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~ Vanitas ludus omnis

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Archivi Mensili: agosto 2017

La riforma irreversibile? (Ecclesia reformanda: si semel, semper).

29 martedì Ago 2017

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Liturgia, papa Francesco, riforma liturgica, san Pio V

Vedo che è stato dato un certo rilievo ad una singola frase del discorso tenuto da papa Francesco ai partecipanti alla Settimana liturgica nazionale. Discorso ricco e importante, a quanto mi risulta letto dal papa integralmente come nel testo scritto, senza aggiunte estemporanee o tagli, e meritevole di ben altra attenzione. La frase che ha polarizzato l’interesse però è questa: «possiamo affermare con sicurezza e con autorità magisteriale che la riforma liturgica è irreversibile». Penso abbia colpito la formula “autoritativa” e un po’ solenne dell’asserzione: c’è chi ha esultato e c’è chi si è spaventato.

Né l’una né l’altra reazione sono giustificate, a mio parere. Gli uomini (e anche i papi sono uomini) pronunciano spesso la parola “sempre” e la parola “mai”, ma esse non sono propriamente alla nostra portata. Sono parole divine, parole che appartengono a Dio e che la chiesa stessa può dire, con prudenza, solo su mandato divino. Lo fa, ad esempio, quando proclama un dogma. Ma dichiarare imperituro ciò che è, in fin dei conti, il prodotto di un’azione umana, per quanto ispirata e benedetta dallo Spirito, è quantomeno imprudente.

Quando san Pio V, nel 1570, fece la sua riforma liturgica (quella che i cosiddetti tradizionalisti chiamano, sbagliando, “la messa di sempre”) scrisse – «con sicurezza e con autorità magisteriale» espresse con ben maggiore forza di quella che ha impressionato qualcuno nelle parole di Francesco : «comandiamo, sotto pena della Nostra indignazione, che a questo Nostro Messale, recentemente pubblicato, nulla mai possa venir aggiunto, detratto, cambiato» (Costituzione Apostolica Quo primum tempore, 6) e aggiunse, caso mai non si fosse capito: «similmente decretiamo e dichiariamo che le presenti Lettere in nessun tempo potranno venir revocate o diminuite, ma sempre stabili e valide dovranno perseverare nel loro vigore» (8).

Lo scrisse chiaro e tondo, fece la voce grossa, ed era un papa che non scherzava, ma questo non ha impedito ai suoi successori, quattro secoli dopo, di disfare quello che lui aveva fatto “per sempre”. Non ce ne stupiamo affatto e non crediamo che maggior fortuna potrebbe avere oggi un altro pontefice: che «il tempo è superiore allo spazio» non è forse uno dei motti  preferiti di papa Francesco? E che ciò che conta è «avviare processi» non è un altro dei suoi principi ispiratori? Potrà dunque proprio Francesco “blindare” alcunché? (Al massimo potrebbe illudersi di farlo …).

Più in generale: una volta che si accetta l’idea di “riforma”, come si fa a non accettarne la necessaria conseguenza che anche la riforma sia, prima o poi, riformata? Se la chiesa è reformanda, non può esserlo una volta per tutte (semel), ma deve esserlo sempre (semper).

Quindi, niente paura: se Dio vorrà, e quando vorrà, la «riforma della riforma» liturgica auspicata da papa Benedetto XVI ci sarà. E non ci vorranno quattro secoli, perché adesso la storia va più di fretta …

Del resto, nello stesso discorso da cui è stata estratta la frase sopra citata, subito prima di quella il papa ha detto: «E oggi c’è ancora da lavorare in questa direzione [quella indicata da Paolo VI], in particolare riscoprendo i motivi delle decisioni compiute con la riforma liturgica, superando letture infondate e superficiali, ricezioni parziali e prassi che la sfigurano. Non si tratta di ripensare la riforma rivedendone le scelte, quanto di conoscerne meglio le ragioni sottese, anche tramite la documentazione storica, come di interiorizzarne i principi ispiratori e di osservare la disciplina che la regola». Perfetto: i “riformatori della riforma”, se ci saranno, potranno tranquillamente dire – come usa oggi – che “la riforma non si tocca” ma che se ne vogliono soltanto superare «letture infondate e superficiali, ricezioni parziali e prassi che la sfigurano», proprio come chiedeva papa Francesco.

Bene ascolta chi la nota.

27 domenica Ago 2017

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giudizio, Meeting, Parolin

«La Chiesa e i cristiani non possono non interagire criticamente nei confronti di ogni realtà».

Così il cardinale Parolin nel suo intervento di ieri al Meeting. Il mio commento è tutto nei corsivi. Quello di Dante immagino sarebbe: “bene ascolta chi la nota”.

Benedetto non l’ha detto.

22 martedì Ago 2017

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Benedetto XVI, migranti, papa Francesco, stato

Ho letto il messaggio di papa Francesco per la giornata mondiale del migrante e del rifugiato 2018. C’è un passaggio che mi ha profondamente sconcertato, per due ragioni: una di metodo e l’altra di merito. Comincio da quest’ultima.

