Saliti al cielo di Giove, il cielo degli spiriti giusti, assistiamo ad un meraviglioso spettacolo di luci danzanti che compongono, lettera dopo lettera, la scritta Diligite Iustitiam qui iudicatis terram, fermandosi su quella M finale che si trasforma poi nell’aquila imperiale. Lasciando da parte le vicende di quest’ultimo volatile, che dopo aver fatto il nido da varie parti, attualmente dimora nello stemma degli Stati Uniti d’America (figuriamoci!), concentriamo piuttosto la nostra attenzione sull’ultima parte del canto, cioè sulla riflessione e sulla preghiera che sorgono alle labbra di Dante di fronte a quella visione, perché ci appartengono totalmente.
«O dolce stella, quali e quante gemme / mi dimostraro che nostra giustizia / effetto sia del ciel che tu ingemme!» (vv. 115-117). Vuol dire che la giustizia, questa cosa assolutamente impossibile agli uomini, è un “effetto del cielo”, cioè un puro dono di grazia. Noi siamo soliti contrapporre la grazia e la giustizia e tendiamo a pensare che forse sì, la carità e la misericordia infinita sono una prerogativa esclusiva di Dio a cui non non possiamo innalzarci, ma che per quanto riguarda la giustizia invece possiamo farcela da soli. Fino alla giustizia, pensiamo, ci possiamo arrivare: infatti tutti i sistemi giuridici e tutti i movimenti politici si propongono di “fare giustizia”. Ma in realtà ogni uomo ha, al fondo, questa pretesa: anche colui che una mattina si arma e va a fare una strage di innocenti “perché deve riparare un torto”. Invece è proprio la giustizia la cosa che, più di ogni altra, ci è assolutamente preclusa. Di un po’ di carità e di un po’ di misericordia potremmo, a volte, essere capaci: di essere giusti, mai. La storia umana è un susseguirsi di ingiustizie che mirano a riparare ingiustizie precedenti e preparano le successive. La «nostra giustizia», nella misura in cui c’è veramente, è quella che ci viene donata direttamente da Dio, viene direttamente da quella «dolce stella» dove Dante è stato. Dunque non è cosa nostra.
Questo fondamentale assunto orienta il nostro sguardo a considerare diversamente la radice dell’ingiustizia che così palesemente domina nel mondo. Perché, se la giustizia è umanamente impossibile e può fare la sua comparsa nel mondo solo per un miracolo della grazia, allora la colpa più grande è quella di chi ostruisce il canale ordinario di questo dono. Per questo Dante prega Dio di rivolgersi alla terra e considerare il punto in cui una nube vieta al raggio della giustizia divina di piovere sugli uomini: «Per ch’io prego la mente in che s’inizia / tuo moto e tua virtute, che rimiri / ond’esce il fummo che ‘l tuo raggio vizia» (vv. 118-120). La cortina di fumo, ahimé, è nella chiesa, su cui il poeta invoca il castigo salutare dell’ira divina e il soccorso della preghiera di intercessione dei beati: «sì ch’un’altra fïata omai s’adiri / del comperare e vender dentro al templo / che sì murò di segni e di martìri. // O milizia del ciel cu’io contemplo, / adora per color che sono in terra / tutti sviati dietro al malo essemplo!» (vv. 121-126).
In che cosa consista il «malo essemplo» che la chiesa, nella sua gerarchia, dà agli uomini, Dante lo descrive spietatamente nei versi successivi, che io mi limito a scandire, con il minimo di chiose, tanto parlano chiaro anche a noi del XXI secolo.
«Già si solea con le spade far guerra» – quando si facevano le “guerre di religione” e ci si sbudellava per la forma di un articolo di fede – «ma or si fa togliendo or qui or quivi / lo pan che ‘l pïo Padre a nessun serra.» – una chiesa che toglie il pane ai suoi figli! – «Ma tu che sol per cancellare scrivi» – questo è il papa! – «pensa che Pietro e Paulo, che moriro / per la vigna che guasti, ancor son vivi» (vv. 127-132). La chiesa, fondata sul sacrificio di Cristo che continuamente si rinnova nel martirio dei suoi, è viva, perché è fatta di viventi. Nessuno è morto, nella chiesa. Gesù di Nazaret, un tizio vissuto e messo a morte duemila anni fa, noi abbiamo la sfrontatezza di affermare che è vivo e vegeto; e vivi, in Lui, sono tutti coloro che lo hanno seguito, in questi venti secoli di storia. Vivo è Pietro, vivo è Paolo. Se lo ricordi, il papa!
A questo punto – con un colpo di genio così sublime che io, per dire, ci ho messo una vita a rendermene conto, e ho colto solo a questa ultima lettura – Dante lascia l’ultima parola (!?) al papa contro cui sta scagliando la sua invettiva. Poco conta, per noi, sapere che si chiamava Giovanni XXII, che fu sommo pontefice dal 1316 al 1334 e nel suo lungo pontificato fece alcune cose buone (come istituire la festa della Santissima Trinità) e cose assai meno buone, tra cui anche incappare in un errore dottrinale, predicando dal pulpito una sua idea del differimento della visione beatifica di Dio a dopo il giudizio universale che la chiesa avrebbe poi definito erronea. Quello che conta, per noi, è che qui è il papa che parla, e lo fa con una volgarità così cinica e irridente che sembra fatta apposta per scandalizzarci: «Ben puoi tu dire: “I’ ho fermo ‘l disiro / sì a colui che volle viver solo / e che per salti fu tratto al martiro, / ch’io non conosco il pescator né Polo» (vv. 133-136). Costui non ha rispetto per niente e per nessuno e riduce tutto alla sua misura crassa e triviale. Per sbarazzarsi dell’incomodo memento contenuto nei versi precedenti (“pensa che Pietro e Paolo ancor son vivi!”), egli ostenta una beffarda devozione per Giovanni Battista (con l’osceno sottinteso che tale «disiro» vada riferito piuttosto all’immagine stampata sulla faccia del fiorino, il dollaro dell’epoca!), ma al tempo stesso lo tratta come un povero squinternato: uno che «volle viver solo e che per salti fu tratto al martiro». Con una battuta da taverna (o sacrestia!), ecco ridotti a bizzarrie gli ideali della vita eremitica e del martirio; segue la protervia di chi, essendo papa, ritiene di potersi permettere di “non conoscere” nessuno prima (e sopra) di lui. Pietro non lo nomina neppure, ma lo chiama con disprezzo “il pescatore” e Paolo lo storpia, involgarendo la pronuncia del dittongo latino nella vocale semplice: non Paulus, ma Polo, come fosse suo cugino.
Dicevo del colpo di genio di Dante: il papa è il papa, e sulla terra può anche avere l’ultima parola, se la vuole. Qui, nel canto XVIII del Paradiso, nessuno lo rimbecca, nessuno lo punisce – come quasi certamente sarebbe avvenuto se una scena simile si fosse svolta all’Inferno o in Purgatorio. Ma proprio perché le ascoltiamo in cielo, quelle sue parole empie e stolte, esse sono già giudicate e rese vane. Per quante pietre accumulino gli uomini, e gli uomini di chiesa in particolare, così da ostruire la sorgente della grazia, non ci riusciranno mai del tutto. Un rivolo scorrerà sempre. E può bastare.