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~ Vanitas ludus omnis

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Archivi Mensili: aprile 2022

Sulla soglia della guerra. Considerazioni marginali di un idiota.

27 mercoledì Apr 2022

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Dio, guerra, libertà, patria, persona, popolo, vita

Penso che Putin non ami la Russia più di quanto Hitler amava la Germania. E quanto la amasse colui, lo si vede bene dai suoi atti: pur sapendo che la guerra era perduta, almeno dai giorni della sconfitta di Stalingrado (perché era tutto fuorché stupido), non cercò mai una via d’uscita per il bene del suo popolo. L’annientamento della sesta armata di Paulus, che egli volle ad ogni costo, fu anzi l’inizio della sua guerra contro la Germania, che portò avanti fino al giorno della sua morte con una determinazione incrollabile e con una ferocia non inferiore a quella rivolta ai nemici. Colpevole di non corrispondere alla volontà del suo capo, il popolo tedesco doveva morire con lui. Tutto quanto. Tale fu l’amore di Hitler per la Germania, a cui diceva di aver dedicato l’intera sua esistenza! Se, come si dice da parte di tanti qui da noi che pretendono di saperla lunga, “Putin è come Hitler”, che cosa dovrebbe mai trattenerlo dal fare altrettanto, qualora si vedesse perduto? L’amore per la Russia?

Non so se «il patriottismo» sia – come diceva Johnson (Samuel, non Boris) – «l’estremo rifugio delle canaglie», ma temo che i patrioti, di regola, amino non la patria, come proclamano sempre, ma solo l’idea che se ne sono fatti: in definitiva, tengono più che altro a se stessi. Ma che cos’è poi la patria? Uno semplice, come me, risponderebbe: è un popolo in un territorio. Il territorio è sì importante, ma secondario: la storia ci mostra che i confini delle nazioni si allargano e si restringono continuamente, nel corso dei secoli. La retorica dei «sacri confini» è pura menzogna: se volessimo prenderla sul serio, quella presunta sacralità, dovremmo cominciare a riconoscere che i confini degli stati europei attuali sono quasi tutti “blasfemi”, perché frutto di innumerevoli guerre di aggressione, annessioni e unificazioni violente che “il sacro suolo della patria” l’hano violato mille volte. Il controllo e la difesa delle frontiere, beninteso, sono un dovere primario di ogni stato (cosa di cui, per inciso, ci si dovrebbe ricordare anche quando si fa l’altra retorica, quella dei “migranti”), ma è una materia esclusivamente politica, che non ha nulla di “sacro”.

Il popolo è più importante del territorio, perché senza di esso l’individuo non può sviluppare una vita pienamente umana, anzi nemmeno si realizza come persona umana. Non è semplice, però, spiegare cosa sia un popolo: probabilmente è fatto di tante cose, tra cui in primis una cultura, una storia, una lingua comune eccetera. Ma prima di tutto questo, non bisogna dimenticare che un popolo è fatto di persone, e ogni singola persona è diversa da tutte le altre, unica ed irripetibile, a immagine e somiglianza di Dio che l’ha creata. Ogni singola persona umana, quindi, in forza di questo rapporto costitutivo con l’ontologia divina vale più di qualsiasi altra cosa materiale o spirituale che si possa pensare a questo mondo, tranne una sola: il rapporto con Dio che, appunto, la fa essere. In altre parole, nulla vale quanto una singola vita umana, tranne l’appartenenza di quella vita a Dio, e c’è una sola cosa per cui è sempre e comunque obbligatorio sacrificare la vita: fare la volontà di Dio. Nessun altro valore, per quanto alto sia, può stare al di sopra della vita umana ed esigerne il sacrificio. Non la patria, non il popolo, non la libertà, a meno che questi non siano il nome, o il volto, che il comandamento divino dell’amore assume in una certa circostanza. Una persona può infatti decidere di morire per la patria, per il popolo, per la libertà o per qualche altro grande valore perché è convinta che quello è il modo che Dio gli indica per “dare la vita per i propri amici” (Gv 15,13), cioè realizzare l’amore più grande che ci sia. E questa è santità.

Uno può anche decidere di morire per una causa che reputa nobile, e sbagliarsi nel giudizio perché non è ciò che Dio gli chiede, e il bene per cui dà la vita vale meno della vita stessa. Si potrà dunque, e forse talvolta perfino si dovrà, disapprovare la sua decisione, ma bisogna comunque guardarla con religioso rispetto: ha dato la sua vita! Ma nessuno, nessuno mai, per nessuna ragione e in nome di nessun principio ha il diritto di far morire gli altri: per la patria, per il popolo, per la libertà, per la giustizia, per la pace, o per qualsiasi altra bella parola. “Libertà o morte!”, vedo che si proclama qui da noi, sempre più imperiosamente, dai più diversi pulpiti mediatici, in queste orribili settimane di guerra altrui, mentre si lavora alacremente a una guerra ancor più grande. Si intende la libertà politica, quella “della patria”, che sola renderebbe la vita degna di essere vissuta; e soprattutto si sottintende la morte degli altri: oggi “l’eroico popolo ucraino” che combatte contro l’invasore, e che è fatto di persone, uomini donne e bambini i quali non vorranno tutti – io penso – morire per quello. Domani toccherà a qualcun altro. Ma “Libertà o morte!” è un discorso che, per essere non dico veri ma almeno decenti, bisogna fare mettendo seriamente in gioco se stessi e i propri cari. Se davvero voglio sostenere che la vita senza libertà politica non è degna di essere vissuta, devo essere seriamente pronto a volere la morte mia, dei miei figli e dei miei nipoti. Devo prendere tra le braccia il mio bambino, guardarlo negli occhi, e dire, sul serio: “tu devi morire!”.

