• Info
  • La chiesa e la crisi degli anni sessanta.

leonardolugaresi

~ Vanitas ludus omnis

leonardolugaresi

Archivi Mensili: agosto 2019

L’amore? Un problema. (#Dante, Inferno, canto V, quarto passo)

31 sabato Ago 2019

Posted by leonardolugaresi in Dante per ritrovarsi, Senza categoria

≈ 6 commenti

Tag

amore, Beatles, Dante, Dostoevskij, inferno

La semantica dell’amore compare tardi nel canto V, e di soppiatto, al v.61, con un aggettivo usato in funzione avverbiale: «L’altra è colei che s’ancise amorosa». Tutti i commentatori, ovviamente, spiegano: “si uccise per amore”, ma così facendo sciolgono l’ossimoro disturbante che la giuntura dantesca invece mette avanti. Provate a sostituire il verbo con uno più consono e sentite subito, per contrasto, quant’è stridente l’espressione scelta dal poeta: [la mamma] assiste amorosa [il figlio malato]; [la giovane moglie] guarda amorosa [il ritratto del marito lontano]; [la donna tradita] si uccide amorosa …

Attenzione: non è il tema “romantico” di Amore e Morte. Questo canto è il più anti-romantico che si possa immaginare e una sua lettura “sentimentale” è possibile solo a lettori molto distratti e inconsapevoli delle trappole che contiene.

Prima del verso 61, di amore non si era parlato affatto. Tutto era pianto rabbioso, disperazione e lussuria. Una volta entrato, però, l’amore non se ne va più: nei nove versi dal 61 al 69 compare tre volte, sempre in collegamento con la negazione di se stesso: «s’ancise amorosa»; «con amore … combatteo» (v.66); «amor di nostra vita dipartille» (v.69). Non quindi amore e morte, ma amore che fa morire.

Dopo il quasi-smarrimento del v. 72, Dante prende l’iniziativa («I’ cominciai») e osa fare una precisa richiesta a Virgilio: «volentieri / parlerei a quei due che ‘nsieme vanno» (v.74). Attenti, come ho detto questo canto è pieno di trappole. Qui per esempio è innegabile che ci sia qualcosa di unico, di eccezionale, che attira in modo irresistibile Dante con tutto il suo bisogno di capire il senso di ciò che gli viene mostrato (fa il viaggio per quello). Due vanno insieme.

Ma se veramente due vanno insieme, non sono più all’inferno. L’inferno non c’è. Tutti conoscono una frase famosa di Dostoevskij che nei Fratelli Karamazov definisce l’inferno come «la sofferenza di non poter amare»; forse potremmo dire l’impossibilità di amare. Se c’è amore non c’è inferno. Bene, questo è rigorosamente vero in tutto l’Inferno dantesco, dove l’amore è totalmente assente, con l’unica (e in senso proprio assurda) eccezione rappresentata proprio da Dante stesso, che scende agli inferi essendo ancora vivo, dunque non nell’impossibilità di amare. Il lettore non dimentichi mai questo criterio ermeneutico fondamentale: tutto ciò che di “umano” e persino di nobile e di grande incontrerà qui, nell’Inferno, è dovuto – direttamente o indirettamente – alla presenza di Dante, cioè di un uomo vivo, per quanto piccolo, debole e peccatore. Le grandezze di Francesca, di Farinata, di Brunetto, di Ulisse e di qualche altro sono tali solo in quanto si riverberano nell’animo di Dante.

Al quale Dante, «quei due che ‘nsieme vanno» «paion sì al vento esser leggieri» (v.75). Continua, anzi si accentua, l’ambiguità di cui sopra abbiamo notato i primi segni e che sarà la caratteristica dominante del canto. La leggerezza, a noi che siamo tutti calviniani (io no, veramente), sembra d’istinto una cosa bella, ma dipende: se tira un gran vento sarebbe molto meglio essere pesanti. Le cose si fanno ancora più complicate al v.78, quando è Virgilio stesso a certificare che lì ci sarebbe amore: «e tu allor li priega / per quello amor che i mena». Sagacissimo  il commento di don Giacomo Poletto, uno studioso ottocentesco di Dante – di cui confesso di non sapere niente ma che sospetto valga assai più di quello che i dantisti mainstream del suo tempo lo stimarono (forse perché era un prete), e che forse bisognerebbe andare a leggere– : «La bufera è qui identificata, senza residui, con quello amor che in vita travolse le due anime». Noi potremmo dire: è “un amore che mena” e in questo caso il fraintendimento del verbo coglierebbe nel segno.

Di qui in avanti, a prima vista è tutta dolcezza, tutto sentimento sublime, tutto gentil core, tutto Amore con l’A maiuscola. Se è lecito lo sberleffo: Love love love. There’s nothing you can do that can’t be done. Nothing you can sing that can’t be sung. All you need is love.

A prima vista. Cioè alla vista dei tanti, troppi lettori (anche critici e poeti laureati) che si fermano alla prima vista. Alla superficie di un testo genialmente intriso di quello stesso veleno letterario di cui si propone di essere l’antidoto. Perché questa mi pare sia l’impresa prodigiosa riuscita a Dante: dar vita alla più grande espressione di quella stessa cultura di cui decreta la condanna a morte.

Di qui il doppio registro. «Quali colombe dal disio chiamate …»: come non inumidirsi di commozione? ma subito dopo ci avverte che «cotali uscir de la schiera ov’è Dido» (v.85). E sappiamo che razza di gente sia. «O animal grazïoso e benigno»: quanta dolce signorilità di tratto in questa apostrofe! Ma subito dopo: «noi che tignemmo il mondo di sanguigno». Un’iperbole espressionistica, con la quale – nota finemente Anna Maria Chiavacci Leonardi – «s’intona sul suo vero registro quella storia che pare così piena di dolcezza».

