«Ecco le schiere / del trïunfo di Cristo e tutto ‘l frutto / ricolto del girar di queste spere!» (vv. 19-21). L’annuncio di Beatrice è come se ci avvertisse che ora siamo in Paradiso. A più di due terzi della cantica, ci accorgiamo che finora siamo saliti in cielo, ora ci siamo. È come se prima stessimo entrando in Paradiso, e ora fossimo sulla soglia. Perché il Paradiso è Dio. Da qui in avanti, il problema poetico, posto sin dall’inizio, delle «cose che ridire / né sa né può chi di là su discende», diviene il problema esclusivo di Dante. Come si fa a “dire” Dio; a rappresentare la visione di Lui? Qui, nel canto XXIII, forse il più dolce e delizioso del poema sacro, lo si fa con immagini e similitudini che rappresentano la Chiesa, che è il suo corpo mistico, e la Vergine Maria che a Dio ha dato un corpo e l’ha accolto nel suo grembo.
Il primo cenno, tuttavia, è ancora per Beatrice, la donna cristofora (e perciò teofora), il segno della prossimità di Dio alla persona di Dante: «Pariemi che ‘l suo viso ardesse tutto, / e li occhi avea di letizia sì pieni, / che passarmen convien sanza costrutto» (vv. 22-24). Non solo donna-angelo, cioè portatrice di un messaggio divino, ma partecipe ella stessa, nella comunione dei beati, della natura divina e dunque anche lei ineffabile: il v. 24 contiene la prima delle rinunce a parlare che costellano questo canto.
Segue la similitudine della luna, che supera, per liquida musicale dolcezza, la descrizione del cielo che ci incantò nel I canto del Purgatorio (ne parlammo qui: https://leonardolugaresi.wordpress.com/2020/09/09/ri-cominciare-dante-purgatorio-canto-i-vv-13-18/): là era «Dolce color d’orïental zaffiro, / che s’accoglieva nel sereno aspetto / del mezzo, puro infino al primo giro» (Purg. I, vv. 13-15); qui è «Quale ne’ plenilunii sereni / Trivïa ride tra le ninfe etterne / che dipingon lo ciel per tutti i seni» (vv. 25-27). In questo cielo, che nell’immagine è quello di una serena notte di plenilunio ma nella sostanza è la prima veduta del “sole divino” che si spalanca ai nostri occhi, Dante dice «vid’i’ sopra migliaia di lucerne / un sol che tutte quante l’accendea, / come fa ‘l nostro le viste superne; // e per la viva luce trasparea / la lucente sostanza tanto chiara / nel viso mio, che non la sostenea» (vv. 28-33). Quante sono le stelle? Tante da non poterle contare, come già aveva fatto notare Dio ad Abramo, promettendogli una discendenza così numerosa. Quando noi pensiamo (poco!) al Paradiso, credo che la nostra immaginazione sia per lo più sospesa tra due estremi: da una parte c’è l’idea, oggi divulgatissima nella chiesa, che in Paradiso ci vadano tutti perché infinita è la misericordia di Dio, da cui viene l’immagine, necessariamente sfocata, di una beatitudine di massa, low cost, che però sotto sotto non ci colpisce e non ci attrae più di tanto, perché ciascuno di noi vorrebbe essere non amato all’ingrosso, nel mucchio, ma prediletto. All’estremo opposto c’è il timore, innescato da parole inquietanti che pure si trovano nel vangelo, che a salvarsi siano in pochi e il Paradiso non sia poi così affollato. A quel tale che gli chiese: «Sono pochi quelli che si salvano?», dando voce alla domanda di tutti, Gesù non rispose con una statistica tranquillizzante bensì con un invito esigente e duro: «Sforzatevi di entrare per la porta stretta, perché molti, io vi dico, cercheranno di entrare, ma non ci riusciranno» (Lc 13, 23-24). Timore che, in quel guazzabuglio che è il cuore umano, spesso si unisce paradossalmente all’aspirazione a far parte di una élite e al gusto malsano di “essere in pochi”. Noi, happy few, diversi da tutti gli altri, contro tutto e contro tutti.
