Se è artificiale, come quelle che mi devo mettere io per il sollievo dei miei occhi secchi che di naturali ormai non ne danno più, costa parecchio. Quelle che adopero di solito, da un conto a spanne fatto ora direi che costano sui 1300 € al litro.
Quelle vere, invece, per il mondo non costano e non valgono quasi nulla. Non è solo Mosca che non crede alle lacrime, ma tutto il mondo. Anche (e soprattutto) quelle dei bambini, che dovrebbero essere le più preziose, sono disprezzate e derise (Sant’Agostino se lo ricorda bene e ne parla nel primo libro delle Confessioni). I bambini, si sa, piangono per niente … E anche gli adulti, quando piangono, il più delle volte è perché ormai il danno l’hanno fatto e non possono più rimediare: lacrime di coccodrillo, come si dice. Così pensa (e agisce) il mondo. Che infatti è una «valle di lacrime».
Dio no. Dio non è così. Per Dio le lacrime contano. Anche una sola. (Per questo i maestri della vita spirituale parlano tanto spesso e volentieri del “dono delle lacrime”, e io da quando gli occhi mi bruciano perché quel dono non ce l’ho nemmeno al livello più basso, quello fisiologico, li capisco un po’ meglio!).
Che cosa possa rappresentare anche una sola lacrima per Dio ce lo spiega Bonconte da Montefeltro, il secondo personaggio del nostro canto. Dopo una formula di cortesia, da vero gentiluomo (vv. 85-87: «Deh, se quel disio / si compia che ti tragge a l’alto monte, / con buona pïetate aiuta il mio!»), si presenta: «Io fui di Montefeltro, io son Bonconte» (v. 88). Ci sono tanti modi di presentarsi, e già di lì spesso si intuisce che tipo di persona si ha di fronte. Uno che parla così dimostra subito di aver chiara la scala dei valori perché misura senza rimpianto la distanza (ormai l’irrilevanza) della provenienza da un casato gentilizio rispetto alla permanente identità personale: fui di Montefeltro, son Bonconte. Le generalità qui servono però anche ad un altro scopo: fare immediatamente presente al lettore che costui è il figlio di quel Guido da Montefeltro che incontrammo tra i consiglieri di frode (canto XXVII dell’Inferno). Ricordate? Quel furbo così furbo che in ultimo fece la figura del coglione.
La lontananza dal casato, si rivela peraltro, più intimamente, come una lontananza da casa, nei due versi successivi, che sono tra i più malinconici che io conosca. Il primo, soprattutto, è bellissimo: «Giovanna o altri non ha di me cura» (v. 89). Giovanna è sua moglie, gli altri … beh penso soprattutto sua figlia (che si chiamava Manentessa, nientemeno). Non commento: ciascuno comprenda e gusti questo verso eccelso come può. Il fatto, comunque, è che a casa nessuno prega per Bonconte, anche perché lo danno tutti per spacciato.
Dante però non ha tempo per questi intenerimenti un po’ crepuscolari e siccome ha un punto di contatto molto importante con il suo interlocutore poiché avevano combattuto entrambi, in schieramenti opposti, alla battaglia di Campaldino, nel 1289, dove Bonconte era andato disperso, va subito al sodo: “che ne è stato di te? Dov’è finito il tuo corpo, che non fu mai ritrovato?”.
Eccoci dunque trasportati «a piè del Casentino», dove «traversa un’acqua c’ha nome l’Archiano, / che sovra l’Ermo nasce in Apennino» (vv. 94-96), cioè precisamente alla confluenza dell’Archiano con l’Arno, a due passi da Bibbiena. «Là […] / arriva’io forato ne la gola,» (v. 98) – forato ne la gola ha la stessa materiale durezza di «rotta la persona / di due punte mortali» e de «li profondi fóri / ond’uscì ‘l sangue in sul quale io sedea»: Dante è uno che quando parla di guerra, di sangue, di ferite sa di che cosa parla – «fuggendo a piede e sanguinando il piano» (v. 99): braccato dalla morte, come lo era stato Jacopo del Cassero dai suoi sicari, con la vita che scivola via nel fiume di sangue che esce dalle ferite.
