[Un mio articolo pubblicato oggi dall’Osservatore Romano]
Come si fa a vivere da cristiani in un mondo completamente non cristiano? Come si incarna e si rende visibile la fede nelle vicende dell’esistenza quotidiana, quando deve rapportarsi ad un contesto sociale in cui il tempo e lo spazio e tutte le pratiche che vi si svolgono sono completamente estranei a qualsiasi forma di riferimento o anche di semplice apertura a Gesù Cristo? Se tutto, attorno a noi, rimanda ad altre credenze e ad altri valori, come si fa a restare fedeli alla memoria di Cristo come fattore determinante della vita? Queste domande – così attuali per noi che vediamo compiersi ogni giorno la “liquefazione postmoderna” di tutte le forme di cultura e di vita sociale generate nei secoli della cristianità e la loro repentina sostituzione con altri paradigmi ormai del tutto avulsi da qualsiasi nesso con la fede cristiana – sono state cruciali anche nell’esperienza delle prime generazioni cristiane, sia pure in una prospettiva diversa dalla nostra.
Risulta perciò estremamente interessante per tutti, e non solo per chi si occupa di storia del cristianesimo antico, riflettere su come i cristiani dei primi secoli abbiano affrontato questo problema e su quali risposte abbiano elaborato per risolvere le tante situazioni di difficoltà e i conflitti in cui l’esigenza di andare “controcorrente”, per essere coerenti con la propria fede, continuamente li metteva. Sarebbe anzi molto proficuo riconsiderare sotto questo profilo – piuttosto che nell’ottica consueta della “conquista” – il cosiddetto processo di cristianizzazione della società pagana. Molto prima che il cristianesimo acquisisse una posizione di favore da parte del potere politico, quando ancora qualunque prospettiva di egemonia culturale e sociale era addirittura impensabile, i cristiani, per quanto pochi e “marginali” fossero, lungi dall’isolarsi in un mondo a parte, si ponevano il problema di un giudizio morale e di una risignificazione culturale delle forme di vita collettiva in cui, come abitanti della città terrena (da cui non hanno mai avuto la tentazione di fuggire), erano necessariamente implicati.
In questo ambito, da un paio di decenni a questa parte la ricerca storiografica ha prestato maggiore attenzione, con argomenti e prospettive di ricerca nuove, al problema dell’atteggiamento assunto dalla chiesa antica nei confronti degli spettacoli pubblici, riconoscendovi un nodo cruciale nella storia dei rapporti tra cristianesimo e cultura greco-romana e del processo di cristianizzazione del mondo tardoantico. I ludi, infatti, erano una componente fondamentale della vita della città tardoantica, di cui costituivano un momento di integrazione sociale imprescindibile: rifiutarli – come le gerarchie ecclesiastiche, decisamente e senza eccezione alcuna, sollecitavano costantemente il popolo cristiano a fare – significava, oltre che rinunciare ad un piacere collettivo profondamente amato anche da molti tra i cristiani (spesso perciò riluttanti a obbedire a questa indicazione pastorale), compiere un grave atto di “diserzione” rispetto a una sorta di dovere civile, quasi una dichiarazione di non appartenenza alla polis. Approfondire le ragioni di questa scelta difficile e impopolare, perseguita però dalle autorità ecclesiastiche con estrema convinzione e mantenuta con tenacia per tutto il periodo che va dal II secolo fino alla fine del mondo romano (che segna anche la fine, almeno in Occidente, del sistema degli spettacoli pubblici), è dunque del massimo interesse.
Una buona occasione ce la offre ora la recentissima pubblicazione, per i tipi delle Edizioni Dehoniane Bologna, di un piccolo trattato di Novaziano, dotto presbitero romano della metà del III secolo che fu protagonista di uno scisma, in opposizione a papa Cornelio, negli anni turbolenti della persecuzione di Decio. La sua operetta, Gli spettacoli, ci viene offerta nella limpida traduzione e con un’utile introduzione di Alessandro Saggioro, docente di storia delle religioni alla Sapienza, il quale ne aveva già curato nel 2001 un’edizione maggiore, con testo latino a fronte e commento, pubblicata nella “Biblioteca Patristica” dello stesso editore.
