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  • La chiesa e la crisi degli anni sessanta.

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~ Vanitas ludus omnis

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Archivi Mensili: marzo 2015

Re per un quarto d’ora?

28 sabato Mar 2015

Posted by leonardolugaresi in Senza categoria

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Domani facciamo la processione delle palme: il popolo (cioè noi) acclama Gesù che entra in Gerusalemme. Come un re.

Questione di pochi minuti, poi entriamo in chiesa e sempre noi, il popolo, assistiamo al suo arresto, processo, condanna, torture ed esecuzione capitale. (Il popolo in questi casi, di solito sta a vedere: cfr. Lc 23,35).

Che regno da niente! Una tragica burla, uno scherzo atroce, verrebbe da dire.

Il fatto è che quando noi pronunciamo l’espressione «regno di Dio», più o meno pensiamo a uno stato, a un regime, un ordinamento delle cose. Ma «il Regno» è prima di tutto una persona. Origene, nel Commento a Matteo, 14,7 definisce Cristo αὐτοβασιλεία (autobasileia), qualcosa come “autoregno”: il Regno è Lui. (Ce lo ha ricordato papa Benedetto, Gesù di Nazaret, p.72.)

Come regime, stato di cose, ordinamento, civiltà ecc. la regalità di Cristo non è affatto garantita per sempre, in tutte le mutevoli vicende della storia: sì, siamo certi per fede che alla fine si affermerà in tutte le cose, ma non sappiamo altro. Può anche durare un quarto d’ora.

Ma il regno come persona no: quello c’è e ci sarà sempre. Sedebit Dominus rex in aeternum.

Annunciazione.

25 mercoledì Mar 2015

Posted by leonardolugaresi in Senza categoria

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Gesù oggi viene «concepito». Angelus Domini nuntiavit Mariae. Et concepit de Spiritu Sancto.

Noi “concepire” lo usiamo in due sensi: “accogliere il germe di una nuova vita” e “capire”. Concepire Gesù, capire Gesù. Mi è sempre sembrato che nel cristianesimo uno dei misteri più vertiginosi e frastornanti sia proprio quello dell’autocoscienza umano-divina di Cristo. I vangeli non ci dicono quasi nulla della vita di Gesù prima del breve tempo della sua autorivelazione (meno di tre anni), ma noi non possiamo fare a meno di chiederci come concepisse il suo essere Dio, figlio del Padre, l’uomo Gesù che viveva e lavorava come tutti gli altri, in un oscuro villaggio della Galilea, e non predicava né faceva miracoli. E che coscienza ne avesse quando era bambino: un vero bambino, non quel piccolo mostro su cui fantasticano i vangeli apocrifi dell’infanzia. Gesù bambino in braccio a Maria era in tutto un vero bambino, come sono tutti i bambini del mondo, non quel bamboccio benedicente che raffigurano spesso i pittori. Ma era Dio. Come, dunque, da vero bambino qual era ne poteva avere coscienza? Tutto quello che il vangelo ci dice sta in un versetto di Luca (2,40) «il bambino cresceva e si fortificava, pieno di sapienza, e la grazia di Dio era sopra di lui». Ma che vuol dire? Origene (che era Origene!) nelle sue omelie su Luca si limita a notare che anche di Giovanni Battista l’evangelista dice che «cresceva e si fortificava» ma in quel caso non aggiunge che «era pieno di sapienza», e che «non appartiene alla natura umana essere ricolmati di sapienza prima dei dodici anni. Una cosa è possedere parzialmente la sapienza, un’altra essere ricolmati di sapienza. È evidente dunque che qualcosa di divino si manifestò nella carne di Gesù, qualcosa ce non sopravanzava soltanto gli uomini, ma qualsiasi creatura razionale» [Hom. in Lucam 19,1-2]

Ma prima ancora? Quando Gesù era concepito, ma non ancora nato? Quando era feto, embrione, blastula, zigote? Ed era Dio …

Dove sta la coscienza di quell’evento? Chi ne è titolare? Angelus Domini nuntiavit Mariae. Et concepit de Spiritu Sanctu. Possiamo pensare che sia lei, la madre, che sente e pensa anche per il figlio che ha in gembo da oggi, a rappresentare per tutto questo tempo l’autocoscienza divino-umana del figlio di Dio fatto uomo? E che sia anche in questo senso che Maria oggi “concepisce” Gesù?

L’ira di Dio (Chi siamo noi per giudicare, 5)

22 domenica Mar 2015

Posted by leonardolugaresi in Senza categoria

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Daniélou, giudizio, ira divina, Marcione, Simone Weil

Riprendiamo il filo delle considerazioni che facevamo nei giorni scorsi: non si vive senza giudizio; il giudizio è, dal punto di vista cristiano, ciò che dà consistenza alla vita; c’è un giudizio che sta prima di tutto ed è quello con cui Dio ha creato tutto.