A questo punto ci imbattiamo in una preghiera:«Se fosse amico il re dell’universo, / noi pregheremmo lui de la tua pace». Qui davvero non bisogna perdere l’orientamento perché è facilissimo smarrirsi. Ok, che sia un periodo ipotetico del terzo tipo lo vede chiunque: Francesca non prega perché Dio non è amico, ma pregherebbe se lo fosse. Ma qualunque lettore è in grado, specialmente al giorno d’oggi che siamo tutti per la misericordia, di fare il passo successivo: “sì, ma questa è la preghiera del pubblicano, la più gradita al Signore! Dio, io non ti posso pregare perché ho rotto l’amicizia con te, ma se potessi ti pregherei”. Se dico così, di fatto ti prego, e Gesù ci ha insegnato che questa preghiera vale eccome, anzi vale più di tutte le altre. Eccoci in trappola: se c’è preghiera non c’è inferno. Perché se c’è preghiera c’è relazione, e in definitiva c’è amore. Se all’inferno la sofferenza di non poter pregare vale come preghiera, se cioè la sofferenza di non poter amare vale come amore, l’inferno non c’è. O meglio, diabolicamente, l’inferno è [come] il paradiso.

Di qui la necessità di richiamare il principio ermeneutico enunciato sopra. La quasi-preghiera di Francesca, che per lei è assolutamente una non-preghiera, fiorisce solo per la presenza «affettuosa» di Dante, l’unico uomovivo lì presente, l’unico che può pregare. Del resto la terzina dantesca lo dichiara esplicitamente, con un nesso causale che non mi pare sia solitamente rilevato con sufficiente chiarezza dai commentatori: «noi pregheremmo lui de la tua pace, / poi ch’hai pietà del nostro mal perverso» [vv. 92-93].

[domani e lunedì sono fuori sede. Finiamo martedì]

 

Il governo Semiramide. (#Dante, Inferno, Canto V, terzo bocconcino)

29 giovedì Ago 2019

Posted by leonardolugaresi in Senza categoria

≈ 8 commenti

Tag

Dante, giudizio, legge, lussuria

Nella massa dei «peccator carnali / che la ragion sommettono al talento» e che la «bufera infernal» percuote e sbatte da tutte le parti, Dante vede «venir traendo guai» (v.48), cioè urlando di dolore come cani (“guaito” chiamiamo appunto il verso insopportabile di un cane ferito o battuto), delle ombre che paragona alle gru che «van cantando lor lai, / faccendo in aere di sé lunga riga» (vv. 46-47). “Lai”, messo in rima con “guai” è parola nobile, che rimanda alla letteratura francese d’amore (i Lai di Maria di Francia e compagnia bella): roba fine, roba da signori. Annotatevi intanto questa rima lai – guai, che fa un bel cortocircuito tra alto e basso, nobili dame e cagne.

Parentesi: in quest’ultima lettura del canto mi è sorto un dubbio che non mi era mai venuto le mille altre volte precedenti: ma siamo sicuri che la similitudine vada intesa (come però mi pare intendano tutti) nel senso che queste “ombre” a differenza di tutte le altre volano in formazione rettilinea? Oppure il «come i gru» va riferito soltanto al verso che fanno (i lai-guai) e per il resto sono sbattuti come gli altri?

Comunque sia, a domanda di Dante, Virgilio spiega chi sono costoro. Potremmo pensare che qui, dal v.52 al v.69, si apra un altro capitolo di quella “poesia dei nomi” di cui abbiamo parlato qualche giorno fa a proposito degli spiriti magni del limbo. Sì e no. Infatti, se si fanno i conti, ben 9 versi su 18 sono dedicati a un solo personaggio, Semiramide, che dunque ha un ruolo preminente, mentre negli altri nove versi vengono menzionati solo 6 personaggi, aggiungendo però che Virgilio ne addita a Dante «più di mille».

Dunque, Semiramide. Di lei si dice che  «A vizio di lussuria fu si rotta, / che libito fé licito in sua legge, / per tòrre il biasmo in che era condotta» (vv.55-57). Son versi che conoscono tutti, ma proprio tutti. E non per caso: Dante, quando vuole, sa benissimo come fare a scolpire delle frasi che ti si attaccano alla memoria e non le schiodi più. In tre versi, un giudizio esauriente sul processo culturale da sempre tentato nel corso nella storia umana e oggi arrivato al suo culmine, che si chiama abolizione del giudizio.

La legge, in questo processo, gioca un ruolo di grande rilevanza. C’è infatti una fondamentale ambivalenza nel diritto, che i giuristi romani avevano già enucleato in due motti altrettanto scolpiti quanto i versi danteschi: da una parte il diritto è ars boni et aequi, cioè l’arte di realizzare il bene e la giustizia e, come tale, esso si basa su un nesso inscindibile con la verità. Dall’altra, però, quod principi placuit, legis habet vigorem. Ciò che il sovrano ha deciso è legge (e dunque la legge altro non è che il deliberato del sovrano). Qui il nesso con la verità va a farsi benedire.

Oggi (ma non da oggi) Semiramide è al governo e “libito fa licito in sua legge”. La paronomasia dantesca non è un concettino barocco, un’arguzia buona per farci ammirare quanto è spiritoso: davvero basta cambiare una “b” con una “c” per stravolgere l’intera tavola dei valori. In campo legislativo, poi, quante volte si è visto che basta spostare una virgola, sostituire una preposizione o un avverbio con un altro, inserire un inciso di quattro parole per cambiare completamente il senso di una norma!

Ma perché Semiramide ci tiene tanto a cambiare le leggi? Per tòrre il biasmo in che era condotta. Cioè appunto per abolire il giudizio. Conta sul fatto che la gente si è abituata a pensare che ciò che la legge non punisce sia lecito e che ciò che è lecito sia anche buono. Tolta la legge, tolto il giudizio.

Spiegata bene la faccenda di Semiramide, che è punto chiave perché è il prototipo di tutti i governi mondani, Dante sbriga velocemente, ma fulminandoli uno per uno, altri quattro personaggi che sono dei pezzi da novanta della storia e della grande letteratura.

Didone. Non viene neanche nominata, ma indicata con una doppia perifrasi che la inchioda a quel che ha fatto: «L’altra è colei che s’ancise amorosa, / e ruppe fede al cener di Sicheo» (vv.61-62). Fa impressione. Perché nei libri, come nella vita, a volte quello che manca può fare più impressione di quello che c’è. Didone? Uno dei più grandi, se non il più grande personaggio femminile della letteratura latina? La protagonista del IV canto dell’Eneide, quel poema che Dante ha letto e riletto per tutta la vita, amandolo sopra ogni altro … Consegnata, senza pietà, alla nuda realtà dei suoi fatti: “quella che si è uccisa per amore e ha tradito la promessa fatta a suo marito”. Punto.

