A ben vedere, la cosa più sorprendente dell’intero canto è la presenza di Caifa tra gli ipocriti della sesta bolgia. Sorprendente per Dante, tanto da bloccargli sul nascere il pippone contro i religiosi politicanti che gli stava partendo dopo aver parlato con due frati godenti bolognesi, Catalano dei Malavolti e Loderingo degli Andalò (vv. 109-111: «Io cominciai: “O frati, i vostri mali …”; / ma più non dissi, ch’a l’occhio mi corse / un, crucifisso in terra con tre pali»). Sorprendente per Virgilio, che l’altra volta che era stato nel basso inferno quel crocifisso non l’aveva visto e sembra non aver molto chiaro perché ora si trovi lì («Allor vid’io maravigliar Virgilio / sovra colui ch’era disteso in croce / tanto vilmente ne l’etterno essilio» vv.124-126). E sorprendente anche per me, che dalla lettura dei vangeli mi ero sempre fatto l’idea che Caifa fosse sì il più puzzone di tutti, il maggior responsabile della morte di nostro Signore, ma non avevo colto una specifica e determinante sottolineatura di ipocrisia nel suo comportamento. Cinicamente pragmatico, astuto e interessato solo al potere sì, mi era sempre parso (cfr. Gv 11,49-50), ma non particolarmente intento a fingere, nei riguardi di Gesù, un atteggiamento esteriore diverso dal suo vero intendimento. Del resto, a sottolineare l’apparente “eccentricità” della sua presenza, l’autore moltiplica i tratti di diversità della figura di Caifa rispetto agli altri detenuti della bolgia: è nudo e non coperto dalla pesante cappa plumbeodorata; sta crocifisso a terra, di traverso al cammino degli altri e non appunto incolonnato in lenta marcia con loro; si agita scompostamente alla vista di Dante («Quando mi vide, tutto si distorse, / soffiando ne la barba con sospiri», vv.112-113) invece di restar chiuso in un compassato riserbo monacale come i due frati bolognesi.
Qui però si pone la questione di che cosa sia, in radice, l’ipocrisia. Forse noi ne abbiamo di solito una concezione superficiale e riduttiva, superando la quale potremmo capire meglio la ragione, come sempre molto profonda, per cui Dante la considera un peccato di frode più grave degli altri – si noti che solo in questa bolgia il terremoto seguito alla morte di Gesù ha fatto crollare tutti i ponti, segno che i suoi effetti si sono fatti sentire in modo particolarmente forte. Un peccato, o forse meglio una matrice di peccato così importante da rendere del tutto appropriata la collocazione proprio qui di Caifa, Anna e gli altri membri del sinedrio, cioè dei massimi responsabili del male più grande mai perpetrato dagli uomini: personaggi che forse ci saremmo aspettati di trovare piantati nel punto più basso dell’inferno, in seno a Satana.
Noi tendiamo a pensare che ipocrita sia solo colui che finge sentimenti che non prova veramente, ostenta virtù che non possiede, dissimula sotto una facciata di perbenismo i suoi vizi. L’ipocrisia però non è solo questo: più radicalmente, potremmo dire che essa – come del resto l’etimologia suggerisce (ὑποκριτής in greco significa attore, oltre che interprete) – è recitazione, esecuzione di una parte di fronte a un pubblico, performance, per dirla con un termine più tecnico e alla moda. Ora, le scienze antropologiche e sociali contemporanee hanno acquisito ed elaborato approfonditamente da tempo la nozione che in più di un senso tutta la vita umana è rappresentazione (un classico come La vita quotidiana come rappresentazione di Erving Goffman, pubblicato sessant’anni fa, si legge ancora con profitto), ma anche senza i loro pur preziosi apporti non è difficile per nessuno accorgersi, solo che ci si rifletta un po’, che noi siamo sempre “in rappresentazione”, nel senso che sosteniamo una parte di fronte agli altri. Non c’è scampo: si recita sempre, anche quando si pensa o si vuole essere “autentici”. Pirandello lo ha ripetuto in mille modi, ma lo sapeva già benissimo quel gran marpione di Augusto il quale, al momento della morte, chiese ironicamente ai congiunti e agli amici se avesse recitato bene il mimo della vita. Se questa è una saggezza vecchia forse quanto l’uomo, l’angoscia dell’autenticità (o della sincerità), il bisogno persino spasmodico di dirsi e mostrarsi “per come si è veramente” si son fatti sempre più intensi nell’età moderna, almeno dalle Confessioni di Rousseau in avanti. Senza rendersi conto che anche l’esibizione della proprio “cuore messo a nudo” (per dirla con Baudelaire), altro non è che una nuova performance, forse più ingenua o forse più scaltra.
