splendore della sua verità, in una perfetta illustrazione della definizione tomista di pulchritudo. Diverse voci fanno dolci note: è vero, è proprio così.

Diverse voci fanno dolci note: non qui, purtroppo, nel nostro mondo moderno che conosce ormai solo due condizioni, entrambe miserabili: la plumbea monotonia (nel senso stretto di mono-tonia) del pensiero unico, dove si può soltanto martellare continuamente un’unica nota; oppure la cacofonia, in cui tante voci diverse si sovrappongono a casaccio. Senza armonia.

Diverse voci fanno dolci note, infatti, solo se c’è una partitura, composta da Qualcuno che conosca armonia e contrappunto. Come lì, nel Paradiso: «Diverse voci fanno dolci note; / così diversi scanni in nostra vita / rendon dolce armonia tra queste rote» (vv. 124-126). Come accadrebbe anche nel nostro mondo, se gli uomini ascoltassero il Maestro.

Post scriptum. Diverse voci fanno dolci note. Io questa intonazione la sento, qui nella nostra piccola comitiva dantesca, e sono davvero grato a tutti gli amici che fanno sentire la loro voce. Timbri, ritmi e melodie sono diverse, ma abbiamo tutti chi ci dà il La.

«Se ‘l mondo sapesse»: Romeo di Villanova e Joseph Ratzinger (#Dante, Paradiso, canto VI, 127-142).

09 mercoledì Feb 2022

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Benedetto XVI, ingratitudine, politica, Romeo di Villanova, sacrificio

Per quanto profonde e importanti siano le considerazioni teologico-politiche contenute nel discorso di Giustiniano, di cui abbiamo parlato nei giorni scorsi, il cuore pulsante del canto VI non è lì. Il centro, come altre volte nella costruzione poetica di Dante, è paradossalmente ai margini. Ricordate, ad esempio, Pier Pettinaio, nel canto di Sapia? (Qui: https://leonardolugaresi.wordpress.com/2021/03/02/una-donna-insopportabile-e-uno-che-le-vuol-bene-dante-purgatorio-canto-xiii-vv-91-154/). Come allora, anche adesso la chiave che apre il senso di tutto è nelle mani di un personaggio minore, uno che è come «la pietra scartata dai costruttori». Il tesoro non si trova nell’imponente scrigno messo in bella vista a catturare lo sguardo dei superficiali e degli sciocchi, ma giace seminascosto in un angolino, sotto la specie dimessa di un oggetto di poco valore, perché solo chi sa lo raccolga, proprio come avviene in certe favole sapienti.

Movenze da favola, non per nulla, ha il racconto della storia di Romeo di Villanova, a cui sono dedicati gli ultimi sedici versi del canto VI, che sono quelli decisivi. Il personaggio dantesco, infatti, ha caratteristiche molto diverse da quelle del personaggio storico di cui ci parlano le fonti: sostanzialmente un abile uomo politico come tanti altri, che fu al servizio del conte di Provenza nella prima metà del XIII secolo. Il Romeo immaginato da Dante, probabilmente nel solco di una leggenda che esisteva già ma che viene da lui ripresa e approfondita, è una mirabile incarnazione del “giusto sofferente”, in una forma però che illustra specificamente il significato morale e spirituale che l’azione politica ha per colui che la compie. Il punto che viene messo a fuoco è dunque precisamente quello del rapporto tra la persona del politico e il potere che essa gestisce.