Cleopatra. Liquidata con un «poi è Cleopatràs lussurïosa» (v.63). Una troia, praticamente. (Niente speculazioni sulla lunghezza del suo naso, niente complessità dei caratteri come nella tragedia di Shakespeare).

Elena. Per lei un verso e mezzo micidiale: «Elena vedi, per cui tanto reo / tempo si volse» (v,64). Nel Doctor Faustus di Marlowe, Faust vedendo finalmente l’agognata bellezza di Elena si domanda: «Was this the face that launched a thousand ships?». “Era questo il volto che fece mettere in mare mille navi?” Ma nell’opera di Marlowe lo sciagurato Faust implora da lei un bacio che lo renda immortale e ci perde l’anima. Qui la domanda resta implicita, ma a me pare che contenga una risposta mortificante: “ecco, guardala quella famosa Elena per cui si è fatta una guerra durata dieci anni!”.

Achille. «vedi ‘l grande Achille, / che con amore al fine combatteo». Il grande Achille!

Attenzione però a quello che viene subito dopo: «Poscia ch’io ebbi ‘l mio dottore udito / nomar le donne antiche e ‘cavalieri, / pietà mi giunse, e fui quasi smarrito». Noi qui ci siamo permessi di fare i monelli, di dare perfino della troia a Cleopatra e di suggerire che In fin dei conti Elena, senza trucco e senza fotoshop, non sia poi granché, ma in realtà la faccenda di cui Dante si appresta a parlarci è seria, anzi è tragica. Quelle che noi abbiamo sbertucciato, sono le «donne antiche» (tutte le volte che pronuncia la parola donna, Dante si mette in piedi e a capo chino), e con loro ci sono i cavalieri, quelli antichi e quelli della letteratura “moderna”, a partire da Tristano. C’è tutto un mondo, tutta una cultura in cui Dante è cresciuto e che ha profondamente amato.

Francamente non so come si debba intendere qui la parola pietà, se sia più compassione o piuttosto angoscia, turbamento, ma il segnale mandato dal termine smarrito (provvidenzialmente attenuato da un quasi) è chiaro e fortissimo. Smarrito era Dante nella selva oscura, prima di incontrare Virgilio. Sta per crollare tutto di nuovo?

Se la teologia prescinde da Dio: parole chiare e pesanti del papa emerito Benedetto, con cui bisogna confrontarsi.

27 martedì Ago 2019

Posted by leonardolugaresi in Senza categoria

≈ 1 Commento

Tag

Benedetto XVI, crisi della chiesa, fede

Si è saputo oggi che Benedetto XVI ha scritto una breve nota a proposito del modo in cui è stato generalmente recepito, negli ambienti ecclesiastici, l’intervento sul problema degli abusi nella chiesa che egli aveva scritto come contributo all’incontro dei presidenti dell conferenze episcopali sulla crisi della chiesa e sugli abusi del clero, convocato da papa Francesco in Vaticano dal 21 al 24 febbraio scorso. Documento che, come è noto, essendo stato inspiegabilmente tenuto nascoto e del tutto ignorato da chi lo aveva ricevuto, Benedetto si era sentito in dovere di rendere pubblico nel successivo mese di aprile.

Il testo del breve commento si può leggere qui: https://www.acistampa.com/story/il-papa-emerito-risponde-nelle-reazioni-al-mio-testo-sugli-abusi-dio-non-appare-affatto-12083?utm_source=boletin&utm_medium=email&utm_campaign=newsletter.

Riporto testualmente la parte finale, che esprime un giudizio chiaro e molto pesante sull’attuale situazione della fede: «Per quanto posso vedere, nella maggior parte delle reazioni al mio contributo, Dio non appare affatto, e perciò non viene affrontato proprio quello che volevo sottolineare come il punto chiave della questione. Il fatto che il contributo di Aschmann [autrice di uno degli articoli a cui Benedetto fa riferimento] trascuri il passaggio centrale della mia argomentazione proprio come la maggior parte delle reazioni di cui sono venuto a conoscenza mi mostra la gravità di una situazione in cui la parola Dio sembra spesso emarginata nella teologia».

Secondo Benedetto XVI siamo alle prese con una teologia (sedicente) cattolica che prescinde da Dio. Se ha ragione, non è un problema questo?

 

La triste vicenda dell’ex Istituto Giovanni Paolo II: leggere e inorridire.

27 martedì Ago 2019

Posted by leonardolugaresi in Senza categoria

≈ 2 commenti

Tag

governo della chiesa, Istituto Giovanni Paolo II

Ho appena letto e consiglio di leggere questo articolo di Sandro Magister che ricostruisce, in modo come sempre molto preciso e documentato, la triste vicenda di quello che ormai andrebbe chiamato Ex Istituto Giovanni Paolo II per gli studi sulla famiglia. L’articolo riprende una dettagliata cronologia degli eventi degli ultimi tre anni stilata dalla giornalista americana Diane Montagna per il sito LifeSite News: http://magister.blogautore.espresso.repubblica.it/2019/08/27/istituto-giovanni-paolo-ii-la-trama-il-mandante-l%e2%80%99assassino/

“Parole non ci appulcro”, come direbbe il poeta: basta leggere. Se i fatti sono quelli riportati (e non ho ragione di dubitarne, perché corrispondono a quanto si è finora saputo e non è stato smentito fattualmente, ma solo retoricamente), c’è da inorridire. Non che quel tipo di modus operandi sia inaudito, anzi direi che nel mondo è addirittura normale. Si dirà che lo è stato spesso anche nella chiesa: non lo so, so soltanto che chi agisce così non si pone il problema della verità dei suoi atti. Per esempio, non avverte come problema mentire.

Ma questo non è un problema?

Il moto browniano dei lussuriosi (#Dante, Inferno, canto V, secondo assaggio)

25 domenica Ago 2019

Posted by leonardolugaresi in Dante per ritrovarsi, Senza categoria

≈ 2 commenti

Tag

Dante, lussuria, movimento

Superate le formalità di ingresso con Minosse, entriamo nel secondo cerchio. Qui è tempesta (v.29): «La bufera infernal, che mai non resta, / mena li spirti con la sua rapina; / voltando e percotendo li molesta. […] E come li stornei ne portan l’ali / nel freddo tempo, a schiera larga e piena, / così quel fiato li spiriti mali // di qua, di là, di giù, si sù li mena» (vv. 40-43).