Il senso cristiano della frase del papa, così spesso fraintesa e tradita, “chi sono io per giudicare?” non è che il giudizio non c’è, ma che c’è già chi giudica, e proprio per questo non spetta a me giudicare. Dio giudica, e noi viviamo del suo giudizio. Il nostro esercizio del giudizio (necessario come il pane, per vivere da cristiani) altro non è che il tentativo di comprendere e aderire al suo giudizio.

C’è un tema che sembra proibito, nella teologia e nella pastorale di oggi ed è quello dell’ira di Dio. Non sta bene parlarne, e infatti non se ne parla. Però la Sacra Scrittura ne parla continuamente, e non solo nell’Antico Testamento ma anche nel Nuovo. Ma che cos’è l’ira di Dio e che cosa c’entra col giudizio?

Ci può aiutare a capirlo questa bellissima pagina di Jean Daniélou:

Poche altre espressioni urtano maggiormente le pudiche orecchie moderne. Già i Giudei alessandrini ne arrossivano dinanzi ai filosofi greci e si sforzavano di attenuarne il significato. Oggi essa appare insopportabile ad una Simone Weil che, come un tempo Marcione, contrappone il Dio d’amore del Nuovo Testamento al Dio di collera dell’Antico. Purtroppo, come già notava Tertulliano, l’amore si trova anche nell’Antico Testamento e la collera si ritrova nel Nuovo. Bisogna dunque accettare le cose così come sono: la collera è uno degli atteggiamenti del Dio biblico. E diremo di più: questa espressione apparentemente antropomorfica è forse quella che contiene nel suo nocciolo la carica più densa di mistero e che ci aiuta a penetrare più a fondo nella trascendenza divina. […] La collera è una passione, una creatura di Dio, che è buona in se stessa. […]

La collera non è dunque il risentimento di un amor proprio ferito. È il rifiuto di venire a patti con ciò che non può essere ammesso. Così, in Dio, essa è l’espressione della sua incompatibilità con il peccato. Ma bisogna forse andare più innanzi. Nel suo fondo stesso, il θυμός greco, l’ira latina non esprimono neppure, direttamente, una relazione a qualcosa. Essa è semplicemente l’espressione della vitalità di un essere, del modo in cui si afferma. […] Così, nella sua essenza più profonda, la collera di Dio è l’espressione dell’intensità dell’esistenza divina, della violenza irresistibile con la quale travolge tutto quanto si manifesta. In un mondo che continuamente si allontana di lui, Dio rivendica, talvolta, con violenza la sua esistenza. […] Lungi dal renderlo simile a noi, questa espressione ci ha fatto attingere in Lui ciò per cui egli è più diverso da noi, ossia, in sostanza, l’intensità della sua esistenza, senza proporzione con la nostra. Si può dire che nulla esprima meglio ciò della parola di Cristo a Santa Caterina da Siena: “Io sono colui che è, tu sei colei che non è”. Il che significa che di fronte alla violenza dell’esistenza divina l’uomo prende coscienza della nullità della propria esistenza.

[J.Daniélou, Saggio sul mistero della storia, trad.it. Brescia 1963, pp.168-169]

San Giuseppe.

19 giovedì Mar 2015

Posted by leonardolugaresi in Senza categoria

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Quest’uomo così grande, che non ha detto neppure una parola.

I Vangeli ci riportano poche parole di Maria, ma nessuna di Giuseppe. Per noi, Giuseppe è silenzioso.

Noi che parliamo tanto.

Uomini senza qualità. (Chi siamo noi per giudicare, 4)

17 martedì Mar 2015

Posted by leonardolugaresi in Senza categoria

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giudizio

«Dio fa il mondo e intanto pensa che potrebbe benissimo farlo diverso»: questa osservazione di Ulrich, il protagonista de L’uomo senza qualità di Musil, ci aiuta a capire quanto grande sia la nostra distanza dall’autentico concetto biblico di creazione. Tutto è possibile, perché niente, in fondo, è reale. Come scrive un altro grande scrittore del Novecento, il nostro Tozzi: «Ho pensato che esista un mondo che Dio non ha finito di creare. La materia non è morta e non è viva … vi è anche un abbozzo di Adamo, ma senz’anima».

Così evapora, nella coscienza dell’uomo europeo di oggi, la categoria del giudizio: niente si può giudicare, perché manca la possibilità di un confronto con la realtà. Sì, la realtà c’è, ma potrebbe benissimo essere diversa, o non esserci affatto, dunque non vale come criterio di misura. (Si prenda l’esempio della differenza sessuale: «maschio e femmina li creò», ma se è solo un fatto e non un giudizio, può rimanere inerte e venire espulso dall’ideologia).

