Dopo la selva dei suicidi, una landa deserta di «rena arida e spessa» (v.13). Anime nude da ogni parte, «che piangean tutte assai miseramente» (v.20). Alcune giacciono supine a terra, altre stanno sedute tutte rannicchiate in sé stesse; la maggior parte vaga senza sosta lamentandosi ancor di più. «Sovra tutto ‘l sabbion, d’un cader lento, / piovon di foco dilatate falde, / come di neve in alpe sanza vento» (vv.8-30): genialità quasi ultronea di Dante che, con nonchalance, ci regala incidentalmente una similitudine fantastica. Fantastica perché del tutto antifrastica: per descrivere una pioggia di fuoco, un paesaggio di montagna innevata, silenzioso e placido, pieno di pace come una notte di Natale di quelle di una volta. (Nota a margine: non è affatto detto che il modo migliore per “far vedere” qualcosa sia descriverla).
Quando le falde di fuoco toccano terra, «la rena s’accendea […] a doppiar lo dolore» (vv.38-39). E qui, per continuare con le immagini controintuitive, Dante evoca una danza allegra e concitata, la tresca: «Sanza riposo mai era la tresca / de le misere mani, or quindi or quinci / escotendo da sé l’arsura fresca» (!) (vv.40-42). La scena è così bizzarra che rischia di distrarre noi lettori.
Non Dante personaggio, che vuole sapere da Virgilio «chi è quel grande che non par che curi / lo ‘ncendio e giace dispettoso e torto, / sì che la pioggi non par che ‘l marturi?». Qui, di primo acchito, sembra che ci sia ben più di Farinata! Specialmente a noi moderni , intossicati come siamo (ormai anche nella chiesa) dall’esaltazione antropocentrica dell’uomo, rischia di salirci subito l’ammirazione per questo eroico combattente dell’umanità, e non so se basti a metterci in guardia quel dispettoso e torto, una notazione estetica che vale una condanna morale; (ma noi ormai disprezziamo la fisiognomica e a certe cose non badiamo più di tanto).
L’ammirazione per il compagno Capaneo ci cresce ancora, e quasi esonda, quando questi prende la parola (anticipando Virgilio) e si presenta da solo, con un «Qual io fui vivo, tal son morto» (v.51), che ha qualcosa di mussoliniano nella sua assertiva lapidarietà, così superficialmente impressionante ma sempre ad un pelo dal diventar ridicola appena si va oltre la sua sonorità. “Se anche Giove mi scagliasse tutti i fulmini del mondo e si facesse aiutare da tutti i suoi per colpirmi con tutta la forza possibile, «non ne potrebbe aver vendetta allegra» (v.60)”: questo il succo del suo intervento. Hasta la victoria siempre! Capaneo è vivo e lotta insieme a noi, perché in lui intravediamo una figura emblematica della modernità (intuita perfettamente da un uomo del medioevo!)
E invece no. Capaneo è morto; è un morto che parla. Quando Virgilio riprende la parola che l’altro gli aveva sottratto, la usa come un clava, con una forza che non gli avevamo mai visto: «Allora il duca mio parlò di forza / tanto, ch’i’ non l’avea sì forte udito: / “O Capaneo, in ciò che non s’ammorza // la tua superbia, se’ tu più punito; / nullo martiro, fuor che la tua rabbia, / sarebbe al tuo furor dolor compito”» (vv. 61-66).
Frase che enuncia una legge fondamentale della vita, alla quale troppo poco pensiamo: Il peccato è pena a se stesso. (Questo, tra l’altro, è un tratto distintivo del peccato rispetto al reato, all’errore e ad ogni altro tipo di infrazione ad una regola). Il peccato, cioè l’offesa a Dio, staccando l’uomo da chi gli dà la vita, è in se stesso mortifero. La punizione, che esso merita, gli è intrinseca e comincia nel suo stesso attuarsi: l’adultero comincia ad essere punito nel momento stesso in cui consuma il suo adulterio (e la vita gli si aggroviglia in un labirinto di bugie); il goloso comincia a uccidersi già mentre si abboffa; non parliamo dell’invidioso, che è preda di un autolesionismo puro, e potremmo continuare. Ma se ciò vale per ogni peccato, è particolarmente vero per la superbia, radice prima della violenza contro Dio. Non serviam, dice orgoglioso il ribelle, e si compiace della sua vana ribellione, si crogiola nella sconfitta, si vanta della sua schiena spezzata (ma non piegata!). Cazzate.
Guardate Capaneo, dispettoso e torto; guardatelo dopo aver compitato lentamente le parole con cui Virgilio lo inchioda alla sua infinita stupidità; e poi, se volete, tornate pure a sfogliare l’album de l’homme révolté moderno. E ditemi se non fanno tutti un po’ pena.
Però attenzione, proprio qui si annida un pericolo, sottile e mortale: quello di prendere sottogamba la bestemmia per una ragione che a prima vista sembra la più pia e la meglio intenzionata di questo mondo. Abbiamo appena deriso il ribelle, il bestemmiatore, il violento contro Dio che ne vuole (o addirittura ne proclama) la morte, perché ci è apparsa chiara la totale inconsistenza della sua posizione. Tanti hanno voluto uccidere Dio, o lo hanno dichiarato ufficialmente defunto, ma non ce n’è uno che sia ancora al mondo: tutti schiattati. Dio, invece, se la passa bene. Sta da Dio, appunto.
La violenza contro di Lui, la bestemmia, sarebbe dunque una cosa in fondo puerile, stupida ma non così grave; un po’ come la rabbia impotente di un bambino, di cui è facile ridere (se si è un po’ cinici) o intenerirsi addirittura (se si è di buon cuore)? Se a Dio l’uomo non può far nulla, dove starebbe in fin dei conti l’orrenda gravità del bestemmiarlo? Se un piccolo bambino armato di una fionda desse l’assalto a un carro armato o ad una fortezza, potremmo forse considerarlo un terrorista? Non dovremmo piuttosto provare pena e timore per lui?
Senza il cristianesimo, sarebbe lecito arrivare a pensare così. Ma noi sappiamo, di Dio, una cosa che cambia tutto. Sappiamo che Dio ci ama, di un amore paterno infinito. E chi ama non è più invulnerabile. Chi ama, può essere facilmente ferito. Il più vulnerabile di tutti è il padre (e la madre, ovviamente), perché nel momento in cui genera un figlio mette irrevocabilmente il suo cuore alla mercé di quello sconosciuto. (Ecco il motivo pià profondo per cui c’è chi non vuole figli).
Quindi sì: la violenza contro Dio esiste, è reale, e gli fa un male cane. Quando l’uomo rifiuta il suo amore, glielo rovescia contro in forma di odio (o di indifferenza), c’è una misteriosa, ma vera, sofferenza divina. Per questo la bestemmia è la cosa più orribile.