Facciamo attenzione, come sempre, al movimento. Quelli che sono qui vanno in tutte le direzioni, come l’ultimo verso esplicita, con un’apparente giocosità quasi rossiniana («Figaro qua, Figaro là, Figaro su, Figaro giù»). Occhio, perché in questo canto molto è ingannevole (e non per caso). Anche la celebre similitudine degli storni lo è (anzi, in senso stretto è proprio sbagliata perché paragona il volo degli uccelli che sono portati dalle ali – cioè vanno dove vogliono andare – a quello degli «spiriti mali» che invece sono portati da «quel fiato», cioè da una forza esterna).

Le similitudini con gli uccelli, e in questo canto oltre agli “stornei” ci sono “i gru” e le “colombe”, a noi fanno sempre un certo effetto “romantico”. Ma qui non c’è niente di giocoso e non c’è niente di tenero o di sentimentale. Andiamo al sodo: la «bufera infernal che mai non resta» sbatte con violenza questi «spirti mali», facendoli andare insensatamente in tutte le direzioni. Se la vita è cammino, cioè libero e sensato movimento verso una meta, qui c’è una morte sconcia, che della morte non ha nemmeno la dignità che, ai nostri occhi, l’immobilità dona ai cadaveri.

Se non era movimento quello di Dante smarrito e impigliato nella selva oscura, né la corsa fanatica e insensata degli “astenuti” dietro a un’insegna vuota nell’antinferno, tanto meno lo è la forsennata sarabanda di qui.

(Il titolo di questo post vorrebbe mimare l’inganno dantesco: si chiama infatti moto browniano il movimento disordinato di microparticelle sospese in un fluido, tipo il pulviscolo atmosferico: però quello, quando lo osserviamo in una stanza semibuia in cui filtra dalle imposte socchiuse un lama di luce, ci appare come una danza piena di grazia: «di qua, di là, di su, di giù», ma senza l’orrenda violenza della bufera infernale).

Chi sono i dannati di questo cerchio? I lussuriosi, così esaurientemente definiti in nove parole, articoli compresi: «i peccator carnali, / che la ragion sommettono al talento». Nove parole che sintetizzano un giudizio culturale formidabile, che sarebbe urgente e vitale riprendere e rilanciare, oggi che non è più compreso quasi da nessuno (da pochi anche dentro la chiesa), ma che va molto al di là dei limiti di queste “pilloline” che confezioniamo qui.

Solo una minima chiosa lessicale: oggi non si sa più come parlare, perché le parole dirette, quelle chiare che tutti capiscono non si possono usare in quanto “offensive” e “divisive”. Vanno molto di moda, perciò, i giri di parole, gli eufemismi e ogni sorta di traslato che consenta di fare un po’ di nebbia. Il peccato, per esempio, adesso si chiama preferibilmente fragilità (e pazienza per il vetro, che prima era fragile e adesso si ritrova perlomeno prossimo al peccato). È abbastanza deprimente, però il fatto che il lessico tradizionale della chiesa, ormai completamente abbandonato anche dai preti, sia ormai desueto e incomprensibile, forse consente a chi voglia recuperarlo di poterlo fare senza troppi inconvenienti, un po’ come se si esprimesse in una lingua straniera. Voglio dire: chi mai usa ancora le parole “lussuria / lussurioso”? Allora forse tra: “essere in una situazione complessa, in cui si sente il bisogno di aprirsi a nuove esperienze e dare ascolto ad una parte di sé che chiede di liberare energie e pulsioni che fino ad ora erano state soffocate eccetera eccetera” (che è carino ma non si capisce un cazzo) e “fare i propri porci comodi” (che si capisce meglio ma non sta bene), lussuria potrebbe tornare ad essere un’opzione valida: chiara, sintetica e, grazie al fascino esotico della lingua straniera, abbastanza raffinata per passare indenne alla censura. (Un altro esempio: sodomia / sodomita: chi mai può prendersela per una parola che prima deve cercare sul vocbolario perché non sa che cosa vuol dire?)

Se il generale dei Gesuiti non professa la dottrina della chiesa …

22 giovedì Ago 2019

Posted by leonardolugaresi in Senza categoria

≈ 6 commenti

Tag

Diavolo, dottrina, gesuiti

Il preposito generale della Compagnia di Gesù, padre Arturo Sosa Abascal, intervistato due giorni fa al Meetingi di Rimini dal giornalista Rodolfo Casadei, ha rilasciato una dichiarazione a proposito dell’esistenza del diavolo che è in netto contrasto con la dottrina cattolica. In sostanza, padre Sosa al diavolo come soggetto personale non ci crede. Per un rapidissimo confronto tra ciò che crede lui e ciò che crede la chiesa cattolica si può andare qui: https://www.aldomariavalli.it/2019/08/21/trova-le-differenze-padre-sosa-e-il-catechismo/.

Domando: questo non è un problema? E se lo è, chi è che deve affrontarlo?

Onore e gloria al cardinale Pell. (#CardinalPell )

21 mercoledì Ago 2019

Posted by leonardolugaresi in Senza categoria

≈ 2 commenti

Tag

#cardinalPell, cardinale Pell, giustizia

Una corte australiana ha respinto l’appello del cardinale George Pell ed ha confermato la sua condanna, benché egli sia molto probabilmente innocente. Quello che è certo, in ogni caso è che: a) la condanna si è basata esclusivamente sulla parola della sedicente vittima, che accusa il cardinale di abuso sessuale, senza che vi siano plausibili riscontri esterni; b) le circostanze in cui si sarebbe consumato il delitto sono tra le più inverosimili che si possano immaginare; c) il diritto alla difesa dell’imputato è stato fortemente compresso nel corso del processo.