Joseph e Magda Goebbels, 77 anni fa, giusto in questi giorni, ritenendo che la vita senza il Führer non meritasse di essere vissuta, nel bunker della cancelleria uccisero i loro sei figli e poi si suicidarono. L’impronta diabolica di quell’orrore è, io spero, riconoscibile da tutti. Eppure si deve riconoscere che furono seri e coerenti nel porre l’alternativa: “x o morte”. Si dirà che la loro x era orribile, mentre la nostra è bellissima, e che quindi il confronto è improponibile, ma se ci resta un briciolo di raziocinio non si potrà non vedere che, quando si ammette che in nome di un “grande valore” qualcuno ha il diritto-dovere di disporre la morte di un altro, è in quell’orrore che prima o poi si va a finire.

«È meglio che un uomo solo muoia per il popolo» è sì una frase del vangelo, ma l’ha detta Caifa, non Gesù.

Il nostro compito: contemplare con amore il mondo fatto per Amore (#Dante, Paradiso, canto X, vv. 7-27)

25 lunedì Apr 2022

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#Dante, amore, appelli al lettore, Bellezza, cielo, creazione, ordine, scuola

Dopo le parole abissali su come la Trinità crea il mondo – di cui abbiamo balbettato qualcosa, sin troppi giorni fa, qui: https://leonardolugaresi.wordpress.com/2022/04/12/come-dio-crea-il-mondo-dante-paradiso-canto-x-vv-1-6/ – viene un “appello al lettore” che mi pare diverso da tutti gli altri che l’hanno preceduto, perché più che un appello è un vero e proprio compito: «Leva dunque, lettore, a l’alte rote / meco la vista, dritto a quella parte / dove l’un moto e l’altro si percuote» (vv. 7-9). Si tratta dunque non semplicemente di dare un’occhiata al cielo, ma di ascendere con lo sguardo sino a fissare il punto in cui si incontrano i due movimenti opposti, «quello diurno del cielo stellato, da levante verso ponente» e «quello annuo dei pianeti dello Zodiaco, che taglia obliquamente il primo muovendosi da ponente verso levante» i cui cerchi massimi, cioè l’equatore e l’eclittica, «si incrociano … ai due equinozi, di primavera e d’autunno» (Chiavacci Leonardi). Contemplare il cielo cogliendone l’ordine e il senso.

Per questo il compito che Dante oggi ci assegna è più specifico e più impegnativo di una qualche kantiana evocazione del “cielo stellato sopra di me”; per non dire di ogni sentimentale (e in fin dei conti edonistica) degustazione di azzurre distese celebrate dai poeti, imitate dai pittori e divulgate in mille canzoni: «e lì comincia a vagheggiar ne l’arte / di quel maestro che dentro a sé l’ama, / tanto che mai da lei l’occhio non parte» (vv. 10-12). L’uncino che ci prende e ci solleva alla comprensione di questa terzina è quel verbo mirabile, vagheggiar, che fa immediatamente risorgere, dal fondo della memoria del lettore, la musica sublime e dolcissima di quegli altri versi che meditammo giusto un anno fa: «esce di mano a lui che la vagheggia / prima che sia, a guisa di fanciulla / che piangendo e ridendo pargoleggia, / l’anima semplicetta che sa nulla» (Purg. XVI, vv. 85-88; ne parlammo qui: https://leonardolugaresi.wordpress.com/2021/04/12/esce-di-mano-a-lui-che-la-vagheggia-dio-crea-da-padre-anzi-da-babbo-dante-purgatorio-canto-xvi-vv-85-96/). Là si parlava dell’uomo, qui si parla del cosmo, ma è la stessa identica cosa, perché il cosmo è per l’uomo e non avrebbe senso alcuno senza la propria autocoscienza, che è appunto l’uomo: creato da un Amante che l’ha “vagheggiato”, l’uomo è chiamato a “vagheggiare” la Sua opera amorosa. È un compito, un dovere, un giudizio: non il contrario, ma infinitamente di più di una voglia, un piacere o una pulsione. «Amor che nullo amato amar perdona»: il deprecabile assunto dell’ideologia cortese-stilnovista qui, rimesso finalmente al posto giusto, diventa finalmente vero. Non è la bellezza del cielo, in sé, che salva il mondo – come nessuna bellezza salverà il mondo, a dispetto di quanto si continua a far dire a un Dostoevskij malamente citato. Nel cielo terso il sole risplendeva, in tutta la sua bellezza, anche su Auschwitz – benché ce lo facciano vedere, quel campo di morte, sempre in bianco e nero – come oggi risplende, quando è bel tempo, sui campi di battaglia dell’Ucraina, e così sarà sempre «finché il sole risplenderà su le sciagure umane», come dice bene il verso, per una volta felice, di un poeta a me antipaticissimo. Quello che noi siamo chiamati a vagheggiare, cioè a guardare con occhi innamorati, è l’arte «di quel maestro che dentro a sé l’ama». Il mondo è così bello, così amabile, solo perché Dio l’ama. La creazione può, anzi deve, piacere a noi, perché piace così tanto a Lui «che mai da lei l’occhio non parte». Se smettesse di compiacersene per un solo istante, sparirebbe inghiottita dal nulla da cui solo Lui l’ha fatta essere, e tutte le sue bellezze non la salverebbero.