Che cosa deve aspettarsi, come ricompensa del suo impegno, chi “fa politica” mettendo la sua vita al servizio del “bene comune”, cioè concretamente di un’istituzione o di un potere che rappresentano la comunità? La risposta, dolorosamente maturata da Dante nella sua esistenza di politico sconfitto, esiliato e privato dell’onore, è netta e sconcertante: l’ingratitudine. Quel «disdegno» che l’animo di Pier delle Vigne non aveva potuto in alcun modo sopportare ed a cui aveva risposto col «disdegnoso gusto» di darsi la morte. Romeo, per questo aspetto, è dunque non l’antitesi ma la risoluzione del nodo aggrovigliato che il canto XIII dell’Inferno ci aveva proposto (vedi qui: https://leonardolugaresi.wordpress.com/2019/12/10/accettare-lingratitudine-dante-inferno-canto-xiii-quarto-passo/). Lo è con la semplice testimonianza della sua vita, così narrata dall’imperatore Giustiniano:

«E dentro a la presente margarita / luce la luce di Romeo, di cui / fu l’ovra grande e bella mal gradita. […] Quattro figlie ebbe, e ciascuna reina, / Raimondo Beringhiere, e ciò li fece / Romeo, persona umile e peregrina. // E poi il mosser le parole biece / a dimandar ragione a questo giusto, / che li assegnò sette e cinque per diece, // indi partissi povero e vetusto;» – povero e vetusto: un’altra icona di quell’eroismo della vecchiaia di cui qui si è parlato altre volte – «e se ‘l mondo sapesse il cor ch’elli ebbe / mendicando sua vita a frusto a frusto, // assai lo loda, e più lo loderebbe» (vv. 127-142).

Sembra che Dio paghi così, con questa “cattiva moneta” che tra di noi non ha corso legale e che tutti vorremmo respngere, quei suoi servitori che, con cuore puro e giusto, Lo hanno servito servendo gli uomini, come Egli stesso ci ha detto di fare, nella dimensione pubblica che siamo soliti chiamare “politica”: gli fa bere, come ha fatto con suo Figlio, l’amaro calice dell’ingratitudine. Vista da noi, con i nostri occhi che non sanno sollevarsi dall’orizzonte mondano, questa è una cosa mortificante, un buco nero che inghiotte ogni ardimento e ogni progetto. A che vale impegnarsi per una causa, per quanto giusta e nobile, se poi si deve finire così? È il buio della negazione assoluta in cui si spegne la vita di Pier delle Vigne. «Dentro a la presente margarita» – cioè dal punto di vista del Paradiso – «luce» invece «la luce» di una personalità come quella di Romeo totalmente purificata e perciò totalmente capace di accogliere e di riflettere lo splendore della luce divina. Teniamo presente che il cielo di «questa picciola stella», Mercurio, «si correda / d’i buoni spirti che son stati attivi / perché onore e fama li succeda» (vv. 112-114), il che significa che hanno agito, hanno fatto politica, aspettandosi come premio la riconoscenza altrui. Questo è del tutto umano, ma non è ancora, per quanto buone siano le opere, “dare la vita per l’opera di un Altro”. Ai suoi prediletti, Dio toglie dunque proprio quello che si aspettano; a loro riserva lo stesso calice prezioso, e amarissimo, che suo Figlio ha bevuto sino all’ultima goccia.

C’è, nella meravigliosa favola dantesca, una letizia sovrumana che rende lievi le dolorose vicende di Romeo. Come potremmo non restare incantati dalla leggerezza con cui, «povero e vetusto», egli si allontana in silenzio dalla corte a cui aveva dato tanto, senza proteste, senza rivendicare nulla per sé, senza nemmeno replicare alle «parole biece» degli ingrati e dei malvagi che gli hanno chiesto conto di tutto il bene fatto, anzi glielo hanno addirittura imputato? E come non commuoversi, pensando all’eroismo quotidiano della sua vecchiaia consumata a mendicare «frusto a frusto», all’insaputa di tutti?

Ma non è una favola. In questi giorni, proprio in questi giorni, noi abbiamo ricevuto in dono la testimonianza di un altro vegliardo, da Dio prediletto, che dopo aver speso la sua vita servendo in pura obbedienza al Signore un’istituzione pubblica – nel suo caso la chiesa cattolica – ha ricevuto in cambio lo stesso calice di ingratitudine. Nel testo con cui Joseph Ratzinger, sulla soglia dei suoi 95 anni!, risponde alle «parole biece» dei suoi accusatori (che in gran parte sono apostati infiltrati nella civitas Dei), spira, inconfodibile, la stessa aria di sovrumana, inconcepibile letizia, pur nel dolore, che abbiamo appena sentito nei versi danteschi.