Il papa scrive: «Il principio della centralità della persona umana, fermamente affermato dal mio amato predecessore Benedetto XVI [5] ci obbliga ad anteporre sempre la sicurezza personale a quella nazionale». Mi pare un’affermazione che, presa nel suo significato letterale – e non si vede in quale altro senso la si possa prendere, dato che in questo caso non si tratta di una frase sfuggita durante una conversazione estemporanea coi giornalisti, né di una battuta pronunciata in un colloquio privato, ma di un enunciato scritto in un documento ufficiale – ha una portata enorme, ed abnorme, dato che porta alla pratica negazione della ragion d’essere dello stato!

Analizziamola: il papa dice che «il principio della centralità della persona umana», che non viene meglio definito ma è attribuito a Benedetto XVI (su questo torno dopo, perché qui c’è la questione di metodo a cui accennavo), «ci obbliga» (quindi si tratta di un obbligo morale, vincolante per tutti i cattolici) «ad anteporre» (anteporre vuol dire  “mettere prima” “preferire”, quindi in caso di conflitto indica un preciso e vincolante criterio di scelta) «sempre» (sempre vuol dire sempre, in tutte le lingue del mondo: il papa sta enunciando un precetto di portata generale ed assoluta!) «la sicurezza personale» (non si dice di chi, ma dal contesto si evince che il papa si riferisce ad ogni singolo migrante; però se ad obbligarci è «il principio della centralità della persona umana» ne consegue che l’obbligo vale nei riguardi di qualunque persona umana) «a quella nazionale». Sicurezza nazionale, in italiano, vuol dire semplicemente “sicurezza della nazione”, cioè sicurezza collettiva, sicurezza dell’insieme dei cittadini. Ora, è sempre stato universalmente riconosciuto che la tutela della sicurezza nazionale, così intesa, è il primo compito (e, come ho detto sopra, la prima ragion d’essere) dello stato. Lo stato esiste innanzitutto per garantire la sicurezza dei cittadini. Ed è sempre stata pacificamente condivisa la convinzione che, per adempiere a questo dovere primario, nei casi in cui esso venga purtroppo a confliggere con la sicurezza di uno o più individui, lo stato abbia non il diritto ma il dovere di anteporre la sicurezza collettiva a quella personale. La nazione viene militarmente attaccata da un nemico esterno? Lo stato non può e non deve anteporre la sicurezza personale dei soldati nemici (né dei propri) alla sicurezza nazionale. Dei terroristi stanno eseguendo un attentato? Lo stato non può e non deve anteporre la loro sicurezza personale, né quella dei propri agenti di polizia, alla sicurezza nazionale messa in pericolo. Se si afferma il principio che «il principio della centralità della persona umana ci obbliga ad anteporre sempre la sicurezza personale a quella nazionale», la conseguenza è che gli stati smettono di esistere.

Direte che sono assurdità che ovviamente il papa non pensa. Rispondo che lo spero bene, ma che purtroppo il senso della frase che ha scritto è quello che ho cercato di spiegare. Del resto, un esempio lo fa lui stesso ed è meno estremo dei miei, ma sulla stessa linea. Subito dopo l’affermazione del principio di supremazia assoluta della sicurezza personale scrive infatti: «Di conseguenza, è necessario formare adeguatamente il personale preposto ai controlli di frontiera». Dunque l’uso della forza (che, per definizione, anche quando è proporzionato e prudente può comportare rischi per la sicurezza personale) per impedire l’ingresso illegale nel territorio di uno stato è sempre illegittimo? Dunque le frontiere devono essere aperte, cioè in pratica non devono esistere? Parrebbe di sì.

Per cercare di comprendere quella frase in modo diverso, mi sono anche sforzato di pensare che forse il papa, quando usa l’espressione “sicurezza nazionale” ha in mente la “dottrina della sicurezza nazionale” con cui la dittatura militare argentina degli anni settanta e altri regimi sudamericani di destra giustificavano la repressione degli oppositori politici. Ma gli anni settanta sono passati da mezzo secolo, il mondo non è tutto America latina, e anche lì, del resto, le dittature sono ormai tutte di sinistra! In ogni caso, se pensava a quello, doveva esprimersi in modo diverso.

Vengo alla questione di metodo, che mi pare ancor più incresciosa. Il non meglio definito «principio della centralità della persona umana» viene per così dire “addossato” a Benedetto XVI («fermamente affermato dal mio amato predecessore Benedetto XVI»). Già questo è un po’ strano: del valore primario della persona umana e dell’obbligo dello stato di rispettarne i diritti naturali hanno sempre parlato tutti i papi. Ci sono montagne di documenti e di discorsi che si potrebbero citare. Perché chiamare in causa proprio Benedetto? Adesso rileggete l’intera frase: «Il principio della centralità della persona umana, fermamente affermato dal mio amato predecessore Benedetto XVI [5] ci obbliga ad anteporre sempre la sicurezza personale a quella nazionale». Sfido chiunque a sostenere che alla quasi totalità dei lettori non arrivi il messaggio implicito che ciò che “l’amato predecessore” afferma fermamente è precisamente l’obbligo di anteporre sempre la sicurezza personale a quella nazionale. È vero che dal punto di vista logico e grammaticale quello che gli viene attribuito è solo il principio della centralità della persona umana, ma proprio perché in sé e per sé tale principio è universalmente condiviso da tutti i cattolici, il lettore è indotto a pensare che sia l’intera affermazione contenuta nella frase ad essere, in qualche modo, farina del sacco di Benedetto.

