È uno degli scomparsi dal linguaggio cristiano di oggi. Difficile, per non dire quasi impossibile, sentire ai nostri giorni questa espressione in una predica, durante una meditazione o in una conversazione tra cristiani; altrettanto improbabile, se non di più, che compaia in un documento ecclesiastico. (Nel Catechismo della Chiesa Cattolica, tuttavia, compare almeno 13 volte, se non ho contato male).
Nella barbarie linguistica in cui siamo caduti, del resto, la maggior parte delle persone non sa più neanche distinguere fra “timore” e “paura” e al massimo crede che il timore sia una paura da poco. Se fosse così, l’espressione «timore di Dio» andrebbe assolutamente ripudiata, perché delle due l’una: di Dio, o non si deve avere paura affatto oppure, se si ha ragione di averne paura, bisogna avere terrore, altro che “un pochino di paura, ma non molta”. Come dice la Lettera agli Ebrei, «È terribile (φοβερὸν) cadere nelle mani del Dio vivente» (10,31).
Niccolò Tommaseo, non so più dove, racconta un aneddoto che mi è rimasto in mente: un giorno, facendo una passeggiata nei dintorni di Firenze, si fermò a chiedere indicazioni ad una contadina che teneva in braccio un bambino: il piccolo, di fronte allo sconosciuto, nascose la faccia nel seno della mamma e Tommaseo disse: «Mi dispiace, gli ho fatto paura». Al che la donna replicò: «Non è paura, è timore!», suscitando l’ammirazione del grande lessicografo. (Ma eravamo a metà dell’Ottocento, e la gente parlava molto meglio, che fosse in italiano o, fuori di Toscana, in altro volgare).
Comunque sia, se avessimo voglia di riflettere un po’ sul santo timore di Dio (che una volta era uno dei sette doni dello Spirito Santo: nientemeno!), ci potrebbero aiutare queste parole di Ilario di Poitiers (un Padre del IV secolo, che fece la sua parte nella lotta contro l’arianesimo).
«Il timore è considerato come la paura che ha l’umana debolezza quando teme di soffrire ciò che non vorrebbe che gli accadesse. Tale genere di timore si desta in noi con il rimorso della colpa, di fronte al diritto del più potente, o all’attacco del più forte, a causa di una malattia, per l’incontro con una bestia feroce o, infine, per la sofferenza di qualsiasi male.
Non è questo il timore che qui [nella Scrittura] si insegna, perché esso deriva dalla debolezza naturale. In questa linea di timore, infatti, ciò che si deve temere non è per nulla oggetto e materia di apprendimento, poiché le cose temibili si incaricano da se stesse di incutere terrore.
Del timore del Signore invece così sta scritto: “Venite, figli, ascoltatemi, vi insegnerò il timore del Signore” (Sal 33,12). Dunque si impara il timore del Signore, perché viene insegnato. Questo genere di timore non sta nello spavento naturale e spontaneo, ma in una realtà che viene comunicata come una dottrina. Non promana dalla trepidazione della natura, ma lo si comincia ad apprendere con l’osservanza dei comandamenti, con le opere di un vita innocente, e con la conoscenza della verità» [Dal commento al Salmo 127, 1-3].
Dio è Dio. Pensarci, significa avere il timore di Dio. Come dice la Ley de Gracia nel Gran teatro del mundo di Calderón de la Barca: «obra bien, que Dios es Dios».