Il tradimento dei vecchi.

06 domenica Feb 2022

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critica al potere, Dante, libertà, pandemia, paura, vecchiaia

Tra i mali che affliggono la nostra società uno dei più gravi, a mio avviso, è il tradimento dei vecchi, con il genitivo soggettivo, non oggettivo. Non parlo del fatto che i vecchi sono stati traditi (come tutti, del resto), ma del fatto che hanno tradito. (Abbiamo tradito: tutto quanto segue vale anche per me).

Cosa hanno tradito? Il loro compito, la loro missione più alta, la ragione precipua per cui stanno ancora al mondo. Quale? Essere liberi, e difendere la causa della libertà in un mondo che la odia a morte e cerca di soffocarla in tutti i modi. Dunque criticare il potere.

Chi mai può farlo, in un mondo come quello che abbiamo costruito, se non loro? Un mito romantico duro a morire indica nei giovani gli alfieri naturali della causa della libertà. Sarebbero i giovani – naturalmente pieni di forze, di desideri e di ideali, ancora in parte incorrotti dalle abitudini “borghesi” e dalle seduzioni del potere, strutturalmente portati alla contestazione degli assetti sociali e culturali consolidati e tesi alla ricerca di nuovi orizzonti – sarebbero loro, secondo questo mito, i primi affidatari della più nobile e indispensabile tra le imprese umane: lottare per la libertà.

Ma lo vedete in che condizione sono ridotti i giovani? Avviliti, abbruttiti, emarginati, ridotti all’impotenza, spaventati. Soprattutto spaventati. Inabili alla critica e perciò disponibili a fare da comparse per campagne di masse, finte battaglie decise a tavolino da chi detiene il Potere. La “contestazione giovanile” è una cosa che si narra sia esistita circa mezzo secolo fa, ma le cronache non sono concordi in proposito: secondo alcuni anche allora fu solo una sceneggiata, altri sostengono invece che qualcosa di vero ci fosse, ma in ogni caso si sa come è finita: molto male, anzi malissimo. Così come sono per lo più invecchiati malissimo coloro che ne furono i giovani protagonisti. Quelli in cui ora viviamo, almeno in questa parte del mondo, sono tutti “paesi per vecchi”, in cui i giovani sono “fuori posto”. E non si dica che il tempo comunque lavora per loro perché alla fine i vecchi crepano. Sì, i vecchi crepano, ma nel frattempo i giovani diventano vecchi a loro volta (e in gran parte “vecchi malvissuti,” per giunta). Che ne sanno di libertà, i giovani oggi?

Allora i bambini. Ecco, l’innocenza dei bambini, miracolosamente, per un insperato e immeritato dono di grazia, potrebbe forse salvarci. Le parole di verità di cui abbiamo disperato bisogno per essere liberi potranno forse venirci “dalla bocca dei bambini e dei lattanti”, come dice il salmo. Sì, l’innocenza dei bambini. Ma a parte il fatto che questo mondo è impegnato fino allo spasimo per strappargliela prima possibile, quell’innocenza tanto temuta e tanto odiata, i bambini per definizione dipendono. Dal babbo e dalla mamma, innanzitutto, e poi dagli altri adulti che hanno cura di loro. E che cosa hanno ricevuto, soprattutto in questi ultimi anni, dagli adulti, se non dosi massicce di paura, che è il primo nemico della libertà?