Allora andiamo a vedere che cosa c’è nel passo citato a sostegno di tale attribuzione a Benedetto: la nota 5 ci rimanda al capitolo 47 dell’enciclica Caritas in veritate, che tratta del modo di intervenire nei paesi poveri per aiutare lo sviluppo della popolazione. Il passo è questo: «Negli interventi per lo sviluppo va fatto salvo il principio della centralità della persona umana, la quale è il soggetto che deve assumersi primariamente il dovere dello sviluppo. L’interesse principale è il miglioramento delle situazioni di vita delle persone concrete di una certa regione, affinché possano assolvere a quei doveri che attualmente l’indigenza non consente loro di onorare. La sollecitudine non può mai essere un atteggiamento astratto. I programmi di sviluppo, per poter essere adattati alle singole situazioni, devono avere caratteristiche di flessibilità; e le persone beneficiarie dovrebbero essere coinvolte direttamente nella loro progettazione e rese protagoniste della loro attuazione».

Ognuno può giudicare da sé quanto c’entri questo con l’obbligo di “anteporre sempre la sicurezza personale a quella nazionale”.

 

Sempre la stessa solfa! (Un paragone semiserio tra Mozart e la Santa Messa)

21 lunedì Ago 2017

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«La dottrina non cambia, è la sua interpretazione/applicazione pastorale che deve cambiare per adattarsi ai tempi»: questo è il mantra della chiesa di oggi.

In altre parole, la musica è sempre la stessa ma i suonatori devono intepretarla in modo diverso a seconda dei tempi. Già, la musica. Mi è venuto in mente un paragone, forse bizzarro, tra il cristianesimo e una musica sentita troppe volte, che pensiamo di conoscere a memoria e che, proprio per questo, non ci dice più niente. Prendetelo come un piccolo “scherzo mozartiano” e dedicategli, se volete, qualche minuto. Sarà comunque piacevole.

Ascoltate questo: https://www.youtube.com/watch?v=VKlRJJKRuto

Esecuzione magistrale (è Horowitz, mica un patacca qualsiasi), ma il Rondò alla turca, croce e delizia di ogni pianista dilettante sulla faccia della terra (e di ogni suo parente e conoscente!), l’abbiamo sentito tutti talmente tante volte da diventare quasi insopportabile. È come andare a messa e … niente, il celebrante è un ottimo prete, tutto viene fatto come si deve, la predica è sensata e ortodossa, eppure pare che non succeda niente: ogni nota è “già saputa” prima di accadere, e quando accade, accade nel modo in cui ci aspettavamo che accadesse, tutto è già scontato in precedenza …

Adesso ascoltate questo: https://www.youtube.com/watch?v=uWYmUZTYE78

Che dire? Gigionesca oltre i limiti dell’umano pudore, ma indubbiamente divertente (il sogghigno beffardo dei due filarmonici di Vienna, a un certo punto del video, è impagabile!). Lang Lang è un fenomento dell’industria musicale del nostro tempo e qui, come direbbe un mio amico, “fa il fenomeno”. Se siete tra quelli che immaginano Mozart come il deficiente di genio del film di Foreman potete anche pensare che questa interpretazione gli sarebbe piaciuta. In ogni caso, anche se it’s not my cup of tea, devo riconoscere che: a) questo è pur sempre Mozart (le note sono le sue, dopotutto) e b) un’esecuzione del genere non è scontata. È come andare a messa e c’è un sacco di cose che non vi piacciono, ma insomma non vi addormentate sulla panca e capite che lo sforzo pastorale è quello di arrivare alle orecchie di persone a cui Horowitz non direbbeniente. Come diceva san Paolo: tutto, «purché Cristo sia annunciato» (Fil 1,18). E chi sono io per giudicare?

Adesso però ascoltate questo: https://www.youtube.com/watch?v=eTZ33EVK3Ug

Ah, questo è puro genio. Questo è come quando vai a messa, e le parole e i gesti son sempre quelli (la solita solfa), ma c’è qualcosa nel modo in cui il celebrante li compie che ti cattura, ti fa stare attento, e sei finalmente presente a ciò che accade. Perché accade veramente qualcosa. Qui abbiamo, a parer mio, l’illustrazione migliore di che cos’è un carisma nella chiesa. Qualcuno che, per un dono dello Spirito, è capace di farti ascoltare le note consumate di quel pezzo troppo ascoltato come se fosse la prima volta. E mentre le suona, senza aggiungere né togliere niente, te ne illumina il significato profondo, così capisci che quella è musica, non un carillon. Lo capisci se quel carisma è per te: altrimenti dirai che è un’esecuzione è sbagliata, che Glenn Gould non può suonare Mozart come se fossero le Variazioni Goldberg, che lui stesso ammetteva di detestare il pezzo di Mozart ecc. ecc.