«Quivi perdei la vista e la parola,» (v. 100): ecco, questo è il momento. Succede tutto qui, si decide tutto qui, in un attimo. Un attimo in cui non c’è quasi più coscienza («perdei la vista») né espressione («e la parola»). Quasi: «nel nome di Maria fini’» (v. 101). Cinque parole di Dante per narrare un fatto che consiste di una parola sola. Bonconte ha fatto in tempo a dire solo «Maria». Lo ha detto con dolore, con paura della morte eterna, da sconfitto, arrendendosi, nelle braccia della Madre, a Dio. Dal punto di vista di quella meccanica di cui parlammo a proposito di Manfredi è la stessa identica traiettoria: «mi rendei, / piangendo, a quei che volentier perdona».
Un attimo dopo, è già tutto finito: «[nel nome di Maria fini’], e quivi / caddi, e rimase la mia carne sola» (vv. 101-102). Altro verso inarrivabile. Chi ha visto morire qualcuno sa che cosa intendo: un attimo prima la persona c’è, c’è una presenza umana, viva, concreta – e non importa nulla se non è più cosciente, se è immobile, se il corpo ormai cachettico è in tutto simile ad un cadavere: è presente. Poi il mistero, improvvisa l’assenza, «rimase la mia carne sola», quel corpo che prima era abitato ora è una casa deserta. È tutto completamente diverso. Basta, non dico altro perché non ce la faccio, capisca chi può.
A questo punto c’è la strepitosa invenzione dantesca di una specie di causa tra cielo e inferno, simile e opposta a quella che si era svolta sul cadavere di suo padre, quel Guido che abbiamo sopra ricordato. (Penso che il poeta questa trovata la covasse sin da allora). «Io dirò vero e tu ‘l ridì tra ‘vivi: / l’angel di Dio mi prese, e quel d’inferno / gridava: “O tu del ciel, perché mi privi? // tu ne porti di costui l’etterno / per una lagrimetta che ‘l mi toglie; / ma io farò de l’altro altro governo!» (vv. 103-108). Questo diavolo che protesta per la mancanza di fair play dell’Avversario, perché non è giusto che gli venga soffiato sotto il naso un affezionato cliente per via di una «lagrimetta» dell’ultima ora sembra uscito dalle Lettere di Berlicche di C.S. Lewis (ma naturalmente è l’inverso: Lewis deve essersi ricordato di un passo come questo). Il guaio è che noi, oltre a trovarlo quasi simpatico, sotto sotto gli diamo ragione. Dio no. Dio non è così. Per Dio le lacrime contano. Quelle vere, s’intende. Le artificiali (come quelle che compro io) temo proprio di no.
IMMATURO IRRESPONSABILE ha detto:
Qualche riga dal commento del Tommaseo: 《 [non] senza intenzione forse e’ fa alla battaglia di Campaldino, dove assaggiò anch’ egli il sangue, seguitare un’ operazione diabolica. […] Dicono che alla poesia cristiana manchi quel mirabile, che i facitori di precetti nel poema e nel dramma chiamano macchina; e dicono bene: chè alla poesia cristiana manca il mirabile-macchina, ma quel maraviglioso che viene dal sublime e dall’ ampio dell’ idea, non le manca. Senonchè a lei non è lecito perdersi in amplificazioni di questo mirabile, e, idoleggiandolo e facendolo materiale, snaturarlo: felice impotenza che provvede alla dignità dell’ arte e all’ efficacia sua vera. Ecco qui in pochi versi abbiamo uno di que’ concetti ove il sovrannaturale penetra per il naturale; […] 》.
Ecco perchè tanta letteratura “macchinosa” non regge al tempo; perchè il suo mirabile è materiale, e le manca “l’ ampio dell’ idea” (io avrei in mente uno o due nomi…..).