Dunque toccherà agli adulti, il compito di battersi per la libertà. D’altronde, non tocca sempre a loro, ai padri e alle madri, farsi carico di tutto, e specialmente di ciò che è sgradito e gravoso, per il bene di tutti, dei piccini e dei vecchi? La società non si regge sempre, in fin dei conti, su Enea che in mezzo al disastro porta sulle spalle il vecchio Anchise, che da solo non ce la fa, e tiene per mano il piccolo Ascanio, che da solo non ce la farebbe? Sì, tocca agli adulti, (cioè ai padri e alle madri, perché l’adulto che non genera – in senso spirituale se non carnale – non è veramente adulto). Ma a parte il fatto che questo mondo è impegnato fino allo spasimo anche nel distruggere l’idea stessa di maternità e ancor più di paternità e nel rendere a tutti insopportabile il concetto di virilità – che, come abbiamo imparato leggendo Dante, non è solo dei maschi ma appartiene anche alla donna forte: come Beatrice che sul carro, nel paradiso terrestre, appare al piccolo Dante nell’atto di un ammiraglio. (Chi non l’ha letto o non se lo ricorda può andare qui: https://leonardolugaresi.wordpress.com/2021/09/14/chi-e-beatrice-dante-purgatorio-canto-xxx-vv-55-132/) – a parte tutto questo, gli adulti, appunto, hanno da fare. Sono quelli più impegnati, dunque anche quelli più legati. Le posizioni di potere che occupano sono anche altrettanti vincoli che li inchiodano ai sistemi di cui fanno parte. La sua presa di posizione in favore della libertà, l’adulto la paga in termini di posizione sociale, posto di lavoro, risorse per mantenere la famiglia eccetera eccetera. Richiede eroismo la libertà degli adulti, e spesso anche la capacità di superare il conflitto morale con gli obblighi che essi hanno verso coloro che dipendono da loro: “tengo famiglia“ non è solo un comodo alibi morale – il motto dell’Italia, secondo Longanesi – ma anche una realtà.

Tolti tutti gli altri, restiamo solo noi. I vecchi. Forse il compito di essere liberi, di difendere la causa della libertà e di essere acutamente critici nei riguardi di ogni potere, spetta in primo luogo a noi. Questa dovrebbe essere la ragion d’essere della nostra permanenza, questa la nostra impresa, questa la forma del nostro “eroismo”. (Anche su questo Dante ci ha insegnato qualcosa di essenziale, presentandoci la figura di Ulisse “vecchio e tardo”. Chi non ha letto o non ricorda può andare qui: https://leonardolugaresi.wordpress.com/2021/03/07/leroismo-dei-vecchi-una-nota-sullulisse-di-dante-con-un-cenno-a-papa-francesco/).

Un “eroismo”, quello dei vecchi, dopotutto più facile e in un certo senso più dovuto di quello degli adulti, dei bambini e dei giovani, perché fondato su almeno due buone ragioni: la prima è che quel piede che, come con disinvolta brutalità spesso si dice, ogni vecchio ha già nella fossa è un ottimo punto di appoggio per stare dritti e liberi. Chi ha meno impacci a criticare il modo in cui è organizzato il mondo, di colui che sta per lasciarlo? Chi ha meno remore nel correre il rischio di perdere qualcosa, di colui che non ha nulla da perdere? La seconda ragione è che noi vecchi, se abbiamo conservato la memoria, sappiamo che il mondo è andato anche diversamente da come va oggi, in meglio o in peggio. E la memoria della differenza è ciò che permette la critica dell’esistente. Tante cose oggi sono fatte male, e noi potremmo dirlo perché ci ricordiamo un altro modo di farle, più vero, più giusto, più bello. I migliori critici del pensiero unico, dunque, potremmo essere noi perché conosciamo altri modi di pensare.

