Collocato al posto che gli spetta – altissimo e tragico! – il «sacrosanto segno» del Potere, il giudizio su coloro che lo maneggiano viene da sé, incontrovertibile e inevitabile. Chi è il Sovrano? Colui che, unico al mondo, è legittimato a uccidere, condannandolo a morte, il Figlio di Dio venuto nel mondo a salvare il mondo; e al tempo stesso è colui che, unico al mondo, è legittimato a punire, in nome di Dio, quello stesso peccato. Questo, e non meno di questo, è il “peso teologico“ della sovranità. Il sovrano, superiorem non recognoscens, è l’unico che possa legittimamente prendere quella decisione tremenda (e se può prendere quella, tutte le altre vi sono comprese, in quanto comunque inferiori); ma poiché nessuna sovranità umana è veramente sovrana se non nel senso della responsabilità di fronte alla Sovranità Divina che lascia fare, il sovrano si carica anche del dovere di render conto, a nome di tutto il mondo, di quella decisione. Questa è l’altezza, questa la tragedia.
Se abbiamo capito questo, le successive parole di Giustiniano – che in realtà sgorgano, come lava incandescente, dalla stessa bocca di Dante e condannano con eguale durezza tutti i partiti politici del suo tempo – sono consequenziali e noi possiamo solo ripeterle, scandendo bene le parole: «Omai puoi giudicar di quei cotali / ch’io accusai di sopra e di lor falli, / che son cagion di tutti i vostri mali. // L’uno al pubblico segno i gigli gialli / oppone, e l’altro appropria quello a parte, / sì ch’è forte a veder chi più si falli. // Faccian li Ghibellin, faccian lor arte / sott’altro segno, ché mal segue quello / sempre chi la giustizia e lui diparte; // e non l’abbatta esto Carlo novello / coi Guelfi suoi, ma tema gli artigli / ch’a più alto leon trasser lo vello. // Molte fïate già pianser li figli / per colpa del padre, e non si creda / che Dio trasmuti l’armi per suoi gigli!» (vv. 97-111).
La presidenza della Repubblica Italiana (che forse non esiste nemmeno, ormai) è davvero ben poca cosa di fronte all’idea di impero che ha in mente Dante. Tuttavia è ciò che di più vicino ad un «pubblico segno» ci rimane. La sovranità, che la nostra costituzione aveva trasferito al popolo italiano, da tempo si è quasi completamente dissolta (se mai vi è stata), ma quel che resta delle istituzioni repubblicane è tutto ciò che abbiamo per contrastare la prepotenza di poteri che sono, nella loro più intima essenza, privatistici (o “parziali”, se preferite) perché, pur pretendendo di comandare su tutto, rifiutano di assumersi la responsabilità del bene comune (anzi, l’idea stessa di bene comune) e quindi di dar conto del proprio operato.
I versi che prima abbiamo recitato, nel tono profetico e drammatico che appartiene loro, pensando all’Impero, ai Ghibellini e ai Guelfi, li possiamo dunque ora ripetere, in una chiave tragicomica, con puntuale riferimento ai personaggi delle cronache politiche di questi giorni: «Omai puoi giudicar di quei cotali / ch’io accusai di sopra e di lor falli, / che son cagion di tutti i vostri mali. // L’uno al pubblico segno i gigli gialli / oppone, e l’altro appropria quello a parte, / sì ch’è forte a veder chi più si falli».
Post scriptum extradantesco. Sulla vicenda dell’elezione del presidente della repubblica mi ero permesso di dire la mia tre settimane fa, qui: https://leonardolugaresi.wordpress.com/2022/01/10/banali-evidenze-sullelezione-del-presidente-della-repubblica/. Un po’ ci ho preso, ma non era così difficile, se si consideravano i fatti: 1. Mario Draghi “deve“ diventare presidente della repubblica, perché così si vuole dove si comanda. 2. In questo momento era estremamente difficile che ci riuscisse perché il governo Draghi non poteva cadere in quanto l’unica possibilità di sostituirlo sarebbe stata quella di farlo presiedere da un valletto di Draghi stesso, il che era quasi impossibile da far digerire ai partiti della maggioranza parlamentare, per quanto ridotti male essi siano. 3. L’attuale parlamento non poteva essere sciolto e non si poteva andare alle elezioni perché la grande maggioranza dei parlamentari avrebbe difeso con le unghie e con i denti le sue quattordici mensilità di stipendio e il vitalizio, contro tutto e contro tutti. Ergo, l’unica possibilità che restava era quella che si è verificata. Mattarella, di cui non ho grande stima e del cui operato come presidente non do un giudizio positivo, doveva restare.
E resterà, io credo, per quindici mesi o poco più se dopo le elezioni ci saranno le condizioni per l’ascesa di Draghi (in un regime che si farà ancor più cripto-presidenziale di ora). Se invece si profilasse il rischio di un’elezione non gradita, penso che resterà al Quirinale finché tale rischio (dal suo punto di vista) non sarà sfumato. Dove avevo completamente sbagliato, infatti, era nel credere che la sua incrollabile volontà di non essere rieletto fosse autentica. Non risultandomi che fosse motivata da cogenti ragioni di natura personale, e parendomi risibili quelle “istituzionali“ che venivano addotte, la giudicavo molto negativamente, per i danni che lo sconquasso che ne sarebbe seguito avrebbe provocato al nostro povero paese. Devo riconoscere che non era così, ma si trattava di una finzione politica, di buona scuola democristiana, eseguita con una professionalità di cui gli va dato atto.