Ma se diciamo che tutto è rappresentazione, e ogni vita è recitata sul palcoscenico del mondo, non avremo, paradossalmente, evacuato il concetto di ipocrisia, all’opposto di quello che cercavamo di fare? Se tutti siamo sempre attori, non dovremo concludere che l’ipocrisia è solo un difetto di recitazione, e l’ipocrita un cattivo attore che esagera nella finzione oppure al contrario che non si immedesima abbastanza bene nella parte e non è in grado di dimenticarsi che sta recitando?
No, il punto è un altro. La questione è per chi si recita. Tutto dipende da chi si prende come pubblico per la performance della vita. L’uomo mondano ha per pubblico, appunto, il mondo. A seconda del tipo di teatro a cui egli si dedica selezionerà un certo pubblico di riferimento: il politico vorrà piacere agli elettori, l’accademico terrà al giudizio degli altri dotti, al dongiovanni importerà solo dello sguardo delle donne, e così via. Il narcisista reciterà solo per se stesso. Ma cambia poco o nulla. Il discrimine è un altro e san Paolo, come sempre, lo traccia con nettezza: «cerco forse di piacere agli uomini? Se ancora io piacessi agli uomini, non sarei servo di Cristo» (Gal 1,10). Non si può prescindere dallo sguardo altrui, si è sempre guardati: ma lo sguardo umano è falsificante, nel senso che induce alla finzione; quello divino al contrario è “verificante”, nel senso che ci restituisce alla verità di noi stessi. Il primo apporta sempre, in qualche misura, una schiavitù: nelle lettere paoline (Ef 6,6 e Col 3,22) c’è un termine molto raro e bello per dire questo: ὀφθαλμοδουλία, che è proprio la schiavitù dallo sguardo altrui. Lo sguardo divino, invece, è liberante: «Signore, tu mi scruti e mi conosci …».
Se ora torniamo al canto XXIII, capiamo meglio quanto sia significativo che qui Dante abbia focalizzato la sua attenzione su dei personaggi politici, e più esattamente dei “politici religiosi”, come i frati bolognesi e Caifa. Forse nessuna vita quanto quella del politico è una vita in continua rappresentazione. E nessuna è così sottoposta alla tentazione della menzogna quanto la sua. Quando mai il politico dice “la nuda verità”? Non deve sempre tener conto dell’effetto che le sue parole e i suoi atti producono sugli altri? Il massimo della contraddizione, però, egli lo tocca quando – da politico religioso – mette in scena a beneficio del pubblico anche il suo stesso rapporto con Dio. Da spettatore giudicante, che con il suo sguardo conferisce verità all’agire dell’uomo, Dio viene così messo sul palcoscenico e ridotto ad “attrezzo di scena”.
In questo senso diviene allora esemplare la performance di Caifa in Mt 26,65-66 e Mc 14,63-64, quando il sommo sacerdote, di fronte alla confessione di Gesù, si traccia platealmente le vesti e proclama a gran voce: «Ha bestemmiato!». Gran coup de théâtre politico e religioso. Ecco dove è ipocrita Caifa, ed ecco perché l’ipocrisia è madre di tutti i peccati.