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La parte finale del canto XXXII è così cupa, violenta e spaventevole che, in un primo momento, avevo deciso di sorvolare, tenendomene un po’ alla larga. Per questo ieri ne ho trattato in maniera molto sommaria, nella parte finale dell’articolo. Pensandoci meglio, tuttavia, mi pare che in quella terribile visione della storia della chiesa vi sia un amaro farmaco che a noi fa bene prendere, per guarirci da due malattie opposte e concomitanti: da una parte il pessimismo (facilmente rancoroso) di chi guarda con sgomento alla presente situazione della chiesa e nutre in special modo una sfiducia che talvolta sconfina nel disprezzo nei confronti della gerarchia che la governa; dall’altra l’ottimismo (facilmente artificioso) di chi difende tutto per partito preso e si scandalizza di ogni critica rivolta al papa e ai vescovi. Un ottimismo che, quando non è ingenuo (ai limiti dell’incoscienza puerile), pretende di spacciare per speranza ciò che è piuttosto il frutto di una cecità deliberata di fronte agli scandali, alle miserie e alla scipitezza di un cristianesimo ormai agonizzante, per non dire comatoso.

Guardiamo dunque a Dante, che è al tempo stesso pieno di speranza più di qualunque altro uomo al mondo (parole sue, dette nel canto XXV del Paradiso, vv. 52-53) e totalmente privo di complessi o di timori reverenziali quando si tratta di dire la verità sulla reale condizione del popolo di Dio. In questo passo egli dice che l’«edificio santo» della chiesa, simboleggiato dal carro, si è trasformato al punto che «simile mostro visto ancor non fue» (v. 147), e che sopra quel carro «sicura, quasi rocca in alto monte, / seder sovresso una puttana sciolta / m’apparve con le ciglia intorno pronte» (vv. 148-150). Una puttana sciolta: io non conosco un insulto più violento e sboccato di questo, rivolto da un cristiano all’autorità di governo della sua chiesa: nell’immagine di ascendenza apocalittica, va infatti riconosciuta senza dubbio la figura della chiesa nella sua dimensione istituzionale: papa, cardinali, vescovi, curia romana … «Di costa a lei», dice sempre il profeta Dante, sta «dritto un gigante» – nel quale tutti i commentatori vedono la rappresentazione del potere mondano (allora il re di Francia, oggi decidete voi) – «e basciavansi insieme alcuna volta» (vv. 152-153). Una puttana che amoreggia col suo «feroce drudo»: questa è l’immagine della chiesa del suo tempo (quella dei papi trasferiti ad Avignone, a far da cappellani ai re di Francia).

Noi, che profeti non siamo, non ci permetteremmo mai di usare parole come le sue. Ce ne guarderemo bene. Impariamo però da lui a non scandalizzarci della parresia, quella vera.