C’è un corollario importante: il valore di un carisma si misura anche sulla sua capacità di farti valorizzare tutto il resto: se dopo aver ascoltato e meditato con Gould torni ad Horowitz, ti accorgi che la musica c’era anche lì, e apprezzi molto di più anche la sua perfetta esecuzione. Invece, se ti sei eccitato con Lang Lang temo che troverai Horowitz ancor più noioso.

Ma qual è il problema, oggi, nella chiesa? Io direi che è questo: https://www.youtube.com/watch?v=wSbCmSOGLaQ

Yuia Wang è un altro mostro made in China della musica contemporanea: tecnicamente bravissima, con più sex appeal di Lang Lang, una deliziosa bambolina capace, come si vede, di numeri gradevolissimi. Ma è ancora Mozart? (A un certo punto pare Scott Joplin).

È come quando vai a certe messe “creative” e ad un certo punto ti chiedi: ma è ancora la messa, questa?.

Se la chiesa non sa niente, a cosa serve?

19 sabato Ago 2017

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Chiesa, Galantino, Male, morte, violenza

Leggo su Avvenire.it queste parole di mons. Galantino, segretario della Conferenza episcopale italiana: «Alla domanda su cosa dire ai genitori delle vittime in questo momento, Galantino ha risposto: “Non mi sento di dire niente, ma di fare sentire loro la vicinanza silenziosa e partecipe a quello che stanno vivendo. Non penso sia questo il momento di dare spiegazioni, perché di fronte a questo tipo di morte, a questa violenza, non ci sono spiegazioni razionali da dare”».

“Di fronte a questo tipo di morte, a questa violenza, non ci sono spiegazioni razionali da dare”? Le vittime dell’attentato di Barcellona non sono morte perché un fulmine le ha colpite o perché un ponte che stava in piedi da secoli è crollato proprio nel momento in cui passavano loro (come nel bel romanzo di Thornton Wilder), o per un virus (quando succedono queste cose, ormai ci siamo abituati all’afasia degli ecclesiastici): sono morte perché dei criminali li hanno assassinati. Come fa il vescovo a dire che di fronte “a questa violenza” non ci sono spiegazioni razionali da dare? Ignora forse che la chiesa ha qualcosa (veramente ha molto) da dire sul male presente nel mondo? O si vergogna di quella dottrina e non la ritiene presentabile agli uomini?

Ma di una chiesa che non sa niente, che se ne fanno gli uomini?

Opposte idiozie.

17 giovedì Ago 2017

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Condannata come si deve la violenza e l’idiozia dei “suprematisti bianchi” di Charlottesville, si può dire che anche abbattere i monumenti, come la sinistra sta facendo in questi giorni in America, è da idioti? (Non per niente lo fanno gli energumeni dell’Isis, i talebani, gli speculatori, i turisti … gente così).

E comunque il generale Robert E. Lee, nel complesso, era assai migliore di tanti altri, le cui statue continuano indisturbate ad ergersi nelle piazze di mezzo mondo, scacazzate dai piccioni.

(Attenti, perché l’avvelenamento ideologico della storia è un pericolo mortale, anche da noi).

Gli occhi da Dio diletti e venerati.

15 martedì Ago 2017

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corpo, Dante, Foscolo, Maria, resurrezione della carne

«Li occhi da Dio diletti e venerati, / fissi ne l’orator, ne dimostraro / quanto i devoti prieghi le son grati». Così Dante, il miglior teologo, nel XXXIII canto del Paradiso.

Ogni sguardo si spegne con la morte. Chiudiamo gli occhi ai morti perché è insopportabile che non abbiano più sguardo. Ci attacchiamo ai ritratti, alle fotografie e alla loro suprema malinconia.

Crediamo che con la morte non finisca tutto: ci hanno detto, e ci crediamo, che mentre il corpo si corrompe (niente più occhi, niente più sguardo) l’anima vive in eterno. Senza corpo, per ora, in attesa della resurrezione finale.