Sono poche pagine, tali da non spaventare neppure il più parco e inappetente dei lettori, ma ricche di molti spunti di riflessione validi anche per il presente. Ne accenniamo solo uno: il testo di Novaziano è uno dei pochi che ci apre uno spiraglio sul dibattito interno alle comunità cristiane e ci permette di avere un’idea di quanto potè essere vivace e complessa la discussione sulla spinosa questione degli spettacoli. Si è detto sopra che il giudizio di condanna dei ludi fu, nella chiesa antica, costante, unanime e senza eccezioni, ma questo è vero se ci si riferisce alla linea assunta dalle autorità ecclesiastiche e non significa affatto che sia mancata un’opposizione interna; sappiamo anzi che le incomprensioni e le resistenze dovettero essere ampie e altrettanto tenaci quanto l’insistenza dei pastori (del resto, la reiterazione degli appelli e delle reprimende testimonia già di per sé la persistenza di un problema aperto). Di solito, però, le nostre fonti ci permettono di ricostruire solo una delle due posizioni, quella della parte vincente: l’altra voce, quella dei fautori di una linea più morbida, non ha avuto la capacità (o la possibilità) di esprimersi in una pubblicistica di cui ci siano rimaste le tracce. È Novaziano che, sia pure solo indirettamente, ci fa conoscere qualcosa delle tesi di coloro che chiama polemicamente «suasivi difensori e compiacenti avvocati dei vizi» (1,3). Quando scrive, infatti, che costoro «convertono la censura da parte delle celesti Scritture in difesa dei crimini: come se il piacere che si ricava dagli spettacoli fosse solo un innocente mezzo di riposo mentale» (ibid.), egli sintetizza efficacemente due motivi portanti della polemica, ben distinti ma entrambi impiegati dai “lassisti” per minare il giudizio di condanna degli spettacoli: da una parte la minimizzazione della loro importanza e dall’altra la messa in questione del fondamento scritturistico del giudizio negativo. Per quanto riguarda il primo argomento, è la stessa inconsistenza ontologica degli spettacoli, cioè la loro natura di finzioni ludiche che non vanno per definizione prese sul serio – caratteristica che è una delle ragioni fondamentali, se non addiritura la vera matrice della condanna cristiana nel nome di quella ratio veritatis non a caso enunciata da Tertulliano all’inizio del suo trattato De spectaculis – a diventare, nell’ottica dei fautori dell’apertura, il motivo per derubricarli a passatempo irrilevante, forse non commendevole ma neppure così pernicioso come pretendevano i vescovi. De minimis non curat praetor, diceva un vecchio brocardo, e per questo verso sembra proprio che gli avvocati difensori della compatibilità degli spettacoli con una normale vita cristiana volessero suggerire che nemmeno l’episcopus se ne doveva curare troppo. La chiesa ha cose più importanti di cui occuparsi, su queste minuzie della vita quotidiana ciascuno si regoli come crede: questo, in sostanza, il messaggio che si voleva far passare.
L’altro argomento, ben più impegnativo, va a toccare un punto sensibile della questione, quello della mancanza di una base scritturistica per la condanna dei ludi. È un tipo di critica che molte altre volte, nel corso della storia della chiesa, è stata mossa a chi cerca di formulare un giudizio cristiano su fatti che la Scrittura non contempla. I difensori degli spettacoli, secondo Novaziano, si chiedono polemicamente: «Dove sono scritte queste cose, dove sono proibite? Al contrario, non solo Elia è stato l’auriga d’Israele, ma perfino Davide ha danzato davanti all’arca. […] Perché, allora, non dovrebbe un cristiano esser libero di farsi spettatore di cose che le divine lettere sono state libere di scrivere?» (2,3). A questa speciosa obiezione, egli risponde prima criticando una modalità di esegesi biblica che parcellizza ed estrapola arbitrariamente alcune citazioni dal loro contesto, falsandone così il significato sotto l’apparenza di una scrupolosa fedeltà al testo biblico; poi sostenendo che, proprio perché la Scrittura va compresa nel suo significato unitario, in tale prospettiva si vede bene che essa a volte parla anche con il suo silenzio. «La Scrittura, infatti, ha proibito ancor più talune azioni, con il fatto di non esprimerle per niente; per rispetto del pudore, più ha vietato in quanto ha taciuto» (3,3). Per chi comprende questo fondamentale criterio ermeneutico, si può dire che «la ragione insegna dove la Scrittura tace» (3,4). Non occorre, quindi, andare a caccia del versetto ad hoc, per poter dire di no a qualcosa che è, nella sua essenza, antitetico alla verità che la Scrittura insegna. Piuttosto, da essa si tratta di apprendere una norma morale fondamentale che si può enunciare così: «La Scrittura […] ci ha proibito di essere spettatori di qualsiasi cosa ci proibisca di fare» (4,1). È il principio, davvero rivoluzionario, di quella che potremmo chiamare la “responsabilità dello sguardo”, un elemento di forte discontinuità culturale rispetto all’orizzonte ideologico comune che governa tutto il sistema ludico della società antica, imperniato sul concetto dell’irresponsabilità dello spettatore. Nel mondo romano, in particolare, l’asimmetria tra la posizione dello spettatore che guarda (e non è per definizione mai toccato, o contaminato, dall’immoralità dello spettacolo) e quella dell’attore che viene guardato (ed è per definizione infamis) è fortissima.
Rispetto a questo, quella compiuta dal cristianesimo è una sorta di rivoluzione copernicana. Ma è davvero compiuta? Forse, pensandoci meglio, dovremmo dire soltanto avviata, e nella moderna “società dello spettacolo”, dove tutti siamo spettatori “a distanza” (televisivi, in senso proprio), il principio che ciascuno è responsabile anche nei confronti di ciò che vede abbiamo bisogno di impararlo di nuovo. Anche questo piccolo libro può aiutarci.