La domanda non è retorica, e la risposta, per parte mia, non è scontata. (And, of course, we’re not fishing for compliments). Si va avanti o ci si ferma qui? Come ai piedi di una gran cima da scalare, arrivati al campo-base dopo esser risaliti su dal fondovalle – ed è stato già un gran viaggio, pieno di orrori e di bellezze – guardiamo in su, alla parete che si innalza a perdita d’occhio, e ci chiediamo se sia il caso di tentare oppure se non sia meglio accontentarsi.
Due anni fa – prima dell’era virale, un altro mondo! – mi venne in mente che avrei fatto una cosa buona per me se avessi riletto tutta la Commedia, canto per canto. Pensai anche che sarebbe stato meglio (per non dire necessario) leggerla insieme con altri, perché Dante è così che vuol essere letto, da un popolo; e perché è così che in fondo lo avevo quasi sempre letto io nella mia vita: per altri e con altri (i miei studenti).
A questo proposito, proprio ieri mi sono imbattuto in questo folgorante passo di Origene, dalle Omelie su Geremia (14,3): «Chi insegna, per il solo fatto di insegnare, quanto più l’allievo è intelligente, riceve beneficio dalle materie che insegna e che l’altro impara: quelli che parlano diventano più forti nelle discipline che trasmettono quando quelli che ascoltano sono intelligenti e non si accontentano semplicemente di ricevere, ma investigano scientificamente, pongono domande ed esaminano il pensiero che viene loro sottoposto». Parole che andrebbero scritte all’ingresso di ogni aula scolastica della repubblica.
Mi sarebbe piaciuto, sin dall’inizio, l’incontro reale, faccia a faccia, di un gruppetto di amici che si fosse ritrovato, un giorno alla settimana, per leggere insieme un canto di Dante e parlarne, aiutarsi a capirlo e rendersi intelligenti a vicenda (come dice Origene). Non potendosi far questo (benché fossimo allora ante virus natum), pensai ad una comitiva virtuale, come quella che di fatto si è realizzata, bene o male, qui sul blog. (Comitiva: che bellissima parola, da noi degradata nell’uso corrente ad espressione del turismo della peggior specie, e invece evocativa di ben altro cammino!).
Ci abbiamo messo due anni, con un passo ben più lento di quello immaginato all’inizio, ma ci siamo arrivati: abbiamo letto per intero l’Inferno e per intero il Purgatorio. Che è già qualcosa. Ma ora, perché avere il dubbio se andare avanti oppure no? Non dovrebbe essere evidente che quando si comincia una cosa, poi è bene portarla a compimento? (Lo dice il vangelo, ma lo dicevano anche le mamme a noi da bambini, negli anni cinquanta e sessanta: “quel che è nel piatto si finisce!”).
Perché il Paradiso è un’altra cosa. Perché è Dante stesso a metterci in guardia, con quel severissimo – e unico, nella storia della letteratura! – monito del canto II, vv. 1-15, nel quale sembra quasi esortare la maggior parte dei suoi lettori a lasciar perdere: “tornate a guardare la televisione o a fare le parole crociate, che se vi ‘mettete in mare’ dietro di me rischiate poi di non riuscire a starmi dietro, e allora «rimarreste smarriti». Smarriti! La prima parola della Commedia che descrive la condizione umana. Torneremmo nella selva oscura. Per favore, prendiamolo sul serio: una “cattiva lettura” del Paradiso può fare veramente male.
Davvero noi ci iscriveremo a buon mercato e senza farci alcun esame di coscienza al novero degli happy few, i pochi allenati da tempo a drizzare il collo «al pan de li angeli» che egli pretende come unici compagni della sua ultima navigazione? Così, senza battere ciglio?
E poi, anche ammesso che ci prendiamo questa responsabilità e corriamo questo rischio, dovrebbe esserci chiaro che la lettura dovrà essere diversa da quella a cui ci siamo abituati finora. Finché s’è viaggiato “ad altezza d’uomo”, per le lande desolate dell’Inferno e la bella natura, marina e montana, del Purgatorio, si è potuta parlare una lingua umana, e anche cicalare un po’ (come qui s’è fatto, via!). Ora è come entrare in un tempio, in un luogo sacro dove la lingua è solo quella divina della preghiera, della lode adorante, della meditazione, quindi ultimamente una lingua trascendente. Una lingua piena di silenzio: e chi la conosce? Forse qui ci sarebbe solo da leggere, in ginocchio, come si prega.
Però, d’altro canto – e qui mi trovo in una contraddizione che non so risolvere – nessun testo poetico è arduo come questo, e dunque nessuno avrebbe tanto bisogno di spiegazioni, di approfondimenti, di parole di servizio, di … commenti. Ma ha senso commentare una poesia del genere? Non rischia ogni chiosa di diventare una distrazione, un orpello? Non si dovrebbe solo pregarla, questa poesia, per la purificazione della nostra mente e la salvezza della nostra anima?
Ecco, ho detto malamente la mia. Ora dite la vostra. E ditela tutti, se possibile, anche quelli che di solito non parlano. «Io e i compagni eravam vecchi e tardi»: la mia orazion picciola (all’incontrario) l’ho fatta. Pensateci bene, e se dall’esperienza del percorso fatto avete ricavato qualche suggerimento su come si potrebbe navigare d’ora in poi, ditelo.