Contemplare il cosmo, quindi, è un lavoro, da svolgere con metodo: «Vedi come da indi si dirama / l’oblico cerchio che i pianeti porta» – cioè lo Zodiaco – «per soddisfare al mondo che li chiama. // Che se la strada lor non fosse torta, / molta virtù nel ciel sarebbe in vano, / e quasi ogne potenza qua giù morta; // e se dal dritto più o men lontano / fosse ‘l partire, assai sarebbe manco / e giù e sù de l’ordine mondano» (vv. 13-21). Se non fosse fatto esattamente nel modo in cui è fatto, al micrometro, il mondo non funzionerebbe, non starebbe in piedi, non sarebbe “bello”. Torna, alla grande, la celebrazione dell’ordine divino, che avevamo individuato come tema poetico principale del primo canto: «Le cose tutte quante / hanno ordine tra loro, e questo è forma / che l’universo a Dio fa simigliante» (I, vv. 103-105; ne abbiamo parlato qui: https://leonardolugaresi.wordpress.com/2021/10/26/a-dio-il-mondo-piace-cosi-dante-paradiso-canto-i-vv-103-114-127-135/). Con la sua solita tecnica dell’anticipazione, Dante questo tema lo aveva brevemente ripreso anche nel canto IX, ai vv. 106-108: «Qui si rimira ne l’arte ch’addorna / cotanto affetto, e discernesi ‘l bene / per che ‘l mondo di sù quel di giù torna» (dove l’ultimo verso va inteso nel senso, bellissimo, che il mondo di su, cioè quello della perfezione celeste, torna, cioè attornia, anzi abbraccia quello di giù, che invece si sembra a volte imperfetto e malandato). Quale potente fondamento teologico di un approccio cristiano (e perciò critico verso tutte le ideologie) all’intero complesso delle scienze della natura e, di conseguenza, anche alla questione ecologica, ci sarebbe qui indicato, se noi cristiani di oggi avessimo una mens adeguatamente formata per comprenderlo!

“Compito” rimanda a “scuola”: la dimensione “scolastica” della Commedia, che abbiamo tante volte ricordato durante il nostro viaggio, non viene certo meno qui nel Paradiso ed ora spunta graziosamente nella terzina successiva: «Or ti riman, lettor, sovra ‘l tuo banco, / dietro pensando a ciò che si preliba, / s’esser vuoi lieto assai prima che stanco» (vv. 22-24). “Guardare il cielo” in modo sentimentale o estetico, per provare un’emozione, non costa fatica; ma serve anche a poco (io direi quasi a niente). Contemplarlo come dice Dante, invece, essendo un’arte, cioè una disciplina che si deve apprendere, di fatica ne costa ed è sempre esposto al rischio della stanchezza. Bello suonare bene uno strumento musicale: ma per arrivarci occorrono infinite ore di studio noioso; deliziosa l’arte della danzatrice, che si leva nell’aria senza peso: ma tutta quella leggerezza è il frutto di pesanti esercizi quotidiani; ammirevole la dottrina dell’erudito che padroneggia il suo argomento: ma è costata anni di schiena curva sui libri di fredde e polverose biblioteche. Il verso 24 è brillantemente risolutivo: «s’esser vuoi lieto assai prima che stanco» devi sempre volgere lo sguardo al piacere che ti attende all’arrivo. San Francesco diceva, semplicemente: «Tanto è il bene che mi aspetto, ch’ogni pena m’è diletto» (e così gioco d’anticipo anch’io, come Dante, perché tra un po’ Francesco arriva).

“Compito” suggerisce anche un’altra massima: unicuique suum, a ciascuno il suo. Nell’ultima terzina di questo passo, Dante si fa quasi rudemente sbrigativo (e io lo amo quand’è così): «Messo t’ho innanzi: omai per te ti ciba; / ché a sé torce tutta la mia cura / quella materia ond’io son fatto scriba» (vv. 25-27). Quel che dovevo te l’ho detto, lettore: ora arrangiati, che io ho altro da fare. E non per mio capriccio: ho anch’io il mio compito, «quella materia ond’io son fatto scriba». Molto finemente, Anna Maria Chiavacci Leonardi nota che son fatto si deve intendere come un perfetto passivo, cioè “sono stato fatto”, e non, come altri leggono, “mi sono fatto”. Scrivere la Commedia non è una voglia che gli è venuta, l’espressione di un suo desiderio, ma un dovere che gli è stato imposto. Non è l’autore, nel senso egotista e romantico che va ancora per la maggiore tra noi, ma il copista, lo scrivano. Ecco dunque un’altra pretesa stilnovista che diventa vera nella nuova, trascendente dimensione aperta dalla Commedia: «’i mi son un che, quando / Amor mi spira, noto, e a quel modo / ch’e’ ditta dentro vo significando» (Purg. XXIV, vv. 52-54). Vanteria di poeta, finché Amore era quell’idoletto di cui cianciava Francesca; pura verità ora che fa lo scrittore sacro, che trascrive ciò che gli è stato rivelato dal vero Amore.