Con dati di fatto del genere, in un paese dotato di un minimo di civiltà giuridica l’imputato sarebbe stato assolto, se non in primo almeno in secondo grado, sulla base del più sacrosanto e benedetto dei principi di giustizia: in dubio pro reo. In Italia, pur col sistema scassato che abbiamo e la magistratura che è quella che è, avere un giudizio di appello è un diritto universalmente riconosciuto ex lege a tutti coloro che sono sottoposti ad una sentenza di primo grado: in quel posto là, invece, a quanto ho appreso in questa circostanza, tale diritto deve essere riconosciuto dal giudice, ed è sottoposto a limiti e condizioni. Già questo la dice lunga su come siano messi. In Italia, in forza di un altro principio sacrosanto e benedetto, quello della presunzione di innocenza, il condannato in primo grado attende la sentenza definitiva (che normalmente è addirittura di terzo grado perché quasi sempre si va anche in cassazione) da uomo libero, a meno che non ci siano eccezionali esigenze che impongono tassativamente la detenzione. Il cardinale Pell, invece, in quel paese di barbari, ha trascorso questi ultimi mesi in carcere, e per giunta in regime di isolamento, benché non fosse in alcun modo pericoloso socialmente, né vi fosse possibilità di reiterazione del reato, di inquinamento delle prove o di fuga (visto che dall’estero era venuto apposta per farsi giudicare!).

Quei principi e quelle cautele che ho definto sacrosanti e benedetti hanno una ragion d’essere molto precisa e molto profonda: noi cristiani sappiamo che esiste un solo Giudice, che è Dio. Solo Lui ha il diritto di giudicare e solo Lui giudica con verità. Quelli che chiamiamo “giudici” son semplici uomini incaricati di svolgere un compito purtroppo necessario ma superiore alle umane possibilità:  fare provvisoriamente qualcosa che assomigli il più possibile alla giustizia, perché senza di ciò la società non può andare avanti. Ma dovrebbero farlo sempre con timore e tremore. Per questo nei paesi civili vigono principi come quelli sopra ricordati: per questo si pensa che sia meglio essere sempre giudicati due volte piuttosto che una sola, e che nel dubbio è sempre meglio mandare assolto un colpevole che condannare un innocente.

Comunque, non è questa la cosa più importante da dire oggi. La cosa più importante è questa: qual è il cristiano che realizza l’imitazione di Cristo nel modo più aderente al modello? Forse proprio l’innocente ingiustamente condannato in un ingiusto processo. Perché è esattamente questo che Gesù è stato al culmine della sua vita terrena.

Oggi, tra gli uomini di chiesa, preti vescovi cardinali e papi, non vi è forse nessuno che sia così vicino a Cristo quanto lo è il cardinale Pell, se – come credo – egli è innocente ed è stato condannato per un pregiudizio anticattolico. (Nell’ipotesi, remota ma che per ragioni di metodo va pure messa in conto, che egli sia invece colpevole, gli va bene comunque perché in questo caso la pena terrena potrebbe valergli già come prima espiazione del suo peccato).

Perciò, mentre prego per lui, perché il Signore gli dia la forza di sopportare gli anni di prigione che lo aspettano (la prigione è dura per tutti, ma per chi non è un criminale eve”essere atroce), al tempo stesso faccio festa con lui e per lui, per la posizione dolorosissima ma gloriosa in cui si trova.

Mi piacerebbe che la chiesa esprimesse pubblicamente questi sentimenti. Un tempo lo avrebbe fatto, oggi temo che sia impossibile. Oggi purtroppo la chiesa da una parte non ha il coraggio di fare lei i processi che dovrebbe (da Maciel a McCarrick, chi dei farabutti che sono venuti a galla in questi anni ha mai subito un vero processo canonico? Sono stati quasi tutti puniti in via extragiudiziale) e dall’altra si incatena ad una totale fiducia nella giustizia umana, che poi finisce per diventare dipendenza da essa. Figuriamoci.

Un anno fa Viganò ha parlato.

19 lunedì Ago 2019

Posted by leonardolugaresi in Senza categoria

≈ 2 commenti

Tag

chiesa mediatica, corruzione nella chiesa, memoriale Viganò

Un anno, di questi giorni, mons. Carlo Maria Viganò rese pubblica la sua testimonianza sul caso McCarrick e più in generale sul problema degli abusi sessuali nella chiesa cattolica.

Viganò non fece trapelare in forma indiretta e anonima (come spesso si usa fare da quelle parti) ciò che aveva da dire, ma lo mise nero su bianco firmando con nome e cognome.

Viganò non fece discorsi generali e generici, ma si riferì a circostanze precise e fece nomi e cognomi.

Viganò non era e non è uno che  passa per caso e dice la sua sui social, ma un arcivescovo della chiesa cattolica, che è stato per undici anni delegato per le rappresentanze pontificie presso la segretria di stato e per quasi cinque anni nunzio apostolico negli USA, dunque è quella che tecnicamente si dovrebbe definire una “persona informata dei fatti”.

Egli ha mosso accuse molto pesanti a persone che sono ai vertici del sistema di governo della chiesa. In particolare, ha smentito papa Francesco – il quale ha sempre affermato di non aver saputo nulla di McCarrick sino a quando lo scandalo non è esploso pubblicamente in America – e ha dichiarato di avere lui stesso, nel giugno del 2013, nel corso di un colloquio privato, informato il papa, su richiesta del papa stesso, dell’esistenza di un corposo dossier sulle malefatte del cardinale statunitense.

Qualche mese fa, in un’intervista al Washington Post (che l’ha pubblicata solo parzialmente, ma il testo integrale è stato diffuso da diversi siti in tutto il mondo), mons. Viganò ha poi rincarato la dose, muovendo nuovamente accuse precise a personaggi importanti della curia romana. In particolare, ha detto che sull’attuale sostituto della segreteria di stato, nominato qualche mese fa da papa Francesco, sono state mosse in passato accuse di abusi sessuali poi messe a tacere.

Ora, delle tre l’una: o Viganò dice solo delle menzogne o mescola cose vere e cose false o dice sostanzialmente la verità.

Nel primo caso dovrebbe essere perseguito dalla giustizia ecclesiastica, subire un regolare processo e, una volta condannato, ricevere la pena che gli spetta per aver calunniato degli innocenti e fatto del male alla chiesa. Forse mi sbaglio, ma mi sembra che niente di tutto questo sia accaduto, dopo un anno. Perché?