In questo dunque consiste il nostro tradimento: a quel dovere che ci spettava di essere una coscienza critica per il bene dei nostri figli e nipoti, siamo in gran parte venuti meno. Sono tre i peccati che ce lo hanno fatto commettere, ma la loro radice è una sola:

  1. Alcuni, per la paura di morire, si sono attaccati morbosamente al potere che avevano. Identificandosi con esso, perdono ovviamente la possibilità di dire anche solo una parola di verità, quindi di liberazione, dalla sua intrinseca violenza. Invece di essere la coscienza critica della società, ne sono ancora i dominatori, disposti a tutto pur di non farsi scalzare dal trono. (Guardatevi attorno: dappertutto è pieno di vecchi che non mollano e non si schiodano dalle loro poltrone. Del resto, non stiamo tutti qui a celebrare trionfalmente un presidente della repubblica che, a più di ottanta anni, ci teneva molto ad essere rieletto per altri sette, ci è riuscito e dunque sarà capo dello stato fin quasi a ottantotto?)
  2. Molti altri, per paura di essere umiliati ed emarginati (che poi è sempre una versione della paura della morte) si sono lasciati espropriare della diversità culturale costituita dalla loro stessa vecchiaia. Invece di difendere fieramente il loro sguardo senile sulla realtà, invece di rivendicare la maggiore saggezza che deriva dall’aver molto vissuto, si sono supinamente accodati, in fila come gli altri, a ripetere le stesse stupide cose “moderne“ che dicono tutti, quando non addirittura a fingersi, pateticamente, giovani.
  3. Quasi tutti si sono semplicemente lasciati travolgere dalla paura della morte in quanto tale e vivono di paura. Ora, è naturale che il senso della propria crescente fragilità generi in ognuno una crescente apprensione (di dimenticarsi le cose, di non saperne fare di nuove, di ammalarsi, di cadere, di restare senza soldi, di essere aggrediti o ingannati, di restare soli, e chi più ne ha più ne metta), ma quella è una paura carnale; è il corpo che si allarma perché non funziona più bene come prima. La paura da cui ci siamo fatti dominare noi è invece una paura spirituale. È il frutto dell’incapacità di traguardare l’eterno. Da questo punto di vista la pandemia è stata davvero devastante: toccava a noi testimoniare che si può non essere schiacciati dalla paura della morte, a noi che comunque le siamo così prossimi.

C’è qualcosa che non mi torna.

03 giovedì Feb 2022

Posted by leonardolugaresi in Senza categoria

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Tag

catechismo, Chiesa, comunione dei santi, libertà, magistero, papa Francesco, peccato mortale

Ieri, all’udienza generale del mercoledì, il papa, parlando della comunione dei santi ha detto testualmente quanto segue: «Pensiamo, cari fratelli e sorelle: in Cristo nessuno può mai veramente separarci da coloro che amiamo perché il legame è un legame esistenziale, un legame forte che è nella nostra stessa natura; cambia solo il modo di essere insieme a ognuno di loro, ma niente e nessuno può rompere questo legame. “Padre, pensiamo a coloro che hanno rinnegato la fede, che sono degli apostati, che sono i persecutori della Chiesa, che hanno rinnegato il loro battesimo: anche questi sono a casa?”. Sì, anche questi, anche i bestemmiatori, tutti. Siamo fratelli: questa è la comunione dei santi. La comunione dei santi tiene insieme la comunità dei credenti sulla terra e nel Cielo.» (Chi vuole, può controllare qui: https://www.vatican.va/content/francesco/it/audiences/2022/documents/20220202-udienza-generale.html).

Il Catechismo della Chiesa Cattolica afferma invece che «Il peccato mortale è una possibilità radicale della libertà umana, come lo stesso amore. Ha come conseguenza la perdita della carità e la privazione della grazia santificante, cioè dello stato di grazia. Se non è riscattato dal pentimento e dal perdono di Dio, provoca l’esclusione dal regno di Cristo e la morte eterna dell’inferno; infatti la nostra libertà ha il potere di fare scelte definitive, irreversibili.» (n. 1861).