Invece, che il mondo ci sia ed anche che sia così com’è dipende dal giudizio di Dio. Noi non siamo il prodotto distratto di un Dio che ci ha fatti a sua insaputa, pensando ad altro, né tantomeno lo scherzo maligno di un «malvagio demiurgo» che ci ha fatti detestandoci, come vorrebbero gli gnostici di ieri e di oggi. La rivelazione ci presenta un Dio che fa il mondo ed è contento di farlo; lo fa e gli piace quello che fa. Questo beneplacito divino è il solido fondamento anche del nostro giudizio.

A Dio questo mondo piace. (Chi siamo noi per giudicare, 3)

12 giovedì Mar 2015

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Basilio di Cesarea, giudizio

La connotazione originaria dell’idea di giudizio, nel cristianesimo, è assolutamente positiva. La “buona notizia”, infatti, è che il giudizio che conta, quello di Dio, è positivo: a Dio questo mondo piace. Noi gli piacciamo. Io gli piaccio. E questo giudizio è già stato dato: si può dire quindi che la positività dell’idea di giudizio si fonda su qualcosa che, in un certo senso, viene prima del suo contenuto specifico. Tutti conosciamo bene la differenza tra un esame da dare e un esame già dato: bene, l’annuncio cristiano è che noi non siamo angosciosamente sospesi all’incertezza di una sentenza che deve ancora essere emessa, perché «il tempo è stato compiuto» (Mc 1,15) e «questo è il giudizio (krisis), che la luce è venuta nel mondo» (Gv 3,19).

Cito non a caso queste due parole di Gesù, perché si completano a vicenda: l’espressione di Marco, che fra l’altro è la prima pronunciata da Gesù nel suo vangelo, contiene l’affermazione che il kairos – cioè il tempo decisivo, il tempo del giudizio – è già compiuto ma subito dopo dice anche che «il regno è vicino», nell’orizzonte di quella tensione che sembra caratterizzare la predicazione di Gesù e che è stata chiamata dagli esegeti «escatologia in via di realizzazione» (J.Jeremias). D’altra parte, l’idea che il mondo sia già giudicato è un concetto chiave nel quarto vangelo, «per molti aspetti […] il miglior esempio nel NT di escatologia realizzata» (R.E.Brown). In questo “già e non ancora”, Dio comunque si è espresso, in modo irrevocabile, mandando suo Figlio non per condannare ma per salvare il mondo e il fatto che questa krisis di salvezza sia al tempo stesso la condanna di coloro che rifiutano Cristo non toglie nulla al suo carattere di inequivocabile certezza.

Ma questa confortante assenza di ambiguità, questa certezza che è la sola capace di generare in noi un atteggiamento positivo verso la vita (quello che nei termini della psicologia di Erikson si chiamerebbe basic trust) ha il suo primordiale fondamento in qualcosa che viene ancora prima: quel giudizio iniziale di Dio sul mondo che accompagna l’opera stessa della creazione. Il Dio della Bibbia, infatti, non si limita a creare l’universo ma, mentre lo crea, giudica ciò che sta creando e lo approva esplicitamente riconoscendone la bontà-bellezza, come per ben otto volte ripete il testo di Genesi 1,1-31: “e Dio vide che era bello-e-buono” (tov è il termine ebraico, che la LXX traduce con καλός).

Dio crea giudicando, ed è per questo che il Dio creatore della Bibbia non può essere in alcun modo confuso con l’idea di qualunque altra “causa prima” la speculazione filosofica antica possa avere immaginato. I Padri della chiesa hanno chiaramente avvertito questo tratto distintivo dell’agire divino. Basilio di Cesarea, ad esempio, nella prima Omelia sull’Esamerone osserva che «molti […] riconoscono che Dio è la causa del mondo, ma una causa involontaria, come il corpo lo è dell’ombra e il corpo lucente del chiarore», invece «Egli non fu per questo semplice causa del mondo, ma nella sua bontà creò ciò che è utile, nella sua sapienza ciò che è bellissimo, nella sua potenza ciò che è grandissimo» (Hom in Hexaem. 1,7,4-5).

L’idea di creazione gli antichi pagani non l’hanno mai avuta. Noi moderni (o postmoderni che siamo) la stiamo perdendo.

Grandi o gonfi?