Ci crediamo, ma non sappiamo farcene una ragione. Anche per questo, forse, ci pensiamo poco al paradiso. Noi moderni, così concentrati sul corpo. La nostra impacciata perplessità l’ha formulata bene, per una volta, Ugo Foscolo, detestabile poeta per nulla teologo, in una poesia che tutti abbiamo dovuto studiare: «se pur mira / Dopo l’esequie, errar vede il suo spirto / Fra ’l compianto de’ templi Acherontei, / O ricovrarsi sotto le grandi ale / Del perdono d’lddio: ma la sua polve / Lascia alle ortiche di deserta gleba / Ove nè donna innamorata preghi, […]». La cosa importante, in questi versi, è quell’ «o», che non è un aut ma un vel perché mette sullo stesso piano, con moderna indifferenza, quello che lui chiama «il compianto de’ templi Acherontei», cioè l’inferno, nella lingua delle persone vere, e «le grandi ali del perdono d’Iddio», cioè il paradiso. Che cosa mi importa del Paradiso, se la mia carne rimane qui, sola, a disfarsi nella terra (oggi a ridursi in cenere in pochi attimi, perché nemmeno questo sopportiamo)?

Più in là di lì non va, non è in grado e passa il resto del suo tempo a trastullarsi con celesti corrrispondenze d’amorosi sensi, urne dei forti che accendono il forte animo a egregie cose, armonie che vincono di mille secoli il silenzio e altre fanfaluche del genere. Però in questo preciso punto fa assolutamente centro e dice le cose come stanno. Questa è una delle grandi sfide che il mondo moderno lancia alla fede cristiana: che me ne faccio del Paradiso?

La buona notizia di oggi è che in Paradiso ci sono già due corpi, quello di Gesù e quello di Maria. Ci sono gli occhi di Maria, quelli che per Gesù sono gli occhi della sua mamma. Diletti e venerati da Dio. Dio venera? Sì, Dio il Figlio ama (dell’amore che sceglie e preferisce: dilectio) e venera gli occhi della Theotokos.

Il cristianesimo? Troppo semplice per crederci.

12 sabato Ago 2017

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battesimo, fede, idolatria, simplicitas, Tertulliano

«Nihil adeo est quod obduret mentes hominum quam simplicitas divinorum operum quae in actu videtur, et magnificentia quae in effectu repromittitur».

È un’altra folgorante intuizione di Tertulliano (De baptismo, 2,1). Non c’è niente che indurisca le menti degli uomini tanto quanto la semplicità delle opere divine che si vede in azione e la magnificenza degli effetti che da esse si attendono.

Si prenda per esempio il battesimo: in modo semplicissimo (tanta simplicitate), senza  dare spettacolo (sine pompa), senza bisogno di novità (sine apparatu novo aliquo), perfino senza spesa! (denique sine sumptu), un uomo viene immerso nell’acqua, si dicono poche parole e quello riemerge apparentemente uguale a prima(homo in aqua demissus et inter pauca verba tinctus non multo vel nihilo mundior resurgit): come si fa a credere che invece è successo tutto, e colui che prima era mortale ora ha conseguito l’eternità? (eo incredibilis existimatur consecutio aeternitatis).

L’idolatria è molto più complicata, pretenziosa e soprattutto costosa, e per questo gli uomini, nella loro stoltezza, ci credono più facilmente: «idolorum sollemnia vel arcana de suggestu et apparatu deque sumptu fidem et auctoritatem sibi extruunt». Applicate questa diagnosi agli idoli di oggi e vedrete che funziona perfettamente.

Per essere cristiani ci vuole intelligenza, cioè senso critico. La fede non è un sentimento, una suggestione: se fosse così gli idoli, con l’organizzazione e i soldi (apparatu et sumptu) avrebbero partita vinta. La fede è la forma suprema dell’intelligenza.

Quando il vescovo non risponde. 2.

07 lunedì Ago 2017

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Atti degli apostoli, autorità, discernimento, scout cattolici, vescovi

Proseguo la riflessione, iniziata ieri, sull’intervento dell’arcivescovo di Gorizia, mons. Redaelli, riguardo alla permanenza in un ruolo educativo all’interno dell’Agesci nella parrocchia di Staranzano di un capo scout unitosi civilmente con il proprio compagno. Dopo aver fatto riferimento all’esempio del concilio di Gerusalemme, nel modo che abbiamo visto, il vescovo svolge tre ordini di considerazioni.

Per prima cosa, dice che occorre chiedersi, anche «di fronte a una realtà che ha creato contrasti e scalpore e ha evidenziato difficoltà, […] quali siano gli aspetti di grazia presenti in essa» e ne elenca otto, così riassumibili:

  • «l’essere qui oggi a confrontarsi»;
  • «la progressiva maturazione della convinzione che il discernimento stia diventando sempre più la cifra fondamentale dell’agire pastorale»;
  • «l’attenzione rispettosa, partecipe e talvolta sofferta ai cammini personali di ciascuno da parte della comunità cristiana e l’accompagnamento degli stessi»;
  • «il desiderio che tutti abbiamo che ogni persona – in particolare i giovani – possa trovare nella pienezza della proposta evangelica il compimento di quel desiderio di amore che l’essere immagine e somiglianza del Dio amore ha collocato nei nostri cuori»;
  • «l’impegno a tenere in considerazione, con pazienza e intelligenza, i diversi modi di sentire diffusi oggi che, pur avendo aspetti di verità, sono spesso riduttivi»;
  • «l’attaccamento alla propria comunità, ma non in termini esclusivi e alternativi ad altri, ma dentro un respiro di autentica comunione ecclesiale»;
  • «la consapevolezza della particolare responsabilità di chi ha un ruolo educativo dentro la comunità cristiana»;
  • «la consapevolezza della necessità di guadagnare un rapporto meno ingenuo con i mezzi di comunicazione sociale».