Invito dantesco (con una citazione di Emily Dickinson).

22 venerdì Apr 2022

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#Dante, #Purgatorio

Sabato 14 maggio, ore 17, alla Biblioteca Malatestiana di Cesena, presentiamo il libro Andare a scuola in Purgatorio (e passare gli esami), MC edizioni, MIlano 2022, che dà conto della seconda tappa del nostro viaggio con Dante. A parlarne, ci saranno con me Riccardo De Benedetti e Gianfranco Lauretano, due amici che il libro lo hanno già letto. Poiché si parlerà della Commedia, credo che saranno dette delle «parole preziose». Per questo mi fa molto piacere invitare tutti i lettori di questo blog, che si trovassero nelle vicinanze, a partecipare all’incontro. C’è da aggiungere, inoltre, che lo faremo in presenza, come si usava una volta. Trovarsi insieme, vederci in faccia (credo anche senza mascherina obbligatoria, se ho capito bene le intenzioni del governo), a leggere Dante e a parlare della sua poesia: una bella cosa! Come se, per una volta, la comitiva dantesca, cioè la piccola compagnia di lettori della Commedia che abbiamo costituito virtualmente qui, prendesse corpo in una riunione amicale.

A proposito di «parole preziose». La poesia di Emily Dickinson, che forse sarà già venuta in mente a qualcuna delle fini lettrici di questo piccolo blog, rende bene l’idea di che cos’è per noi leggere la Commedia:

He ate and drank the precious words,
His spirit grew robust;
He knew no more that he was poor,
Nor that his frame was dust.
He danced along the dingy days,
And this bequest of wings
Was but a book. What liberty
A loosened spirit brings!

Perché il papa non se lo fila nessuno?

19 martedì Apr 2022

Posted by leonardolugaresi in Senza categoria

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Un furore bellicista domina ormai incontrastato mezzo mondo – mezzo soltanto, il nostro; perché l’altra metà (che poi in termini demografici vuol dire molto di più) si limita ad assistere; ignare o indifferenti le popolazioni, segretamente compiaciuti i capi, che guardano “il mondo dei bianchi” farsi del male da solo. Nella follia che spinge tanti a “pensare” che «ci vuole più guerra!», la voce del papa, che è l’unica ragionevole, mi pare che sia totalmente inascoltata. Di fatto silenziata, completamente irrilevante.

Come mai? Non era il papa “la più alta autorità morale del mondo”? Questo papa, poi! Il grande comunicatore, l’uomo amato dalle moltitudini e rispettato dai grandi della terra, vicino anche ai lontani, capace di parlare a tutti, anche a coloro che a Cristo e alla chiesa hanno sempre detto di no; il papa che i media di tutto il mondo hanno sempre trattato coi guanti (diversamente dai suoi predecessori), Francesco!

Tanti anni spesi per sforzarsi di “piacere al mondo” (con buona intenzione, s’intende; tutto ad maiorem Dei gloriam, con l’idea gesuitica che bisogna fare così per poter contare cristianamente nel mondo), dando il proprio volenteroso e apprezzato contributo a tutte le agende promosse dai poteri del mondo, evitando con cura le rotture e i gesti “divisivi”, badando bene a dire opportunamente “a parte”, cioè in separata sede, le cose inopportune che la chiesa ogni tanto deve pur dire, sorridendo a tutti … e il risultato è questo: quando il gioco si fa duro, il papa e la chiesa vengono accompagnati fuori dal campo (con le buone o con le cattive) a stare a guardare. E zitti.

Si dirà che non è una novità, che la chiesa non ha mai contato granché, nella storia del nostro mondo, quando si trattava di guerre, e che in particolare da più di cento anni a questa parte non conta nulla. Un secolo fa, il povero Benedetto XV, piccolo, storto e per nulla mediatico, fu l’unico a fare la diagnosi giusta del male che infuriava in Europa: «una inutile strage», disse, e fu vilipeso e dileggiato un po’ da tutti, molti cattolici compresi. Si potrebbe obiettare che allora la situazione della Santa Sede era ben diversa: priva di un riconosciuto status internzionale, con pochissimi rapporti diplomatici attivi, in un mondo in cui la presenza politica dei cattolici era pressoché inesistente: le classi dirigenti europee erano tutte o massoniche o ancora legate alla vecchia concezione del rapporto fra trono e altare in cui il primo comandava sul secondo. I popoli forse erano ancora in larga parte cristiani, ma che cosa contavano i popoli nell’Europa del 1914-1918, intenta con stolta ferocia a dare inizio a quel secolare processo di autodistruzione di cui oggi vediamo gli esiti finali, di decomposizione cadaverica?