08 domenica Mar 2015

Posted by leonardolugaresi in Senza categoria

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Aliud est granditas, aliud tumor. Una cosa è la grandezza, un’altra il gonfiore. (Oppure: Un conto è essere grandi, un altro essere gonfi)

[Il solito Agostino, folgorante come sempre. Qui in serm.Dolbeau 26,9, in un contesto in cui parla dei “grandi” pagani. Un esempio di esercizio del giudizio cristiano. Semplice, netto, preciso nel prendere le giuste misure alle cose. Da tenere presente quando noi cristiani magari siamo un po’ intimiditi davanti ai grandi di questo mondo.]

Una parola bellissima. (Chi siamo noi per giudicare, 2)

06 venerdì Mar 2015

Posted by leonardolugaresi in Senza categoria

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“Giudizio” è una parola bellissima, la più umana e la più cristiana che ci sia. È un segno della cattiveria dei tempi il fatto che molti oggi la temano e la detestino: ne hanno paura perché non la intendo più nel suo autentico significato.

Riflettiamo, tanto per cominciare, su questo fenomeno: tutti, in realtà, hanno bisogno di essere giudicati, e tutti – anche se non sembra – vogliono essere giudicati. Dal bimbo piccolissimo che, appena ha fatto qualcosa di nuovo o di importante per lui, guarda subito i genitori per farsi approvare, fino al morente che si prepara all’ultimo esame, tutta la nostra vita scorre via spinta dall’inesausto bisogno di essere guardati, riconosciuti e giudicati in tutto ciò che siamo e facciamo. Voti, diplomi, titoli, onorificenze, certificazioni, patenti, abilitazioni, attestati, premi, medaglie, insegne e tutta l’infinita varietà di strumenti che la mente umana ha escogitato per saziare la nostra fame di giudizio stanno lì a testimoniare l’universalità di questo bisogno. E non ci basta un giudizio qualsiasi, pro forma; un falso giudizio, poi, lo aborriamo. Anche quando sappiamo di non meritarcela, vorremmo che la promozione fosse autentica. Di una finta approvazione, di un placet generico dato a tutti senza distinzione, non sappiamo che farcene.

Il punto è che non vorremmo essere giudicati negativamente, non vorremmo essere bocciati, non vorremmo essere condannati. Dannati. E finché il giudizio non c’è restiamo col cuore sospeso, in ansia, smarriti. Dunque, a ben vedere, è l’assenza del giudizio a farci star male, non la sua presenza.

Le buone notizie sono due: 1) il giudizio è già stato dato. Il giudizio è ora (come dice il vangelo di Giovanni 12,31: Νῦν κρίσις ἐστὶν τοῦ κόσμου, adesso è il giudizio del mondo); 2) il giudizio è buono. Al giudice (Dio) il mondo piace, noi piacciamo.

La prossima volta approfondiamo questi due punti e forse cominciamo a ragionare sulla parola “crisi”, vuol dire appunto giudizio.

Chi siamo noi per giudicare.

01 domenica Mar 2015

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A Diogneto, anima del mondo, giudizio

Dicevo nel post precedente che una caratteristica dei cristiani dei primi secoli, immersi in un mondo totalmente non cristiano, era il senso molto forte della loro rilevanza per quel mondo. Pochi com’erano, e apparentemente sprovvisti di quasi tutto, si sapevano preziosi, anzi indispensabili per il mondo intero.

Uno scritto anonimo che potrebbe forse risalire allo stesso periodo di Tertulliano (fine del II/inizi del III secolo), la cosiddetta Lettera a Diogneto, afferma che «i cristiani sono nel mondo ciò che l’anima è nel corpo. L’anima è diffusa in tutte le parti del corpo, e i cristiani lo sono in tutte le città del mondo. L’anima abita nel corpo, ma non è del corpo, e i cristiani abitano nel mondo, ma non sono del mondo. […] La carne odia e combatte l’anima, pur non avendo subito [da essa] ingiustizia, poiché le impedisce di abbandonarsi ai piaceri, e il mondo odia i cristiani, pur non avendone ricevuto ingiustizia, poiché si oppongono ai piaceri. L’anima ama la carne e le membra che la odiano, e i cristiani amano coloro che li odiano. L’anima è rinchiusa nel corpo, ma è lei che lo tiene insieme; e i cristiani sono trattenuti nel mondo come in prigione, ma sono loro che tengono su il mondo» [Ad Diognetum, 6,1-3.5-7].

La prima forma di questa “cura del mondo” che spetta alla chiesa è l’esercizio del giudizio. Sin dall’inizio (e sempre per tutta la durata della storia) i cristiani, nella misura in cui sono stati vivi, si sono impegnati a giudicare tutto. Sono l’anima del mondo perché sono la sede della sua vera coscienza.

Nelle prossime puntate tornerò su questo punto fondamentale.

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