Nel secondo caso si dovrebbero dare delle risposte e delle spiegazioni convincenti, per distinguere il vero dal falso. Cosa che non è stata fatta, perché gli sforzi giornalistici (invocati dallo stesso papa Francesco) si sono concentrati a) nell’insinuare che anche Viganò ha i suoi difetti; b) nell’enfatizzare l’imprecisione di questo o quel dettaglio evitando di entrare nel nocciolo della questione e c) nel cercare di spostare l’attenzione sulle mancanze di Benedetto XVI e di san Giovanni Paolo II.

In particolare, sul punto cruciale della prima testimonianza di Viganò, cioè il fatto che egli in qualità di nunzio negli Stati Uniti avrebbe avvertito il papa su McCarrick sin dal giugno del 2013 e che dunque il papa non direbbe la verità quando ripete di non averne saputo mai niente, si può restare nell’equivoca situazione in cui siamo adesso, cioè con nessuna smentita e col papa che, in un’intervista, dice a mezza bocca che “non si ricorda” se Viganò gliene ha parlato o no?

Nel terzo caso … beh non saprei proprio cosa dire, sono cose troppo più grandi di me … però qualcuno dovrebbe porsi un bel po’ di problemi …

Dopo un anno, mi sembra abbastanza chiaro che la strategia adottata da chi governa la chiesa sia invece quella di far finta di niente. Mi ha particolarmente colpito, in proposito, il fatto che sulle affermazioni molto gravi fatte da Viganò riguardo al nuovo sostituto della segreteria di stato (che è un incarico importantissimo nel governo della chiesa) sia calato subito un silenzio tombale. Come se si potesse accettare tranquillamente che sul numero tre della “catena di comando” vaticana aleggi un sospetto del genere.

In termini mediatici e politici tale strategia può darsi che sia vincente. Sul piano spirituale, mi pare molto difficile che la noncuranza per la verità porti a qualcosa di buono.

Minosse e la magistratura. (Dante, Inferno, il famoso canto V, antipasto)

18 domenica Ago 2019

Posted by leonardolugaresi in Dante per ritrovarsi, Senza categoria

≈ Lascia un commento

Tag

Auschwitz, Beccaria, Dante, giudizio, giustizia, Minosse

Un esempio dell’approssimazione con cui leggiamo i testi, anche quelli più noti, quelli che crediamo di conoscere a menadito. Chi di noi non si è sentito dire, ai tempi del liceo ma anche dopo, che Minosse è “il giudice infernale”? Eppure basta leggere (e sapere che cos’è un giudice) per rendersi conto che non è vero per niente. Minosse è poco più di un secondino; al massimo un direttore del penitenziario.

Stavvi Minòs orribilmente, e ringhia: / essamina le colpe ne l’intrata; / giudica e manda secondo ch’avvinghia, // Dico che quando l’anima mal nata / li vien dinanzi, tutta si confessa; / e quel conoscitor de le peccata // vede qual loco d’inferno è da essa; / cignesi con la code tante volte / quantunque gradi vuol che giù sia messa. // Sempre dinanzi a lui ne stanno molte: / dicono e odono e poi son giù volte. (vv. 4-15)

Non è questo il giudizio, (inteso come il secondo dei quattro Novissimi del catechismo di una volta: morte, giudizio, inferno e paradiso) anche se Dante adopera il verbo “giudicare” e il sostantivo “giudizio”. Chi arriva davanti a Minosse è già stato condannato e quello che si svolge davanti a lui non è un processo (niente difesa, niente esame delle prove …); la sua competenza e le sue mansioni sono chiaramente delimitate e non sono quelle di un vero giudice: «essamina le colpe», cioè prende in considerazione solo i peccati, che è l’unica materia che conosce («quel conoscitor de le peccata») e «vede qual loco d’inferno è da essa», cioè in che braccio del penitenziario deve andare. Un compito burocratico, strettamente meccanico, che ai nostri tempi svolgerebbe assai meglio una macchina di un uomo.

Dante questo non poteva prevederlo, ma da genio qual è, ha dato appunto un carattere meccanico (e quasi grottesco) a tutta la procedura: «giudica e manda secondo ch’avvinghia … cignesi con la coda tante volte / quantunque gradi vuol che giù sia messa». Si noti: Minosse, che pure sa parlare, nel disbrigo della pratica non pronuncia neanche una parola. Altro elemento impressionante della descrizione dantesca è la serialità di questa “discriminazione di massa”: «sempre dinanzi a lui ne stanno molte: / vanno a vicenda ciascuna al giudizio, / dicono e odono e pon son giù volte». Ma questo è ciò che accadeva ad Auschwitz: tutti in fila, davanti a un sottufficiale delle SS, un mostro che non dice una parola (e chi lo chiamerebbe giudice?) e con un cenno decide chi muore subito e chi morirà dopo, così di seguito per ore, ogni giorno.

Il giudizio, quello vero, è l’operazione che fa emergere la verità, e vero giudice è colui che la compie. Figuriamoci se può farlo Minosse! Il giudice è Dio. Solo lui è veramente giudice. Come e quando giudica? Ecco questo Dante qui non ce lo dice. Più avanti, nel nostro viaggio, arriveremo in punti dove ci fa intravedere qualcosa di questo, che rimane un mistero insondabile. Il momento del giudizio: quell’attimo in cui Dio e la mia anima saranno di fronte, faccia a faccia, e tutta la verità sarà palese … vi prego pensiamoci seriamente, anche se ci sbigottisce (Quantus tremor est futurus / quando iudex est venturus / cuncta stricte discussurus). Che fortuna, in quel momento, essere cattolici e poter chiamare in aiuto l’avvocata!

Dunque, il vero giudizio nella Commedia non ci viene rappresentato (e non sarebbe stato possibile). Ripeto: qualche spiraglio Dante ce lo aprirà e ne parleremo a suo tempo. Per ora ficchiamoci bene in testa questo assunto: all’inferno siamo in un luogo dove il giudizio è già stato dato, in maniera definitiva. Tutti quelli che incontriamo sono dei dannati, non uomini e donne “in attesa di giudizio”, come noi.