Tutte belle cose, per carità, ma non faceva prima (e meglio) a dire che per un cristiano tutto è grazia? Forse però il punto è che qui siamo molto lontani dal curato di campagna di Bernanos (colui che pronuncia, nel momento finale dell’agonia, quella formula di fede e di speranza) e siamo forse  dalle parti di Pangloss del Candido di Voltaire, che insegna a “pensare positivo” come va di moda adesso: “sì, forse abbiamo un piccolo problema, ma viviamo nel migliore dei mondi possibili, guardate quante cose belle ci sono intorno a noi” … La chiesa, da più di cinquant’anni a questa parte, si è a più riprese robustamente vaccinata contro il pessimismo, che di certo cristiano non è; ma forse sarebbe ora di rammentare che anche l’ottimismo è altrettanto estraneo alla fede cristiana. Cristiana è la speranza, che è tutt’altra cosa. Sì, veramente “tutto è grazia” – come il curato di Bernanos sa bene per averlo sperimentato attraverso la sofferenza – ma solo perché Cristo, crocifisso, morto, sceso agli inferi e risorto, tocca tutte le realtà della vita, nessuna esclusa. Egli non toglie nulla alla durezza delle contraddizioni, delle storture, del male che c’è nel mondo: lo inchioda alla croce. È per la croce che tutto è grazia, non per altro. Le difficoltà, le contraddizioni, i disordini sono “dis-grazie”, ma è la presenza di Cristo che le rende occasioni di grazia.  Il vescovo ci invita a guardare innanzitutto quelle otto grazie e fa bene; magari ne potremmo aggiungere altre otto, oppure ottanta (grazia è star bene in salute; grazia è essere liberi, grazia è anche che oggi è una bella giornata …), ma ciò  non deve offuscare la nostra percezione della realtà, con il peso dei suoi problemi.

Lì c’era un problema, e quello che era chiesto al vescovo era di affrontarlo. Il fatto è che egli sembra non volerlo fare. Infatti, dopo essersi soffermato su tutti gli aspetti positivi della situazione, monsignor Redaelli procede al secondo passo, «un pacato confronto con l’insegnamento ecclesiale», e premesso che la Scrittura non si presenta «come un manuale di principi e di indicazioni concrete riferibili a ogni situazione della vita» e che occorre quindi un lavoro della chiesa per «discernere che cosa è richiesto dal Signore nelle diverse situazioni»,  osserva che si tratta di un lavoro in continuo sviluppo perché le situazioni e i problemi cambiano nel corso del tempo e poi  conclude questa parte (significativamente la più breve del suo discorso) con le seguenti parole:

«Naturalmente, il fatto che ci sia uno sviluppo del pensiero e delle indicazioni della Chiesa su diverse problematiche – a volte anche molto accelerato – non deve portare a disattendere ciò che viene proposto autorevolmente per l’oggi. Anche questa sarebbe una distorsione della fede cristiana, un non accogliere il fatto che lo Spirito assiste hic et nunc il popolo di Dio e chi è chiamato a guidarlo nella concretezza dell’oggi con autorevolezza, ma anche con molta umiltà. Umiltà tanto più necessaria quando si è di fronte a questioni nuove e complesse circa le quali la riflessione ecclesiale è ancora iniziale o comunque non del tutto matura, i pareri non sono concordi, le prassi pastorali non ancora ben definite (non c’è dubbio che almeno alcune questioni connesse con la sessualità umana, l’amore coniugale, la famiglia, la vita ecc. siano di questo tipo)».

Voi avete capito? Io no.

Pazienza, si dirà, adesso viene la terza parte, quella pratica, quella dove si prendono decisioni, si indica una condotta, si danno dei criteri … insomma quella che nel caso di Atti 15, preso a modello dal vescovo Redaelli, viene esposta nei vv. 22-29. Là gli apostoli e gli anziani riuniti a concilio scrivevano: «Abbiamo saputo … Abbiamo perciò deciso … Abbiamo mandato … Abbiamo deciso, lo Spirito Santo e noi …». Qui il vescovo dà due «suggerimenti» e un’«indicazione»: il primo suggerimento «è quello di darci tempo. […] Un tempo ampio anche per l’AGESCI e per altre realtà ecclesiali di carattere educativo che devono affrontare tematiche nuove, come, ad esempio, la necessità di proporre oggi determinati valori con un approccio diverso rispetto al passato o anche di dover pensare a una formazione e a un accompagnamento degli stessi propri educatori, che talvolta compiono scelte personali, in particolare in tema di affetti, che fino a poco tempo fa non erano quasi ipotizzabili o comunque erano percepite come evidentemente incompatibili con il proprio compito».

