Proseguo la riflessione, iniziata ieri, sull’intervento dell’arcivescovo di Gorizia, mons. Redaelli, riguardo alla permanenza in un ruolo educativo all’interno dell’Agesci nella parrocchia di Staranzano di un capo scout unitosi civilmente con il proprio compagno. Dopo aver fatto riferimento all’esempio del concilio di Gerusalemme, nel modo che abbiamo visto, il vescovo svolge tre ordini di considerazioni.
Per prima cosa, dice che occorre chiedersi, anche «di fronte a una realtà che ha creato contrasti e scalpore e ha evidenziato difficoltà, […] quali siano gli aspetti di grazia presenti in essa» e ne elenca otto, così riassumibili:
- «l’essere qui oggi a confrontarsi»;
- «la progressiva maturazione della convinzione che il discernimento stia diventando sempre più la cifra fondamentale dell’agire pastorale»;
- «l’attenzione rispettosa, partecipe e talvolta sofferta ai cammini personali di ciascuno da parte della comunità cristiana e l’accompagnamento degli stessi»;
- «il desiderio che tutti abbiamo che ogni persona – in particolare i giovani – possa trovare nella pienezza della proposta evangelica il compimento di quel desiderio di amore che l’essere immagine e somiglianza del Dio amore ha collocato nei nostri cuori»;
- «l’impegno a tenere in considerazione, con pazienza e intelligenza, i diversi modi di sentire diffusi oggi che, pur avendo aspetti di verità, sono spesso riduttivi»;
- «l’attaccamento alla propria comunità, ma non in termini esclusivi e alternativi ad altri, ma dentro un respiro di autentica comunione ecclesiale»;
- «la consapevolezza della particolare responsabilità di chi ha un ruolo educativo dentro la comunità cristiana»;
- «la consapevolezza della necessità di guadagnare un rapporto meno ingenuo con i mezzi di comunicazione sociale».
Tutte belle cose, per carità, ma non faceva prima (e meglio) a dire che per un cristiano tutto è grazia? Forse però il punto è che qui siamo molto lontani dal curato di campagna di Bernanos (colui che pronuncia, nel momento finale dell’agonia, quella formula di fede e di speranza) e siamo forse dalle parti di Pangloss del Candido di Voltaire, che insegna a “pensare positivo” come va di moda adesso: “sì, forse abbiamo un piccolo problema, ma viviamo nel migliore dei mondi possibili, guardate quante cose belle ci sono intorno a noi” … La chiesa, da più di cinquant’anni a questa parte, si è a più riprese robustamente vaccinata contro il pessimismo, che di certo cristiano non è; ma forse sarebbe ora di rammentare che anche l’ottimismo è altrettanto estraneo alla fede cristiana. Cristiana è la speranza, che è tutt’altra cosa. Sì, veramente “tutto è grazia” – come il curato di Bernanos sa bene per averlo sperimentato attraverso la sofferenza – ma solo perché Cristo, crocifisso, morto, sceso agli inferi e risorto, tocca tutte le realtà della vita, nessuna esclusa. Egli non toglie nulla alla durezza delle contraddizioni, delle storture, del male che c’è nel mondo: lo inchioda alla croce. È per la croce che tutto è grazia, non per altro. Le difficoltà, le contraddizioni, i disordini sono “dis-grazie”, ma è la presenza di Cristo che le rende occasioni di grazia. Il vescovo ci invita a guardare innanzitutto quelle otto grazie e fa bene; magari ne potremmo aggiungere altre otto, oppure ottanta (grazia è star bene in salute; grazia è essere liberi, grazia è anche che oggi è una bella giornata …), ma ciò non deve offuscare la nostra percezione della realtà, con il peso dei suoi problemi.
Lì c’era un problema, e quello che era chiesto al vescovo era di affrontarlo. Il fatto è che egli sembra non volerlo fare. Infatti, dopo essersi soffermato su tutti gli aspetti positivi della situazione, monsignor Redaelli procede al secondo passo, «un pacato confronto con l’insegnamento ecclesiale», e premesso che la Scrittura non si presenta «come un manuale di principi e di indicazioni concrete riferibili a ogni situazione della vita» e che occorre quindi un lavoro della chiesa per «discernere che cosa è richiesto dal Signore nelle diverse situazioni», osserva che si tratta di un lavoro in continuo sviluppo perché le situazioni e i problemi cambiano nel corso del tempo e poi conclude questa parte (significativamente la più breve del suo discorso) con le seguenti parole:
«Naturalmente, il fatto che ci sia uno sviluppo del pensiero e delle indicazioni della Chiesa su diverse problematiche – a volte anche molto accelerato – non deve portare a disattendere ciò che viene proposto autorevolmente per l’oggi. Anche questa sarebbe una distorsione della fede cristiana, un non accogliere il fatto che lo Spirito assiste hic et nunc il popolo di Dio e chi è chiamato a guidarlo nella concretezza dell’oggi con autorevolezza, ma anche con molta umiltà. Umiltà tanto più necessaria quando si è di fronte a questioni nuove e complesse circa le quali la riflessione ecclesiale è ancora iniziale o comunque non del tutto matura, i pareri non sono concordi, le prassi pastorali non ancora ben definite (non c’è dubbio che almeno alcune questioni connesse con la sessualità umana, l’amore coniugale, la famiglia, la vita ecc. siano di questo tipo)».