Qui, invece, la prima visione dantesca della «lucente sostanza» del corpo glorioso di Cristo traspare attraverso la luce di «migliaia di lucerne», la moltitudine delle anime dei beati. Quanti sono! Tanti da non poterli contare, come le stelle del cielo. E quanta felicità in questa loro smisurata grandezza! Godiamoci lo spettacolo di quella che i teologi chiamano la chiesa trionfante. Nel mondo le folle (le masse, come anche si dice), fanno impressione, ma incutono sempre un po’ di paura, anche quando sono esaltanti. L’individuo teme sempre di esserne schiacciato, o di smarrirvisi. Qui no. Qui la festa è così bella perché si è in tanti: ci sono tutti, non manca nessuno (di quelli che devono esserci).
Ma la luce è troppa e Dante non la sostiene. Lo soccorre Beatrice spiegandogli cosa sta accadendo (sei di fronte a Cristo, «la sapïenza e la possanza / ch’aprì le strade tra il cielo e la terra», vv. 37-38), e il poeta, commosso, esprime la sua gratitudine con un verso straordinario, «unico nel suo genere nel poema» (Chiavacci Leonardi) per l’assoluta semplicità, il candore quasi infantile: «Oh Bëatrice, dolce guida e cara!» (v. 34). Come quando, sopraffatti dall’emozione, non sappiamo fare altro che pronunciare il nome della persona che ci ha sciolto il cuore.
Il secondo modo di vedere Dio, che viene offerto a Dante, è vedere Beatrice quale veramente è, cioè unita a Dio, in comunione con Lui. «Apri li occhi e riguarda qual son io; / tu hai veduto cose, che possente / se’ fatto a sostener lo riso mio» (vv. 46-48). Ma proprio perché vedere Beatrice è vedere Dio, che cosa sia non si può dire. Ecco dunque, ai vv. 55-69, la più ampia, articolata e poetica celebrazione dell’insufficienza della poesia, che – a ben vedere – altro non è che una esaltazione del limite umano. È l’atteggiamento più cristiano che ci sia, perché il cristianesimo altro non è che l’Infinito che si piega e si incista nel finito, Dio che si fa uomo, entra nel limite della condizione umana e lo esalta. Per questo noi cristiani veneriamo la carne, cioè il limite: la carne di Cristo, nel sacramento eucaristico. Nulla come l’adorazione eucaristica, silenziosa contemplazione di un pezzetto di pane, corrisponde a questa unica, sorprendente, folle disposizione cristiana a riconoscere il Tutto nel frammento.
Se mo sonasser tutte quelle lingue
che Polimnïa con le suore fero
del latte lor dolcissimo più pingue,
per aiutarmi, al millesmo del vero
non si verria, cantando il santo riso
e quanto il santo aspetto facea mero;
e così, figurando il paradiso,
convien saltar lo sacrato poema,
come chi trova suo cammin riciso.
Ma chi pensasse il ponderoso tema
e l’omero mortal che se ne carca,
nol biasmerebbe se sott’ esso trema:
non è pareggio da picciola barca
quel che fendendo va l’ardita prora,
né da nocchier ch’a sé medesmo parca.
«Figurando il paradiso, / convien saltar lo sacrato poema, / come chi trova suo cammin riciso»: il Paradiso non andrebbe nemmeno scritto, se lo si fa è solo per un dovere di carità, per un’obbedienza a un compito che Dio ha assegnato. È il modo di Dante di “passare per la porta stretta”. A me pare che, tra le righe, qui il nostro poeta per un momento chieda la nostra comprensione: «chi pensasse il ponderoso tema / e l’omero mortal che se ne carca …». Che fatica, che sofferenza scrivere il Paradiso! (I mistici e le mistiche, non per nulla, scrivono le loro visioni, quando le scrivono, unicamente per ubbidienza: ai loro superiori che glielo impongono o ad un diretto comando divino).