Di nuovo ci capisco poco, ma quello che segue è, purtroppo, molto chiaro: «Insisto perché siano queste realtà ecclesiali a operare il necessario discernimento e a giungere ad alcune indicazioni condivise e sagge, non per sottrarmi al mio impegno di pastore […], ma per evitare che un mio pronunciamento possa essere visto come un intervento “autoritario” dall’alto e quindi accolto “obtorto collo”, e non invece come aiuto a discernere e compiere la volontà di Dio, o utilizzato quasi come alibi per evitare ai soggetti ecclesiali interessati la fatica, ma anche la positività, di un cammino non facile di discernimento».

Stento a crederlo, ma ha scritto proprio così. In sostanza: “fate voi”.

Il secondo suggerimento è «invitare a un atteggiamento di disponibilità gli uni verso gli altri, che parta dal presupposto della buona fede reciproca, trovi occasione di dialogo pacato e sincero, abbia la pazienza dell’ascolto, riannodi una comunione che resta vera anche in presenza di diverse sensibilità e accentuazioni». In sostanza: “vogliatevi bene” (che va sempre bene, intendiamoci, ma non costituisce una risposta).

L’indicazione è in realtà un altro elenco simile a quello delle “grazie” di cui sopra: «meditazione della Parola di Dio», «studio», «riflessione», «confronto», «scelta delle priorità», «preghiera intensa per le persone che ci sono affidate», «sguardo di empatia (meglio: lo sguardo di Gesù) verso chi incontriamo», «paziente ascolto di ognuno con la proposta dell’insegnamento cristiano in termini saggi che possa condurre alla sua accoglienza (o almeno al suo non rifiuto a priori)» (?), «impegno della salvaguardia della comunione», «mettere davanti a tutto il regno di Dio con grande libertà da se stessi (compreso il proprio incarico, il proprio carisma, le proprie attese, i propri attaccamenti, le proprie sensibilità)»; «valutazione paziente di tempi e modi di intervento affinchè siano costruttivi della comunione», «saggio utilizzo dei mezzi di comunicazione sociale». In sostanza: “miglioratevi”. Certo nessuno può sostenere che meditare, studiare, pregare ecc. siano cose sbagliate, inutili o cattive, ci mancherebbe!, ma anche qui la risposta alla domanda posta al vescovo dov’è?

Così si conclude il suo intervento. Propongo un esperimento mentale: immaginate una famiglia alle prese con un grave problema che riguarda la condotta di uno dei figli. Immaginate che essi chiedano al padre: è giusto fare o non fare la tal cosa? Immaginate che un padre di famiglia risponda in questo modo. (Anzi, non immaginatelo, perché oggi purtroppo succede).

 

 

Quando il vescovo non risponde. (Discernimento o fuffa?). 1.

06 domenica Ago 2017

Posted by leonardolugaresi in Senza categoria

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Atti degli apostoli, concilio di Gerusalemme, discernimento, Martini

Torno su un episodio recente della cronaca ecclesiastica – forse già sfumato dalla memoria a causa della velocissima obsolescenza mediatica da cui siamo afflitti – che mi dà da pensare. L’antefatto è questo: all’inizio di giugno, a Staranzano in diocesi di Gorizia, un capo scout dell’Agesci, omosessuale dichiarato, si è unito civilmente con il suo compagno. Il parroco ha giudicato che a quel punto fosse inopportuna la sua permanenza nel ruolo di educatore di scout cattolici. Altri, tra cui il viceparroco, hanno invece condiviso ed esaltato la scelta del capo scout. Il vescovo, mons. Carlo Roberto Maria Redaelli, da più parti sollecitato a pronunciarsi, si è espresso alla fine del mese di giugno con un lungo e articolato intervento che si può leggere integralmente qui: http://www.settimananews.it/pastorale/capo-scout-le-nozze-gay/.

Vedo sulla rete che c’è chi l’ha trovato bellissimo, pieno di spirito profetico (martiniano) … a me fa un’altra impressione, ma lasciamo stare: i gusti sono gusti e al mondo c’è posto per tutti. In fondo anche nella chiesa è un po’ come su Tripadvisor: se vai a leggere le recensioni vedi che la cucina dello stesso ristorante negli stessi giorni è sublime per qualcuno e immangiabile per qualcun altro …

Andiamo dunque al sodo e analizziamone il contenuto: il vescovo esordisce dicendo di non essere intervenuto fino a quel momento sulla vicenda e dichiara di voler «offrire alcune riflessioni dal punto di vista del discernimento pastorale». Per farlo si appoggia essenzialmente su un testo del cardinale Martini che propone un’interpretazione del cosiddetto concilio di Gerusalemme, raccontato in Atti 15, 1-35, considerato come un caso esemplare di approccio e gestione dei conflitti e delle crisi nella chiesa. Di per sé, questa scelta del vescovo mi pare assai apprezzabile, perché è sempre nell’inizio di un’esperienza che se ne colgono meglio le ragioni essenziali e quindi il confronto con l’età apostolica e patristica della chiesa è sempre fondamentale, e direi quasi indispensabile, nella prassi della chiesa contemporanea (a patto che tale modello non venga assolutizzato staccandolo, in modo antistorico, dagli sviluppi successivi della tradizione, che è unica e continua, parte dagli apostoli e arriva fino a noi). Però bisogna poi vedere come viene compreso quel modello.