Voi avete capito? Io no.
Pazienza, si dirà, adesso viene la terza parte, quella pratica, quella dove si prendono decisioni, si indica una condotta, si danno dei criteri … insomma quella che nel caso di Atti 15, preso a modello dal vescovo Redaelli, viene esposta nei vv. 22-29. Là gli apostoli e gli anziani riuniti a concilio scrivevano: «Abbiamo saputo … Abbiamo perciò deciso … Abbiamo mandato … Abbiamo deciso, lo Spirito Santo e noi …». Qui il vescovo dà due «suggerimenti» e un’«indicazione»: il primo suggerimento «è quello di darci tempo. […] Un tempo ampio anche per l’AGESCI e per altre realtà ecclesiali di carattere educativo che devono affrontare tematiche nuove, come, ad esempio, la necessità di proporre oggi determinati valori con un approccio diverso rispetto al passato o anche di dover pensare a una formazione e a un accompagnamento degli stessi propri educatori, che talvolta compiono scelte personali, in particolare in tema di affetti, che fino a poco tempo fa non erano quasi ipotizzabili o comunque erano percepite come evidentemente incompatibili con il proprio compito».
Di nuovo ci capisco poco, ma quello che segue è, purtroppo, molto chiaro: «Insisto perché siano queste realtà ecclesiali a operare il necessario discernimento e a giungere ad alcune indicazioni condivise e sagge, non per sottrarmi al mio impegno di pastore […], ma per evitare che un mio pronunciamento possa essere visto come un intervento “autoritario” dall’alto e quindi accolto “obtorto collo”, e non invece come aiuto a discernere e compiere la volontà di Dio, o utilizzato quasi come alibi per evitare ai soggetti ecclesiali interessati la fatica, ma anche la positività, di un cammino non facile di discernimento».
Stento a crederlo, ma ha scritto proprio così. In sostanza: “fate voi”.
Il secondo suggerimento è «invitare a un atteggiamento di disponibilità gli uni verso gli altri, che parta dal presupposto della buona fede reciproca, trovi occasione di dialogo pacato e sincero, abbia la pazienza dell’ascolto, riannodi una comunione che resta vera anche in presenza di diverse sensibilità e accentuazioni». In sostanza: “vogliatevi bene” (che va sempre bene, intendiamoci, ma non costituisce una risposta).
L’indicazione è in realtà un altro elenco simile a quello delle “grazie” di cui sopra: «meditazione della Parola di Dio», «studio», «riflessione», «confronto», «scelta delle priorità», «preghiera intensa per le persone che ci sono affidate», «sguardo di empatia (meglio: lo sguardo di Gesù) verso chi incontriamo», «paziente ascolto di ognuno con la proposta dell’insegnamento cristiano in termini saggi che possa condurre alla sua accoglienza (o almeno al suo non rifiuto a priori)» (?), «impegno della salvaguardia della comunione», «mettere davanti a tutto il regno di Dio con grande libertà da se stessi (compreso il proprio incarico, il proprio carisma, le proprie attese, i propri attaccamenti, le proprie sensibilità)»; «valutazione paziente di tempi e modi di intervento affinchè siano costruttivi della comunione», «saggio utilizzo dei mezzi di comunicazione sociale». In sostanza: “miglioratevi”. Certo nessuno può sostenere che meditare, studiare, pregare ecc. siano cose sbagliate, inutili o cattive, ci mancherebbe!, ma anche qui la risposta alla domanda posta al vescovo dov’è?
Così si conclude il suo intervento. Propongo un esperimento mentale: immaginate una famiglia alle prese con un grave problema che riguarda la condotta di uno dei figli. Immaginate che essi chiedano al padre: è giusto fare o non fare la tal cosa? Immaginate che un padre di famiglia risponda in questo modo. (Anzi, non immaginatelo, perché oggi purtroppo succede).