Mi chiedo: come possono essere vere entrambe le asserzioni? Se nemmeno il peccato mortale può escludere dalla comunione dei santi, come sostiene il papa, ne consegue che esso non è affatto «una possibilità radicale della libertà umana», la quale in definitiva non esiste perché l’uomo è comunque obbligato ad accettare l’amore di Dio. Dunque il Catechismo (e con esso tutto il bimillenario magistero della chiesa che lo precede) sbaglia. Se invece è vero ciò che dice il Catechismo, come può il papa sostenere che anche chi rinnega il battesimo, bestemmia Dio e perseguita la chiesa resta dentro la comunione dei santi?

Tutto ciò supera la mia capacità di comprensione. Se qualcuno può spiegarmelo – senza ricorrere al solito escamotage di dare alle parole del papa un senso completamente diverso da quello che evidentemente hanno nel codice della lingua in cui sono proferite – gliene sarei sinceramente grato.

Perché non ci si può battezzare da soli. (Sarebbe bello se qualcuno lo spiegasse a #AchilleLauro)

02 mercoledì Feb 2022

Posted by leonardolugaresi in Senza categoria

≈ 4 commenti

So a malapena chi sia Lauro De Marinis, in arte Achille Lauro, e quindi non sono assolutamente n grado di dire se la bulimia con cui, a quanto vedo, sin dall’inizio della sua attività egli continua a “saccheggiare“ pezzi di cristianesimo sia solo una trovata commerciale o il sintomo di un’autentica ossessione, in quanto tale bisognosa di rispetto e misericordia e dunque meritevole di giudizio. Nel caso, non improbabile, che ci fosse, magari mescolato all’impostura e alla furbizia, anche qualcosa di vero nella sua compulsione a “mettersi addosso“ cose cristiane, penso che egli avrebbe bisogno di incontrare dei veri cristiani.

Dei cristiani potrebbero infatti aiutarlo a comprendere che versarsi dell’acqua sulla testa non è una parodia del battesimo (e men che meno una sua reinterpretazione / risignificazione). Non è niente, in realtà. Gli potrebbero spiegare che il battesimo è una cosa così essenziale che gli si può fare praticamente di tutto, ma non cambia, non si rompe e non si deforma. La sua intangibilità è un tutt’uno con la sua estrema povertà di forma e di materia. Non gli si può far niente perché è fatto quasi di niente. Tolto di mezzo tutto il contorno liturgico (o parodiato, reinventato, irriso in maniera blasfema finchè si voglia – che fa lo stesso), resta il fatto che in caso di necessità il battesimo si riduce a “una cosa da niente”: uno (al limite proprio uno qualsiasi, anche un non cristiano!) che versa un po’ d’acqua (bastano poche gocce) sulla testa del battezzando, dicendo: «Io ti battezzo nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo» con l’intenzione di compiere ciò che compie la chiesa. Punto. Il miracolo della salvezza avviene, contro tutto e contro tutti, dentro una forma risibile come questa. Una sola cosa non si può fare: battezzarsi da soli. Neppure con le migliori intenzioni del mondo, con tutta l’acqua del mondo e con tutti i libri e gli arredi liturgici del mondo. Ci vuole un altro che ti battezzi, nel nome dell’Altro. E questa è una cosa profondissima, direi che, in nuce, è tutto il cristianesimo: non “Io che faccio“, ma “Tu che mi fai”.

Non so che cosa creda di aver fatto lui, ma so che avrebbe bisogno di qualcuno che lo aiutasse a capire che non ha fatto niente (forse dei soldi, ok, ma non è di questo che stiamo parlando). Può saccheggiare finché vuole il patrimonio della chiesa – il cristianesimo è per natura saccheggiabile, essendo la fede nel Dio che si è lasciato mettere le mani addosso da gente come noi – ma resterà con in mano delle spoglie inerti e morte; la carne viva del corpo di Cristo gli sfuggirà sempre.

Per capirlo, dovrebbe però incontrare dei veri cristiani, capaci di “vagliare tutto e trattenere ciò che vale”. Il che al giorno d’oggi non è così facile.

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