Anzitutto vorrei notare, col massimo rispetto per il biblista Martini citato dal vescovo di Gorizia, che quando egli scrive: «Se leggiamo attentamente il resoconto del concilio, rimaniamo stupiti nell’accorgerci che, dovendo risolvere un problema pratico molto difficile – la convivenza tra i cristiani provenienti dal giudaismo e i cristiani convertiti dal paganesimo –, non si fa ricorso alle Scritture o a una tradizione canonica, di cui c’era un primo embrione, ma si fa ricorso, anzitutto, alla riflessione sul vissuto nella grazia dello Spirito Santo!», da un lato appare discutibile l’affermazione che nell’assise di Gerusalemme non si faccia ricorso alle Scritture (vedi infatti Atti 15, 15 ss.) e dall’altro sembra difficile individuare quali possano essere le tracce che documentano l’esistenza di una “tradizione canonica” sia pure embrionale a quella altezza cronologica (48-49 d.C.). Forse sarebbe più prudente dire che la tradizione canonica stanno cominciando a farla proprio loro in quel momento.

Ma è soprattutto il seguito del brano citato da mons. Redaelli che appare inadeguato. (Mi riferisco evidentemente solo a quello, perché non conosco il libro da cui è tratto: può darsi che altrove ci sia quel che qui manca, ma non sarebbe comunque rilevante perché il vescovo non lo prende in considerazione). Scrive il cardinale Martini: «Ci sono tre grandi relazioni nel concilio di Gerusalemme: la prima, in cui Paolo riferisce su quanto lo Spirito Santo ha operato in tutte le comunità, e quindi prendendo coscienza di ciò che è il vissuto di grazia; la seconda, in cui Pietro si domanda quale relazione abbia il vissuto di oggi con gli eventi passati, qual è la continuità di grazia in cui esso si inserisce; la terza relazione, in cui Giacomo, a partire dalle parole di Paolo e di Pietro, propone un modo pratico di vivere insieme, un modo che tenga conto delle verità fondamentali. Questo atteggiamento è quello che si propone di ascoltare la voce dello Spirito e di trarne conseguenze per l’oggi, in umile obbedienza di quella Parola che ha parlato nella Chiesa e che ancora parla nel mgistero, nella forza della predicazione, nella lettura quotidiana della Scrittura, nella vita quotidiana dei fedeli, nell’esperienza della santità». Mi pare una sintesi suggestiva, anche se molto “interpretativa” se, come credo, con l’espressione «questo atteggiamento» Martini fonde “sinfonicamente” le tre diverse note suonate da Paolo, Pietro e Giacomo, portando all’estremo quella che è già l’intenzione dell’autore di Atti. In realtà, dietro al racconto già armonizzante di Atti, c’è, come è noto, un conflitto bello grosso (che in Atti 15,7 viene sbrigativamente riassunto con l’asciuttezza di un verbale: «dopo lunga discussione»). Il punto è che le tre posizioni non sono “sinfoniche” in partenza, di per se stesse, né per un’intima concordanza che sta all’intelligenza dell’esegeta di svelare, ma lo diventano perché il concilio prende una posizione, cioè decide, e come! Come recita la formula strabiliante di Atti 15, 28: «Abbiamo deciso, lo Spirito Santo e noi, di non imporvi nessun altro obbligo ecc. ecc.» . Questo, a me sembra, è il punto essenziale, il punto che manca invece nell’esegesi di Martini, almeno per come lo legge mons. Redaelli. È solo in forza di quella decisione che la differenza delle sensibilità e degli interessi rappresentati nella discussione di Gerusalemme acquista quel carattere armonico (prima ho detto “sinfonico”, riecheggiando una nota espressione di Balthasar) che l’autore di Atti si preoccupa di mettere in rilievo e che Martini commenta così efficacemente. Ma tutto questo non viene colto dal vescovo di Gorizia.

Tale lacuna si amplifica e rischia di diventa il tutto nel suo discorso. Egli, infatti, richiesto di prendere posizione – come per suo preciso dovere di ufficio sarebbe tenuto a fare – scrive, come vedremo domani, molte belle parole, ma nella sostanza non risponde al quesito che gli è stato posto: «è bene che una persona che sceglie di agire pubblicamente in contrasto con la morale cristiana svolga un compito educativo all’interno della chiesa?».

A Gerusalemme nel 48 il quesito era un altro: «i pagani che si convertono alla fede in Cristo sono sottoposti alla legge esattamente come gli ebrei?» ma la risposta venne data. Quindi il vescovo di Gorizia si illude di seguire quell’esempio, ma in realtà non lo fa.

 

 

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