Anche nel 1939 il nuovo papa, Pio XII, alto, elegante, ieratico e pieno di fascino mediatico, fu il solo a dire la cosa giusta: «nulla è perduto con la pace, tutto può esserlo con la guerra». Qui i bellicisti di oggi – per lo più guerrieri in conto terzi, che il costo della “giusta causa della libertà” pensano di poterlo far pagare quasi tutto al solo “eroico popolo ucraino”, vietando a chiunque di osservare che quel popolo è fatto di persone, uomini, donne e bambini che sono morti e muoiono a migliaia e a cui nessuno ha chiesto e chiede se sono d’accordo a dare la propria vita per “fare gli eroi“ – storcono il naso e inarcano il sopracciglio perché, come si sa, se mai ci fu guerra giusta e necessaria fu proprio quella, che spazzò via Hitler e Mussolini (ma diede metà del nostro mezzo mondo a Stalin, per inciso). Innegabile che lo scopo sia stato raggiunto e, visti a distanza di ottanta anni, i sessanta o più milioni di morti che quel risultato costò non ci fanno più così tanto effetto.

Ai popoli europei dell’immediato dopoguerra, invece, quei morti e quelle rovine fecero una tale impressione che, per un momento, sembrò che il papa e la chiesa davvero contassero qualcosa nella politica del mezzo mondo che non era di Stalin. Nella breve parentesi democratica che seguì alla catastrofe dei totalitarismi e delle vecchie sedicenti democrazie liberali che non avevano saputo contrastarli, i popoli europei diedero infatti prevalente fiducia a uomini di governo di estrazione cattolica; e il papa sembrò per un momento investito di un’autorità veramente mondiale. Furono gli anni della ricostruzione, gli anni migliori che l’Italia e l’Europa abbiano mai avuto in tutta la loro storia millenaria. Ma fu anche l’illusione del “grande ritorno”, la chimera della possibile restaurazione di una civiltà cristiana, a cui Pio XII credette nella seconda parte del suo pontificato. Gli anni in cui la chiesa, soprattutto (ma non solo) in Italia, sembrava fortissima. Era un’illusione collettiva (don Giussani, in Italia, fu forse l’unico a capirlo, con mezzo secolo di anticipo), ma l’abbiamo colpevolmente coltivata fino ad oggi. (Vi ricordate le trionfali esequie di Giovanni Paolo II, col mondo intero riunito a rendere omaggio all’uomo più importante del secolo?)

Diciamo le cose come stanno: il papa non è affatto “la più alta autorità morale del mondo”. E il mondo, la nostra metà del mondo, ha smesso da un pezzo di essere “cristiano” (l’altra metà non lo è mai stata, e rifiuta violentemente l’evangelizzazione, come si vede in Cina e in India). Il papa è semplicemente la guida della chiesa cattolica, un gruppo minoritario la cui ragion d’essere è unicamente quella di testimoniare Cristo «fino ai confini della terra» (Atti 1,8). Una spina nel fianco del mondo, dunque. Prima ce ne facciamo una ragione, meglio è. Così come dice giusto riguardo alla guerra, il papa e la chiesa hanno ragione anche su tutto il resto. Le dcano dunque con franchezza (parresia), senza preoccuparsi di essere graditi. Tanto non lo sarebbero in nessun caso. Il mondo odia ciò che non è suo.

Oggi muore Dio. (E noi siamo perduti)

15 venerdì Apr 2022

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Evento, morte di Dio, Pasqua, rappresentazione-, venerdì santo

«Se senza il Figlio nessuno può vedere il Padre (Gv 1,18), nessuno può venire al Padre (Gv 14,6), a nessuno il Padre può essere rivelato (Mt 11,27); allora se il Figlio, Parola del Padre, è morto, nessuno può vedere Dio, ascoltarlo, arrivare a lui. E infatti c’è questo giorno in cui il Figlio muore e Dio è inaccessibile. Anzi Dio si è fatto uomo […] proprio per questo giorno. […]

Alla fine della passione, con la morte della Parola di Dio, anche la chiesa non ha più parole. Mentre il seme di frumento muore, non c’è nulla da raccogliere. Questo stato di morte della Parola incarnata non è una situazione come le altre della vita di Gesù, come se la vita potesse riprendere con semplicità nel giorno di Pasqua, dopo una breve interruzione […]. Tra la morte di un uomo, la quale è per definizione la fine della sua vita senza possibilità di ritorno, e ciò che noi chiamiamo risurrezione, non esiste commensurabilità. In primo luogo è necessario prendere con tutta serietà questo fatto: come un uomo, che muore ed è sepolto, è morto e non manifesta né comunica più nulla, così quando muore quest’uomo Gesù, che era la Parola, la manifestazione e la comunicazione di Dio, ciò che era rivelazione nella sua vita si interrompe. […]

È molto forte il pericolo che noi stiamo ad aspettare il cambiamento della scena come spettatori di un dramma incomprensibile».

(Hans Urs von Balthasar, Teologia dei tre giorni. Mysterium Paschale, trad.it. Brescia 1990, pp. 53-54)

Può darsi che queste parole, che traggo da un testo prezioso che mi sta accompagnando in questi giorni della Settimana Santa, sembrino a qualcuno troppo dure, addirittura insopportabili. Penso però che ormai debba essere chiaro che non può esserci vera Pasqua per noi se non prendiamo maledettamente sul serio il Venerdì Santo. In un “ambiente religioso” come è quello in cui siamo immersi, così assuefatto a scambiare la rappresentazione per l’evento o addirittura incapace di cogliere la differenza tra i due, il pericolo che anche noi stiamo ad aspettare il cambiamento della scena come spettatori di un dramma che ormai non ci sforziamo neanche più di comprendere è davvero fortissimo, come denunciava Balthasar tanti anni fa.

