Riprendiamo il filo delle considerazioni che facevamo nei giorni scorsi: non si vive senza giudizio; il giudizio è, dal punto di vista cristiano, ciò che dà consistenza alla vita; c’è un giudizio che sta prima di tutto ed è quello con cui Dio ha creato tutto.
Il senso cristiano della frase del papa, così spesso fraintesa e tradita, “chi sono io per giudicare?” non è che il giudizio non c’è, ma che c’è già chi giudica, e proprio per questo non spetta a me giudicare. Dio giudica, e noi viviamo del suo giudizio. Il nostro esercizio del giudizio (necessario come il pane, per vivere da cristiani) altro non è che il tentativo di comprendere e aderire al suo giudizio.
C’è un tema che sembra proibito, nella teologia e nella pastorale di oggi ed è quello dell’ira di Dio. Non sta bene parlarne, e infatti non se ne parla. Però la Sacra Scrittura ne parla continuamente, e non solo nell’Antico Testamento ma anche nel Nuovo. Ma che cos’è l’ira di Dio e che cosa c’entra col giudizio?
Ci può aiutare a capirlo questa bellissima pagina di Jean Daniélou:
Poche altre espressioni urtano maggiormente le pudiche orecchie moderne. Già i Giudei alessandrini ne arrossivano dinanzi ai filosofi greci e si sforzavano di attenuarne il significato. Oggi essa appare insopportabile ad una Simone Weil che, come un tempo Marcione, contrappone il Dio d’amore del Nuovo Testamento al Dio di collera dell’Antico. Purtroppo, come già notava Tertulliano, l’amore si trova anche nell’Antico Testamento e la collera si ritrova nel Nuovo. Bisogna dunque accettare le cose così come sono: la collera è uno degli atteggiamenti del Dio biblico. E diremo di più: questa espressione apparentemente antropomorfica è forse quella che contiene nel suo nocciolo la carica più densa di mistero e che ci aiuta a penetrare più a fondo nella trascendenza divina. […] La collera è una passione, una creatura di Dio, che è buona in se stessa. […]
La collera non è dunque il risentimento di un amor proprio ferito. È il rifiuto di venire a patti con ciò che non può essere ammesso. Così, in Dio, essa è l’espressione della sua incompatibilità con il peccato. Ma bisogna forse andare più innanzi. Nel suo fondo stesso, il θυμός greco, l’ira latina non esprimono neppure, direttamente, una relazione a qualcosa. Essa è semplicemente l’espressione della vitalità di un essere, del modo in cui si afferma. […] Così, nella sua essenza più profonda, la collera di Dio è l’espressione dell’intensità dell’esistenza divina, della violenza irresistibile con la quale travolge tutto quanto si manifesta. In un mondo che continuamente si allontana di lui, Dio rivendica, talvolta, con violenza la sua esistenza. […] Lungi dal renderlo simile a noi, questa espressione ci ha fatto attingere in Lui ciò per cui egli è più diverso da noi, ossia, in sostanza, l’intensità della sua esistenza, senza proporzione con la nostra. Si può dire che nulla esprima meglio ciò della parola di Cristo a Santa Caterina da Siena: “Io sono colui che è, tu sei colei che non è”. Il che significa che di fronte alla violenza dell’esistenza divina l’uomo prende coscienza della nullità della propria esistenza.
[J.Daniélou, Saggio sul mistero della storia, trad.it. Brescia 1963, pp.168-169]