Post scriptum. E la magistratura, di cui al titolo, che c’entra? Beh, mentre leggevo i versi di Dante mi è venuto in mente che noi qui in Italia, abbiamo il malvezzo di dare del “giudice” a tutti i magistrati (anche a causa della mancata separazione tra magistratura inquirente e giudicante), invece forse faremmo bene a non chiamare giudici nemmeno quelli che emettono le sentenze. Non solo perché la giustizia umana, nel suo funzionamento, sembra molte volte assomigliare più al grottesco automatismo dei provvedimenti di Minosse, ma anche e soprattutto per una ragione più profonda, che richiederebbe un approfondimento un po’ complesso ma che mi azzardo a tentare di dire in due parole (se non sono chiaro me lo dite). Quando nel XVIII secolo, in pieno clima illuministico, prese il via il grande movimento della codificazione giuridica, l’ideale che ispirava quei brillanti riformatori era quello di superare l’arbitrio che, ai loro occhi, caratterizzava la giustizia amministrata secondo il cosiddetto diritto comune allora vigente. Secondo me c’era qualcosa di sano in quella istanza: come si fa ad affidare la vita, la libertà o anche soltanto i beni di un uomo ad un altro uomo, per quanto assistito da secoli di sapienza giuridica? Non è questa la radice stessa del dispotismo?

La risposta di quei civili e bene intenzionati signori era logica e “illuminata”, ma a due secoli di distanza dubitiamo che abbia funzionato. Si trattava di redigere un codice di leggi, chiare, limpide, facilmente conoscibili da tutti. Tutti così avrebbero saputo che cosa è lecito e che cosa è punito dalla legge e nessuno avrebbe dovuto più avere paura del re (per il principio: male non fare, paura non avere). La funzione del “giudice”, in questa nobile concezione, doveva ridursi a quella di un mero esecutore della legge. Il “giudice”, in altre parole, si sarebbe dovuto limitare ad eseguire un procedimento sillogistico, dove la premessa maggiore è ciò che stabilisce la legge, la premessa minore è ciò che l’imputato ha fatto o non ha fatto, e la conclusione, praticamente automatica, è la sentenza.

I codici li hanno fatti, e come. Però sappiamo tutti come è andata a finire, almeno in Italia. I brevi e limpidi codici che sognavano gli illuministi si sono trasformati in una selva normativa in cui i magistrati si muovono da padroni. Ecco, non potendo fare altro, sarebbe già un piccolo atto di resistenza tenere a mente che i magistrati, in quanto uomini, non sono “veri giudici”, e forse sarebbe meglio se tornassero a fare (un po’ alla Minosse) un lavoro più modesto e più applicativo, come speravano Cesare Beccaria e soci.

La poesia dei nomi propri. (Dante, Inferno, canto IV, dessert)

16 venerdì Ago 2019

Posted by leonardolugaresi in Dante per ritrovarsi, Senza categoria

≈ 7 commenti

Tag

Canone Romano, Dante, don Giovanni, Mozart, nomi, Verdi

Versi bellissimi del canto IV, che ai lettori distratti o scolastici della Commedia di solito non sembrano belli:

I’ vidi Elettra con molti compagni, / tra ‘quai conobbi Ettor ed Enea, / Cesare armato con gli occhi grifagni. // Vidi Cammilla e la Pantasilea; / da l’altra parte vidi ‘l re Latino / che con Lavina sua figlia sedea. // Vidi quel Bruto che cacciò Tarquinio, / Lucrezia, Iulia, Marzïa e Corniglia; / e solo, in parte, vidi ‘l Saladino. // Poi ch’innalzai un poco le ciglia, / vidi ‘l maestro di color che sanno / seder tra filosofica famiglia. // Tutti lo miran, tutti onor li fanno: / quivi vid’io Socrate e Platone, che ‘nnanzi a li altri più presso li stanno; // Democrito che ‘l mondo a caso pone, / Dïogenès, Anassagora e Tale, / Empedoclès, Eraclito e Zenone; // e vidi il buon accoglitor del quale, / Dïascoride dico; e vidi Orfeo, / Tulio e Lino e Seneca morale; // Euclide geomètra e Tolomeo, / Ipocràte, Avicenna e Galïeno, / Averoìs che ‘l gran comento feo. (vv. 121-144).

Poesia dei nomi propri. La conosce (pur senza saperlo) il ragazzo appassionato di calcio, che snocciola a memoria le formazioni di tutte le partite della sua squadra … (Per noi anziani: «Albertosi, Burgnich, Facchetti, Cera, Rosato, Bertini, Mazzola, De Sisti, Domenghini, Boninsegna, Riva. E Rivera nel secondo tempo in sostituzione di Mazzola)». La conosce il topo di biblioteca, quando sfoglia il catalogo di libri rari. La sente l’entomologo a pronunciare i nomi latini di insetti che conosce e ama solo lui. O il filatelico coi nomi dei suoi francobolli (perché anche i francobolli per lui hanno un nome). La conosce, in fondo, chiunque sia veramente appassionato di qualcosa.

Perché l’amore nomina, la voglia di possesso conta. Sbaglia Leporello, nel Don Giovanni di Mozart, a definire catalogo, quello che è invece solamente un conto «delle belle che amò il padron [suo]». Nessun catalogo, per don Giovanni, ma una brutale conta di pezzi e di tipologie di carne. Si ascolti, in proposito la deliziosa aria dall’opera mozartiana, qui: https://www.youtube.com/watch?v=INF9r5jju0A.

Il fatto è che nell’amore tra uomo e donna, cioè nella forma più unitiva della relazione interpersonale, la poesia dei nomi si dà nella singolarità dell’unico nome: il caro nome. E visto che oggi abbiamo preso questa piega, si ascolti anche l’aria omonima dal Rigoletto, dove la musica di Verdi (e in questa versione anche l’arte di Maria Callas) rendono del tutto plausibili anche i versi di Piave e l’improbabile nome Gualtier Maldè: https://www.youtube.com/watch?v=WT92QQyRfT0.

L’amore nomina. E i nomi amati sono belli, potenti, luminosi. Si gode ad elencarli: “arido elenco” è un ossimoro abbastanza sciocco, e solo chi non sa di che cosa si parla può non accorgersene. (I bambini e i poeti, non per niente, hanno sempre amato i cataloghi, a partire da quello delle navi del II libro dell’Iliade).