Oggi il Figlio muore. Realmente. Dio è inaccessibile, e noi siamo perduti.

Come abbiamo fatto a diventare così stupidi?

13 mercoledì Apr 2022

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demenza, maestro, politica, scuola

Il più grave problema del mondo di oggi non è la guerra, la pandemia, la carestia, lo squilibrio dell’ambiente, le ingiustizie sociali e tutti gli altri terribili flagelli che possiamo elencare. Quelli ci sono tutti, e fanno spavento, ma il primo e più grave problema del mondo, quello che sta alla base di quasi tutti gli altri mali è la demenza. Una demenza collettiva che ci coinvolge tutti, ma che si è espressa in modo particolarmente forte, e con esiti tragici, nelle classi dirigenti mondiali degli ultimi decenni. Da almeno trenta anni a questa parte i governanti del mondo (del “nostro mondo”, quantomeno) hanno sbagliato tutto quello che era possibile sbagliare e non hanno capito nulla di ciò che, anche per causa delle loro azioni, stava accadendo. Il disastro della situazione del mondo attuale ne è la prova inconfutabile.

Prevengo un’obiezione: “chi sei tu per fare un’affermazione del genere? Tu al loro posto avresti saputo fare meglio?”. Rispondo: certamente no. Io non sono che un idiotes e non saprei affrontare nessuna delle complesse questioni politiche che si pongono nel mondo di oggi. Ho però occhi e testa sufficienti per capire che non sono in grado di farlo neanche loro, “le autorità” che invece ne avrebbero il compito, la competenza e il potere. Non c’è bisogno di saper guidare un autobus per comprendere che non sapeva farlo neanche l’autista, se l’autobus è finito nel fosso per colpa sua.

Sotto questo profilo, giusto per fare un esempio, che il presidente dello stato (ancora, forse non per molto) più potente del mondo sia una persona con evidenti problemi cognitivi è di per sé un fatto notevole; lo è ancor di più il fatto che tutti – tutti quelli che contano, intendo – facciano finta di non accorgersene e girino la testa dall’altra parte quando incespica, perde il filo, ha vuoti di memoria, borbotta frasi incomprensibili o senza senso, dice cose fuori luogo, eccetera. Ma forse tale circostanza ha più che altro un valore simbolico: forse quel tale non è una bizzarra eccezione, ma rappresenta emblematicamente una condizione generale. Anche quelli che parlano sciolto e si danno arie da condottieri forse non sono più lucidi di lui. La percezione di essere nelle mani di una banda di pericolosi imbecilli è ormai diffusa tra i semplici cittadini, che si sentono come i passeggeri di un aereo presi dal terrore che il pilota non sappia quello che sta facendo.

Le classi dirigenti, d’altronde, sono in qualche misura l’espressione della società nel suo complesso. Come abbiamo fatto, dunque, a diventare così stupidi? Questa è la prima domanda. La seconda è: come possiamo fare a risalire la china dell’intelligenza?

Alla prima non saprei dare risposta; sulla seconda mi permetterei di dire, umilmente, che bisogna tornare a scuola. Da chi? Dai maestri (che poi, quando sono veri, altro non sono che condiscepoli dell’unico Maestro). Dovessi dire che cosa possiamo fare noi idiotai, nello sfacelo generale, mi azzarderei a rispondere che dobbiamo tornare sui banchi. La civiltà che un tempo fu nostra, e che ormai non c’è più, fu grande e piena di scintillante intelligenza, nonostante tutti i suoi errori e i suoi peccati, perché imparò da quel Maestro e da quei maestri. La lotta contro la demenza (quella che è dentro e quella che è fuori di noi) sia dunque il nostro compito quotidiano. Ricominciando dall’abc, se necessario.

Come Dio crea il mondo. (#Dante, Paradiso, canto X, vv. 1-6)

12 martedì Apr 2022

Posted by leonardolugaresi in Dante per ritrovarsi

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#Dante, creazione, Dio tutto in tutto, Santissima Trinità

Guardando nel suo Figlio con l’Amore
che l’uno e l’altro etternalmente spira,
lo primo e ineffabile Valore

quanto per mente e per loco si gira
con tant’ ordine fé, ch’esser non puote
sanza gustar di lui chi ciò rimira.

Parole così alte e profonde, anzi parole così “prime” non le avevamo ancora ascoltate, lungo tutto il nostro viaggio, e io sono intimidito: vorrei solo mettermi in ginocchio e contemplare il Mistero che esse dicono così limpidamente, senza fare altro.

Sotto di esse vi è il cuore di ogni questione, la domanda radicale che viene prima di ogni altra domanda; l’abisso in cui la nostra ragione si perde: perché Dio, che è Tutto, crea, cioè fa essere dal nulla qualcosa di altro-da-sé, qualcosa che non è Dio? Se Dio è Tutto, cosa mai può essere ciò-che-non-è-Dio? Non è forse necessariamente ancora Dio (panteismo), oppure al contrario, se davvero è fuori da Dio-che-è-Tutto, non è forse necessariamente nient’altro che niente (nichilismo)? Eppure, come dice don Giussani, «io ci sono, e questo resta l’unico vero mistero per la ragione. […] L’unico vero mistero» – nel senso che tutti gli altri ne discendono – «dunque è: come mai ci sono io? come io consisto? come consiste la cosa che c’è davanti a me? come consiste il sasso e come consiste il mare?» – che non sono Dio, ma neppure sono niente. (L.Giussani, Dare la vita per l’opera di un Altro, pp. 19-20).

