Correggetemi se sbaglio: Gesù, per quanto risulta dai vangeli, non fa mai complimenti. A nessuno. L’unico “elogio” che mi viene in mente, a parte quello double-face per Giovanni Battista (Mt 11,11: «tra i nati di donna non è sorto uno più grande di Giovanni il Battista; tuttavia il più piccolo nel regno dei cieli è più grande di lui»), è rivolto a un militare, quel centurione romano che gli dice che non c’è bisogno che venga a casa sua per guarire il suo servo malato, basta che dia l’ordine, e Gesù – nota il vangelo – “restò ammirato” di tanta fede (Lc 7,9).
Sicuramente Gesù non “valorizza” (come si direbbe oggi) mai i suoi discepoli: li sceglie, li chiama a vivere con lui, li chiama amici e non servi (ma perché “il servo non sa quello che fa il padrone” mentre lui quello che ha udito dal Padre glielo ha detto: cfr. Gv 15,15), però non si mette mai al loro livello (semmai si mette al di sotto, per servirli), non chiede mai il loro parere, non li “coinvolge nei processi decisionali”, non apprezza mai (e neppure finge pedagogicamente di apprezzare) le loro proposte e le loro iniziative. Vedi ad esempio un caso tipico in Mc 9,38-40: «Giovanni gli disse: «Maestro, abbiamo visto uno che scacciava i demòni nel tuo nome e glielo abbiamo vietato, perché non era dei nostri». Ma Gesù disse: «Non glielo proibite, perché non c’è nessuno che faccia un miracolo nel mio nome e subito dopo possa parlare male di me. Chi non è contro di noi è per noi».
In una parola, li fa stare al loro posto: «voi mi chiamate Maestro e Signore, e dite bene perché lo sono» (Gv 13,13). Nessuna democrazia. (Forse nella neolingua di oggi si dovrebbe dire che nel vangelo è tutto molto top down e molto poco bottom up).
E Pietro? Beh, il dono di Pietro, ciò che lo distingue dagli altri e lo fa preferire dal capo (anche rispetto al “discepolo che Gesù amava”) per svolgere la “funzione petrina”, cioè quella di fare da pietra di ancoraggio (o d’inciampo) della fede di tutti gli altri, è che qualche volta almeno lui non fa di testa sua.
In particolare, il “giorno dell’esame”, quella volta che il maestro – dopo un bel po’ che faceva lezione – si decise a interrogare i discepoli: «Voi, chi dite che io sia?», fu il pescatore di Galilea a tirare fuori, chissà come, chissà da dove, la risposta giusta: «Rispose Simon Pietro: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente”. E Gesù: “Beato te, Simone figlio di Giona, perché né la carne né il sangue te l’hanno rivelato, ma il Padre mio che sta nei cieli”» (Mt 16,16-17). Si noti, per favore, la motivazione del bel voto: “Bravissimo Pietro, perché questa non è farina del tuo sacco”. (Come se un professore lodasse l’alunno che ha imparato a memoria o copiato bene la risposta giusta. Altro che “l’alunno si dimostra capace di rielaborare in forma autonoma i contenuti appresi esprimendoli in modo personale e bla bla bla”).
E quando invece Pietro fa di testa sua? Un disastro. Secondo il vangelo, come è noto, subito dopo l’esame del primo ciclo superato brillantemente, Pietro e gli altri accedono al corso avanzato, quello tosto (con argomenti come andare a Gerusalemme, soffrire da parte dei capi, venire ucciso e risuscitare: Mt 16,21). Compreso del suo ruolo di vice, Pietro interviene – di testa sua! – trae in disparte Gesù (notare la finezza: tratta la cosa in sede riservata, “tra loro due”!), protesta e dice la sua: «Questo non ti succederà mai!». La reazione del Maestro, come è noto, è durissima. Noi siamo abituati a tradurre le sue parole con «Lungi da me, satana!», ma forse l’espressione greca ὕπαγε ὀπισω μου potrebbe essere resa anche con «Vieni dietro di me!», cioè: “sta al tuo posto, prendi appunti, impara e ubbidisci. E nun t’allargà”.
Tutto ciò è paradigmatico. Ogni pensata di Pietro fa più o meno la stessa fine, compresa l’ultima, di sguainare una spada nell’orto degli ulivi (“ma quanto sei scemo! Se volevo non chiedevo aiuto al Padre e mi mandava subito dodici legioni di angeli?” cfr. Mt 26,53).
Pietro non è investito di alcuna sovranità (con buona pace di una tradizione secolare che ha forse troppo insistito, per ragioni storiche anche comprensibili, su un certo aspetto “regale” del papato), ma di “un’autorità di ubbidienza”, se così si può dire, i cui risvolti anche esistenziali sulla persona dell’apostolo (e dei suoi successori) sono lucidamente indicati da Gesù, di nuovo senza tanti complimenti: «quando eri più giovane ti cingevi la veste da solo, e andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio tenderai le tue mani, e un altro ti cingerà la veste e ti porterà dove tu non vuoi» (Gv 21,18). Altro che “il papa è il papa e può fare quello che vuole!”.
Di questo paradigma si mostrò acutamente consapevole papa Benedetto XVI quando pronunciò, nell’omelia della Messa di inaugurazione del suo pontificato, delle parole che allora non capimmo (o perlomeno non capii) fino in fondo: «Cari amici! In questo momento non ho bisogno di presentare un programma di governo. Qualche tratto di ciò che io considero mio compito, ho già potuto esporlo nel mio messaggio di mercoledì 20 aprile; non mancheranno altre occasioni per farlo. Il mio vero programma di governo è quello di non fare la mia volontà, di non perseguire mie idee, ma di mettermi in ascolto, con tutta quanta la Chiesa, della parola e della volontà del Signore e lasciarmi guidare da Lui, cosicché sia Egli stesso a guidare la Chiesa in questa ora della nostra storia».