Dante, prima di dare libero sfogo al piacere di pronunciare tutti quei cari nomi, ci dice che quelli sono «li spiriti magni», cioè i grandi, e che al vederli lui si è entusiasmato («che del vedere in me stesso m’essalto», v.120). Grandezza di un’età, la sua, che era piena del senso di venerazione per la grandezza di chi l’aveva precedeuta. Miseria, la nostra, maleducati come siamo a non riconoscere e a non avere soggezione della grandezza dei padri.

NOTA BENE importantissimo: la chiave di tutto, però, è la coscienza, che Dante acquisisce con sempre maggiore profondità nel suo viaggio, che la grandezza umana, per quanto grande sia, non salva. È tragico, ma è così. All’inizio del canto, quando Dante capisce dalle parole di Virgilio di trovarsi nel primo cerchio dell’inferno, prova un fortissimo dolore proprio per questo motivo: «Gran duol mi prese al cor quando lo ‘ntesi, / però che gente di molto valore / conobbi che ‘n quel limbo erano sospesi» (vv. 43-45).

NOTA BENE II, altrettanto importante: riconoscere che la grandezza umana non salva, non significa che essa non è niente. È qualcosa, e resta tale – agli occhi di Dante – anche all’inferno. Ecco spiegato perché gli spiriti magni abbiano, nel Limbo, un trattamento riservato (il nobile castello e via dicendo). Di per sé, anche questo non sta in piedi (posti distinti, all’inferno?), ma ha un profondo significato, e lo vedremo millanta volte durante il percorso.

POST SCRIPTUM (poi basta proprio). La poesia dei nomi, ce l’avrebbe anche la chiesa cattolica. Nel Canone Romano, per esempio: «In comunione con tutta la Chiesa, ricordiamo e veneriamo anzitutto la gloriosa e sempre vergine Maria, Madre del nostro Dio e Signore Gesù Cristo, san Giuseppe, suo sposo, i santi apostoli e martiri: Pietro e Paolo, Andrea, Giacomo, Giovanni, Tommaso, Giacomo, Filippo,Bartolomeo, Matteo, Simone e Taddeo, Lino, Cleto, Clemente, Sisto, Cornelio e Cipriano, Lorenzo, Crisogono, Giovanni e Paolo, Cosma e Damiano e tutti i santi», e poi «concedi, o Signore, di aver parte nella comunità dei tuoi santi apostoli e martiri: Giovanni, Stefano, Mattia, Barnaba, Ignazio, Alessandro, Marcellino e Pietro,Felicita, Perpetua, Agata, Lucia, Agnese, Cecilia, Anastasia e tutti i santi». Oppure nelle litanie dei santi.

Ma oggi i preti (molti preti), nella loro miseria, non dicono più quella preghiera eucaristica “perché è troppo lunga” e quando ci sono le litanie dei santi (tipo nel rito del battesimo), le riducono a tre o quattro invocazioni, “perché se no la gente si stufa”.

← Vecchi Post

Iscriviti

  • Articoli (RSS)
  • Commenti (RSS)

Archivi

  • marzo 2023
  • febbraio 2023
  • gennaio 2023
  • dicembre 2022
  • novembre 2022
  • ottobre 2022
  • settembre 2022
  • agosto 2022
  • luglio 2022
  • giugno 2022
  • Maggio 2022
  • aprile 2022
  • marzo 2022
  • febbraio 2022
  • gennaio 2022
  • dicembre 2021
  • novembre 2021
  • ottobre 2021
  • settembre 2021
  • agosto 2021
  • luglio 2021
  • giugno 2021
  • Maggio 2021
  • aprile 2021
  • marzo 2021
  • febbraio 2021
  • gennaio 2021
  • dicembre 2020
  • novembre 2020
  • ottobre 2020
  • settembre 2020
  • agosto 2020
  • luglio 2020
  • giugno 2020
  • Maggio 2020
  • aprile 2020
  • marzo 2020
  • febbraio 2020
  • gennaio 2020
  • dicembre 2019
  • novembre 2019
  • ottobre 2019
  • settembre 2019
  • agosto 2019
  • luglio 2019
  • giugno 2019
  • Maggio 2019
  • aprile 2019
  • marzo 2019
  • febbraio 2019
  • gennaio 2019
  • dicembre 2018
  • novembre 2018
  • ottobre 2018
  • settembre 2018
  • agosto 2018
  • luglio 2018
  • giugno 2018
  • Maggio 2018
  • aprile 2018
  • marzo 2018
  • febbraio 2018
  • gennaio 2018
  • dicembre 2017
  • novembre 2017
  • ottobre 2017
  • settembre 2017
  • agosto 2017
  • luglio 2017
  • giugno 2017
  • Maggio 2017
  • aprile 2017
  • marzo 2017
  • febbraio 2017
  • gennaio 2017
  • dicembre 2016
  • novembre 2016
  • ottobre 2016
  • settembre 2016
  • agosto 2016
  • luglio 2016
  • giugno 2016
  • Maggio 2016
  • aprile 2016
  • marzo 2016
  • febbraio 2016
  • gennaio 2016
  • dicembre 2015
  • novembre 2015
  • ottobre 2015
  • settembre 2015
  • agosto 2015
  • luglio 2015
  • giugno 2015
  • Maggio 2015
  • aprile 2015
  • marzo 2015
  • febbraio 2015
  • gennaio 2015
  • dicembre 2014
  • novembre 2014

Categorie

  • Atti degli apostoli
  • Cristianesimo e spettacoli
  • Dante per ritrovarsi
  • giudizio
  • minima liturgica
  • Scuola Ratinger
  • Scuola Ratzinger
  • Senza categoria
  • Vivere da cristiani in un mondo non cristiano

Meta

  • Registrati
  • Accedi

Crea un sito o un blog gratuito su WordPress.com.

Privacy e cookie: Questo sito utilizza cookie. Continuando a utilizzare questo sito web, si accetta l’utilizzo dei cookie.
Per ulteriori informazioni, anche sul controllo dei cookie, leggi qui: Informativa sui cookie
  • Segui Siti che segui
    • leonardolugaresi
    • Segui assieme ad altri 160 follower
    • Hai già un account WordPress.com? Accedi ora.
    • leonardolugaresi
    • Personalizza
    • Segui Siti che segui
    • Registrati
    • Accedi
    • Segnala questo contenuto
    • Visualizza il sito nel Reader
    • Gestisci gli abbonamenti
    • Riduci la barra