La strada, non per comprendere ma per diventare almeno un po’ meno estranei, un po’ più familiari a questo Mistero è quella che l’autorivelazione di Dio come Amore trinitario ci schiude: il come Dio crea apre per noi uno spiraglio al perché. E io non conosco nessuno che questa cosa l’abbia detta meglio di Dante in questi sei versi divini: Dio Padre crea il mondo «guardando nel suo Figlio con l’Amore / che l’uno e l’altro etternalmente spira» (vv.1-2), cioè è la stessa vita divina intratrinitaria – l’eterna corrente d’amore che fluisce dal Padre al Figlio, Amore che è egli stesso una Persona divina, lo Spirito Santo – a far essere la creazione: «quanto per mente e per loco si gira» (v. 4). La creazione – il mondo, l’umanità, io – non è “fuori” di Dio. Per questo il mondo e l’uomo portano in sé, incancellabile, l’orma della Bellezza Divina: «con tant’ordine fé, ch’esser non puote / sanza gustar di lui chi ciò rimira».

I teologi parlano, dottamente, di Trinità immanente e Trinità economica, o di operazioni divine ad intra e ad extra; colgono acutamente il nesso tra le relazioni intradivine e la possibilità stessa della creazione, come fa ad esempio san Tommaso quando scrive che «ex processione personarum divinarum distinctarum causatur omnis creaturarum processio et multiplicatio (dalla processione delle persone divine distinte viene causata ogni processione e moltiplicazione delle creature)», ma a me pare, ripeto, che nessuno l’abbia mai detto così bene, quel mistero, e così chiaro che può capirlo anche un bambino, come fa Dante in questi sei versi preziosi.

Perciò non dico altro e li consegno, così come sono, alla mia e alla vostra meditazione. (Imparateli a memoria, se potete).

Tutto succede ora.

10 domenica Apr 2022

Posted by leonardolugaresi in Senza categoria

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Ora, Settimana Santa, tempo della chiesa, tempo ed eternità

L’impatto dell’Eterno sul tempo cambia tutto, anche la nostra percezione del passato, del presente e del futuro. Il modo meno inadeguato in cui possiamo pensare il tempo nell’Eternità divina è immaginarlo come eterno presente. In Dio non c’è passato, perché nulla in Lui è passato, cioè non è più, cioè “non è”.

Quando Dio crea il mondo? Ora. Quando Adamo ed Eva non gli ubbidiscono? Ora. Quando Maria dice il suo sì? Ora. Quando Giuda tradisce? Ora, in quest’ora di tenebra. Quando Gesù accetta di patire e di morire? Proprio ora. Quando china il capo e muore? In questo momento. Quando risorge? Adesso. Quando io vengo giudicato? Ora. Quando finisce la storia? Ora (anche se visto da quaggiù a noi sembra “non ancora”).

Nella chiesa, in analogia con la vita di Dio, nulla di essenziale può dirsi passato. Per quanto essa cammini nel tempo della storia, il suo tempo è sempre il presente (se tenessimo conto di questa elementare verità, quanto cambierebbe il nostro modo di pensare la Tradizione!).

Tutto succede ora. Ogni momento è quello decisivo, l’unico momento. Buona Settimana Santa a tutti coloro che passano di qui.

Vantaggi di Internet.

08 venerdì Apr 2022

Posted by leonardolugaresi in Senza categoria

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coglioni, internet, Leopardi

Un tempo, per farsi un’idea delle persone bisognava averci a che fare di persona, almeno un po’. E se non stavano proprio sotto casa bisognava sobbarcarsi a viaggi, talora scomodi e perigliosi, per andare a conoscerle. Giacomo Leopardi, che dal natio borgo selvaggio si era esaltato per le imprese filologiche del cardinale Angelo Mai e l’aveva creduto un grand’uomo, tanto da dedicargli una canzone («Italo ardito, a che giammai non posi / di svegliar dalle tombe / i nostri padri?» e via dicendo), quando andò a Roma (con gran trepidazione di Monaldo) e finalmente lo conobbe ne diede al padre questa descrizione: «è gentilissimo con tutti, compiacentissimo in parole, politico in fatti; mostra di voler soddisfare a ciascuno, e fa in ultimo il suo comodo». Quanto all’abate Cancellieri, un altro erudito allora famoso che aveva ammirato di lontano, la conoscenza diretta fu ancor più rivelatrice, giacché in una lettera al fratello Carlo lo liquida così: «Ieri fui da Cancellieri, il qual è un coglione».