Infine, che si può dire sul canto V del Purgatorio? che uno straniero dovrebbe imparare l’ italiano anche solo per leggerlo; e che ogni italofono dovrebbe esser grato, per poterlo fare.
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Maria Grazia Miccheli ha detto:
L’ha ripubblicato su Pastor Aeternus proteggi l'Italia.
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Fiorenza ha detto:
«Quivi perdei la vista e la parola,» (v. 100). Impossibile, per me, che Dante l’abbia scritto così, questo verso, come un impoetico elenco dei due dati di fatto del morire che, oltretutto, sommandoli uno sull’altro, li appiattisce entrambi. Eppure tanti preferiscono questa versione. Mi sorprende ritrovarla anche qui.
“Quivi perdei la vista, e la parola / ….”: questo verso mi piace così tanto, invece! “Quivi perdei la vista, e la parola / nel nome di Maria fini’; e quivi / caddi, e rimase la mia carne sola”. Potenza dell’enjambement, che dilata la terzina dall’interno e fa campeggiare solo, inerme solitario e solenne, alla fine, quel corpo oramai “disabitato”: E’ qualcosa di prodigioso, questa che è una delle terzine più belle di questo canto bellissimo (dice bene IMM che “uno straniero dovrebbe imparare l’ italiano anche solo per leggerlo”) e, forse, di tutta la Commedia. Qui sì, che c’è il respiro ampio di Dante: importanza di una virgola, di un punto e virgola, la cui presenza cambia tutto.
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leonardolugaresi ha detto:
Hai fatto bene a sollevare la questione dell’interpunzione dei vv. 100-101, che è discussa. Io sono un devoto della Chiavacci Leonardi, che motiva così la sua scelta: «ci sembra che l’atto della conversione, che è in quel nome pronunciato, debba avere rilievo sintattico, come è nella punteggiatura a testo, e non essere inserito, a ugual livello, tra i vari membri della frase, come è se si adotta il polisindeto». Di mio aggiungerei che non mi pare molto plausibile un discorso (parola) precedente che finisca nel nome di Maria, come se Bonconte avesse avuto il tempo e il fiato di recitare una lunga orazione «fuggendo a piede e sanguinando il piano».
Impoetico il v. 100 letto così? Può anche darsi, ma cosa c’è di poetico nella morte? La forza del verso io la sento proprio nella sua nuda e impoetica enunciazione dei fatti.
Però entrambe le letture sono possibili, e chissà che nella mente di Dante non coesistessero anfibologicamente.
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Fiorenza ha detto:
“Quivi perdei la vista”.
“Quivi”: qui dove? Bonconte è ora già lontano da Campaldino: difficile dire “qual forza o qual ventura” sia riuscita a farlo arrivare fin qui, presso al luogo dove l’Archiano sfocia nell’Arno dopo aver attraversato la piana casentinese.
C’ è come un parallelismo tra il percorso del fiume e la corsa di lui che è andato attraversando e “sanguinando il piano” (l’etica dei luoghi, insieme alla poesia dei luoghi, come sempre, in Dante).
“Quivi” dunque, proprio in questo punto designato, lo attendono la morte e Dio.
“Quivi perdei la vista”; non si tratta, qui, come dicono quelli dell’interpunzione sbagliata, del momento della morte ma di quello in cui la vista si ottenebra e che precede la morte: il momento in cui il mondo si fa buio, scompare. Chi ha assistito un morente, sa bene questo, è stato impotente testimone di questo.
Poi, che avviene poi? Straordinaria è la precisione di linguaggio di questo uomo straordinario, che dice: “la parola / nel nome di Maria fini'” E questo è il momento successivo a quello del buio: non è ancora, nemmeno questo, il momento del morire ma quello in cui, ormai, anche la capacità di parlare, dopo quella di vedere, viene meno, si spegne. Così Bonconte rievoca, con la sua (così unica, così “sua”) sobrietà, l’attimo (perché è solo un attimo) solenne, in cui tutto per lui si decide: io “finii” di parlare, cessai, terminai la mia vita di parlante, di dialogante, mentre la morte già si stava annunciando, con questa, che fu la mia parola, la mia invocazione ultima: “Maria”.
