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apertura ai pagani, Atti degli apostoli, cristianesimo attrattivo, guarigione, miracoli, Paolo, Pietro
Il lettore superficiale, distratto o smemorato degli Atti degli Apostoli tende a identificarne il senso complessivo con il suo personaggio principale, quel Saulo (poi Paolo) di Tarso che abbiamo appena rimandato a casa (9, 30), ma che da 13, 9 in avanti in effetti dominerà, senza concorrenti, la scena fino alla conclusione del libro; prima con le sue imprese missionarie e poi con le sue vicissitudini giudiziarie. Questa però è una prospettiva parziale e fuorviante perché, senza nulla togliere alla preminenza di Paolo (che tuttavia riguarda, in senso stretto, poco più della metà del testo, a ben vedere), il vero cardine del libro, in tutti i sensi, sta nella sezione che oggi cominciamo a leggere, Atti 9, 32-11, 18, in cui si compie il passo decisivo, quello che segna una svolta definitiva nella vita della comunità dei discepoli di Gesù e costituisce un elemento di rottura rispetto alla matrice giudaica nella quale fino a quel momento il nuovo movimento si è integralmente collocato: l’apertura ai pagani. A Luca interessa scolpire nella mente dei suoi lettori un duplice concetto: questa rivoluzione – perché tale è, rispetto alla precedente convinzione che il mandato missionario costitutivo della Chiesa «fino agli estremi confini della terra» (1, 8) si riferisse implicitamente ai soli ebrei – dipende dalla sovrana volontà di Dio che, intervenendo nella vita della comunità, “si impone” contro ogni umana resistenza; primo responsabile dell’accettazione di questa direttiva è Pietro, che esercita così in modo pieno il suo compito di guida e garante della fede dei suoi compagni. In altre parole, per quanto “paolino” sia il testo di Atti, a Luca preme sommamente intestare la svolta capitale delle origini cristiane a Pietro e non a Paolo, per quanto quest’ultimo ne sia ovviamente l’interprete massimo. La storia del centurione Cornelio, raccontata in maniera estremamente elaborata come vedremo, è il “caso serio” attorno a cui tutta la storia si impernia e si costruisce.
Rispetto ad essa, i due episodi che esaminiamo brevemente oggi sono come un “riscaldamento” prima della prova. Il v. 9, 31 fa da cerniera con la sezione precedente, con uno dei tipici ritornelli di crescita a cui Luca ci ha abituato nei primi capitoli (cfr. 2,41.47; 4,4; 5,14; 6,1.7): «La Chiesa (ἐκκλησία) dunque in tutta la Giudea, la Galilea e la Samaria aveva pace, essendo edificata e camminando nel timore del Signore, e con l’incoraggiamento (παρακλήσει) dello Spirito Santo si moltiplicava (ἐπληθύνετο)». Seguono due episodi, accomunati innanzitutto dal fatto che ci mostrano Pietro in azione fuori da Gerusalemme, e precisamente a Lidda e a Joppe, due località a nord ovest della città santa in direzione della costa del Mediterraneo (oggi si chiamano Lod e Giaffa). Avevamo già visto Pietro andare in Samaria per sovrintendere alla missione di Filippo (8, 14), ma in quel caso era in compagnia di Giovanni. Ora lo troviamo impegnato da solo in una sorta di visita pastorale, «passando in tutti [i luoghi]» [διερχόμενον διὰ πάντων] come dice 9, 32, ai «santi», cioè ai fedeli che risiedono nelle diverse località della Samaria e della Giudea. Giunto a Lidda, vi trova un tale, di cui la tradizione giunta fino all’autore di Atti conserva il nome: Enea, presumibilmente un giudeo ellenizzato almeno a giudicare dal nome, il quale giace a letto paralizzato da otto anni. Pietro lo guarisce, semplicemente pronunciando la formula (che non ha paralleli in altri passi del NT): «Enea, Gesù Cristo ti guarisce» (9, 34). Il racconto è scarno ed essenziale, perché qui a Luca interessano solo due cose: in primo luogo ribadire che chi compie il miracolo di guarigione è il Signore e non il suo apostolo, il quale funge unicamente da vettore della grazia divina; in secondo luogo metterne in risalto la valenza evangelizzatrice: «Lo videro tutti gli abitanti di Lidda e del Saron, i quali si convertirono al Signore» (9, 35). Siamo pienamente nella logica di quel cristianesimo attrattivo di cui abbiamo parlato già altre volte (ad esempio qui: https://leonardolugaresi.wordpress.com/2023/10/17/una-comunita-che-guarisce-i-malati-atti-degli-apostoli-19/). I miracoli piacciono a tutti, e in questo caso non sembrano suscitare neanche gli interrogativi e le obiezioni provocate a volte da quelli compiuti direttamente da Gesù.
Anche il secondo episodio riguarda una guarigione miracolosa, anzi addirittura una reviviscenza, ma in questo caso la narrazione è molto più articolata e viene condotta in stretto rapporto intertestuale con altri due passi biblici: 2 Re 4, 18-37 (la reviviscenza del figlio di una donna sunammita, per opera del profeta Eliseo) e soprattutto il racconto evangelico del richiamo in vita della figlia di Giairo (Lc 8, 41-42.49-56 e Mc 5, 22-24.35-43). L’accostamento, punteggiato da una serie di richiami lessicali che potete divertirvi, se ne avete tempo e voglia, a trovare voi stessi, serve di nuovo a ribadire l’idea che l’apostolo è taumaturgo esclusivamente in quanto seguace e imitatore del suo Maestro e Signore. Alla base del racconto c’è anche qui, come per Enea, una tradizione locale, che in questo caso doveva essere anche più ricca e solidamente attestata perché la donna guarita, di cui Luca ci riporta il doppio nome aramaico e greco (Tabita e Dorcas, cioè Gazzella), doveva essere un personaggio importante della comunità di Giaffa, ma l’intervento redazionale del narratore è sicuramente più incisivo e presenta diversi spunti interessanti su cui, se volete, possiamo soffermarci negli eventuali commenti. Io mi limito a registrare che, come sopra, il racconto converge alla fine sulla “ricaduta missionaria” dell’evento miracoloso: il v. 9, 42 è quasi il calco di 9, 35: «[La cosa] venne conosciuta in tutta Joppe e molti credettero nel Signore».
In coda, quasi inavvertitamente, da grande scrittore qual è, Luca lascia scivolare un particolare apparentemente insignificante che però, forse, è come una pulce nell’orecchio che subliminalmente ci prepara a ciò che sta per succedere. Riporta infatti l’informazione, a prima vista del tutto irrilevante se non come mera certificazione di scrupolo documentario, che «Avvenne che per parecchi giorni [Pietro] rimase a Joppe, presso un certo Simone, conciatore di pelli (παρὰ τινι Σίμωνι βυρσεῖ)» (9, 43). Che bisogno c’è di precisare il mestiere dell’altrimenti del tutto sconosciuto ospite di Pietro? Beh, se si considera che l’attività del conciatore di pelli era considerata impura dai Giudei, forse il narratore non vuole lasciarsi sfuggire l’annotazione che l’apostolo taumaturgo, operatore di prodigi che mettono d’accordo tutti quanti, non disdegna una sistemazione poco onorevole, per non dire un po’ incresciosa dal punto di vista della moralità giudaica. Di lì a poco, come vedremo la prossima volta, farà ben di peggio!