Arcaico e conservatore come sono, stento parecchio a riconoscere i vantaggi del progresso, ma qualche volta bisogna arrendersi all’evidenza. Internet, per esempio, fa risparmiare tempo e fatica. Io frequento i social parcamente: mi limito a condividere gli articoli di questo blog su Facebook e su Twitter, in modo che possa vederli anche qualcuno che di solito non passa di qui; di regola non interagisco con altri, se non con un numero molto ristretto di utenti (credo si contino sulle dita di una mano); seguo, nei limiti del possibile, (anche nella vita reale) il saggio precetto di non polemizzare mai con chi non stimo. Leggo, un’impressione me la faccio e abitualmente la tengo per me. Come tutti, ho purtroppo la tendenza a pensare di aver ragione io e di conseguenza mi è più facile apprezzare maggiormente chi la pensa come me, ma faccio quello che posso per contrastare questa inclinazione e inoltre sono sempre più numerosi i casi in cui non so cosa pensare e quindi non ho una posizione da difendere.

Qualche volta però, in deroga alla regola generale, rivolgo la parola a qualcuno, saggiandone così il carattere, e devo dire che i risultati ci sono. Due piccoli esempi: tempo fa lessi sulla pagina Facebook di un professore partenopeo, molto proclive ad inveire contro i suoi compatrioti non altrettanto prudenti quanto lui nel difendersi dal Covid, un post in cui esprimeva tutta la sua indignazione perché “andando a passeggio per Posillipo” si era imbattuto in una gran quantità di gente che andava a spasso, senza curarsi degli assembramenti e del conseguente rischio di contagio. Bastò riportargli la frase che aveva scritto, con una sola parola di commento: «appunto», perché quel tale scrivesse di primo acchito una risposta che voleva essere insultante, per poi cancellare tutto subito dopo ed escludermi dai suoi frequentatori. Pazienza. Oggi mi è invece capitato di leggere un cinguettio di un altro tale, professore al «noster Politeknik» (nientemeno!), consulente del governo e un sacco di altre cose in inglese, il quale dichiarava che “un’affermazione falsa e palesemente idiota non è un’opinione” (cito a memoria). Parendomi buffa una tale asserzione, gli ho fatto notare che «Il suo pensiero, correttamente formulato, è: “ciò che io penso sia falso o a me sembra palesemente idiota non è un’opinione”. Brachilogicamente: “è un’opinione solo quel che piace a me”» (questo invece è citato alla lettera). Tanto è bastato perché immediatamente mi orbasse per tutta l’eternità del beneficio di leggere i suoi pensieri – il che dev’essere una gran perdita perché vedo che ne ha già pensati 89.906, quindi dev’essere un pensatore. Pazienza.

Certo, è un gran vantaggio che oggigiorno non si debba andare fino a Roma (che a me, come a Monaldo, pare un gran viaggio) …

Parole dantesche. Preziose. (#Dante, Paradiso, canto IX. vv. 73 e 81)

07 giovedì Apr 2022

Posted by leonardolugaresi in Dante per ritrovarsi

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#Dante, linguaggio, neologismi

Si dice che il marchese Basilio Puoti, famoso letterato napoletano della prima metà dell’Ottocento e grande cultore della nostra lingua, ormai in punto di morte si rivolgesse ai familiari che lo attorniavano al capezzale con queste parole: «Figliuoli, me ne vado!», per poi aggiungere subito dopo: «Ma si può anche dire: “Figliuoli, me ne vo”» e spirare. A tanto arrivò in lui l’inveterata passione per la parola giusta, il bel linguaggio, la forma pura, appropriata e precisa – che è l’indispensabile veicolo di un concetto chiaro e ben pensato. Come diceva un altro marchese, francese questa volta e del secolo XVIII, Luc de Vauvenargues, «Quando un pensiero è troppo debole per sostenere un’espressione semplice, è segno che bisogna rigettarlo». Noi che marchesi non siamo, e per giunta ci siamo così allontanati dalla “civiltà delle belle parole”; noi che di solito parliamo così male (e perciò anche pensiamo così male); noi che siamo tanto inclini a scambiare l’oscurità e la complicazione per profondità e a prendere un linguaggio approssimativo e pieno di frasi ad effetto come l’espressione di un pensiero brillante da seguire imbambolati pseudo-maestri e mediocri mestatori; noi, che quando introduciamo nuove parole, o perché le importiamo da un’altra lingua o perché le formiamo da un acrostico o da una sigla, quasi sempre partoriamo dei mostriciattoli; noi che nel parlare di ogni giorno ci adagiamo così volentieri sulla piatta ripetizione di luoghi comuni, frasi fatte e metafore ormai consunte … ecco, noi abbiamo tutto da imparare dalla lingua meravigliosa di Dante e dalle sue scintillanti invenzioni lessicali.

Qui ce n’è un trio che è una goduria: «Dio vede tutto, e tuo veder s’inluia» (v.73) dice il poeta rivolto a Folchetto di Marsiglia, stupendosi che l’altro non gli abbia già letto in Dio il desiderio di conoscere il suo nome, e per dar forza alla richiesta conclude pochi versi dopo: «Già non attendere’ io tua dimanda, / s’io m’intuassi come tu t’inmii» (vv. 80-81). Inluiarsi, intuarsi e inmiarsi son verbi così intensi che è davvero un peccato che, dopo Dante, quasi nessuno li abbia più impiegati. Perché non cominciare noi? Il verso «s’io m’intuassi come tu t’inmii», almeno, potremmo impiegarlo, al pari di altre espressioni dantesche di ben più larga fortuna, quando scopriamo che un altro legge dentro di noi più chiaramente di noi stessi. Il che qualche volta capita.

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