Non so come ti sia venuto in mente che io potessi alludere, invece, a, come dici, “un discorso (parola) precedente che finisca nel nome di Maria”, a una sua lunga orazione che precede l’invocazione di quel nome…. eccetera. Difficile che io riesca ad essere chiara. Pazienza.
Passiamo ad altro. .
Quella frase (nel nome di Maria fini’), staccata dal resto e che, senza il resto, è del tutto priva della sua aura, del suo senso, che cosa significa, per voi? Quel “finii” equivale a dire “morii” ? Cioè significa, anche per te, questo: non finì, venne meno, morì la mia parola, ma “io morii”? Bonconte avrebbe detto, dunque, per la seconda volta, “morii”? Non è incompatibile, questo, con la sua sobrietà, con la sovrana sobrietà di quel discorso indimenticabile? Ma, soprattutto, in questo modo, isolando con l’interpunzione quella frase da ciò che la precede, voi fate dire a Bonconte “morii nel nome di Maria”, il che è una espressione, a dire il minimo, poco felice, via, ammettiamolo. Senza contare che, se davvero avesse parlato in questo modo, Bonconte avrebbe messo l’accento più sulla morte (“finii'”) che sul nome a cui deve la sua salvezza. Potresti dire, immagino, che le due cose in realtà coincidono; invece no, non coincidono affatto. Tra la “parola” (la possibilità di continuare a parlare, che finisce pronunciando il nome benedetto) (e che è tutt’uno, come sapremo poi, con l’ultimo gesto, quello di porre le mani sul petto in croce), e l’istante della morte, si apre l’immensità, l’insondabile mistero divino.
Ed eccola, infine, la morte (nominata adesso per la prima volta. Nella vostra lettura, invece, un ripetitivo Bonconte la starebbe rinominando, ora, per ben la terza volta):
“e quivi caddi”.
“Quivi”: solo il luogo è sempre quello. Il tempo, no. Sono momenti successivi, e l’infinito si stende tra l’uno e l’altro. Riesco a spiegarmi? dentro di me la cosa è chiarissima, ma comunicarla impossibile.
,,,”e rimase la mia carne sola”: eccolo, ciò che rimane. Ma no, nemmeno questa è la fine: non so dire quanto tragica sia la vista di quel corpo abbandonato: quella distinzione tra l’ io” (io “caddi”) e “la mia carne sola”, eppure anche questo passerà. Bastano pochi versi ancora per arrivare al punto in cui Bonconte, parlando del suo corpo morto e abbandonato allo scempio non dice che la furia del fiume sospinse inesorabilmente quel corpo, quella cosa morta, “gelata”, che era la sua carne, disponendone come di un qualsiasi pezzo della natura, voltandola e rivoltandola impunemente, disfacendo, anche, quell’estremo gesto delle braccia incrociate sul petto. No: dice “voltommi”. Voltò, rivoltò, trascinandomi, “me”. Dice “mi coperse”: coperse coi detriti trasportati dalla furibonda corrente non quella “carne sola” ma “me”. “Io”, io e “la mia carne”, il mio corpo, ricongiunti. E siamo al punto che avevo in mente e che era sottinteso fin dall’inizio nelle cose che avevo scritto ieri: ogni minimo particolare, in questa vicenda di Bonconte a cui abbiamo partecipato, è Liturgia, è un’azione liturgica, un mistero liturgico, e non siamo autorizzati ad alterare a nostro comodo il suo ordine, la sua esattissima scansione, la sua “punteggiatura”. “Un ordine stellare è poca cosa al confronto”.
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Fiorenza ha detto:
La seconda minima cosa che riesco a dire, è questa: che sarebbe bello se fossero possibili certi scambi: io ti darei subito metà delle fontane che sono i miei occhi, che basta un soffio di vento da nulla per farli lacrimare, e la baratterei tanto volentieri con metà della secchezza dei tuoi. Almeno tra amici si dovrebbe poter fare, una cosa così.
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