Premessa metodologica (fondamentale): per purificarsi dal peccato, anzi dall’abitudine al peccato (che si chiama vizio), non vale concentrarsi su di esso, bisogna piuttosto imparare la virtù.
Seconda premessa di metodo (altrettanto importante): la virtù si apprende innanzitutto osservandola in azione. Ed è logico che sia così, essendo la virtus non una condizione a sé stante, uno “stato di quiete” per così dire, ma una modalità di rapporto col Bene, quindi sempre una dinamica, un movimento, in qualche misura una militia che si esercita nel vincere le resistenze e superare gli ostacoli che si oppongono al raggiungimento del suo fine.
Questo è vero anche dell’umiltà, che forse tra le virtù è quella che più facilmente soggiace al fraintendimento di chi la spaccia per una sorta di passività, quando non la confonde – come già vedemmo all’inizio del viaggio di Dante, nel II canto dell’Inferno – con la viltà.
A spazzar via ogni equivoco interviene la prima lezione: «L’angel che venne in terra col decreto / de la molt’anni lagrimata pace, / ch’aperse il cielo del suo lungo divieto, // dinanzi a noi pareva sì verace / quivi intagliato in un atto soave, / che non sembiava imagine che tace. // Giurato si saria ch’el dicesse Ave!; / perché iv’era imaginata quella / ch’ad aprir l’alto amor volse la chiave; // e avea in atto impressa esta favella / Ecce ancilla Dei, propriamente / come figura in cielo si suggella» (vv. 35-45). Maria fu umile perché accettò il compito ed il ruolo più grande che potesse esserci per una donna, al di là di qualsiasi immaginazione: diventare la madre di Dio. L’obbedienza a questa grandezza smisurata, e non sua, è l’essenza della sua umiltà e l’archetipo di ogni altra vera umiltà.
La seconda lezione illustra la natura profondamente ironica della vera umiltà. «Era intagliato lì nel marmo stesso / lo carro e ‘ buoi, traendo l’arca santa, / per che si teme officio non commesso. // Dinanzi parea gente; e tutta quanta, partita in sette cori, a’ due mie’ sensi / faceva dir l’un ‘No’, l’altro ‘Sì, canta’. // […] // Lì precedeva al benedetto vaso, trescando alzato, l’umile salmista, e più e men che re era in quel caso. // Di contra, effigïata ad una vista / d’un gran palazzo, Micòl ammirava / sì come donna dispettosa e trista» (vv. 55-69). È un episodio dell’Antico Testamento, narrato nel II libro di Samuele (6, 1-16): Davide porta l’Arca dell’alleanza a Gerusalemme ed è così entusiasta (in senso proprio: pieno di passione per Dio) che si lascia andare ad una danza sfrenata tirandosi su le vesti regali («trescando alzato» è bellissimo: ci sembra di vederlo, il re che zompa di qua e di là a gambe nude, davanti a tutti), «e più e men che re era in quel caso» perché si comportava come un re non dovrebbe mai comportarsi, ma lo faceva per una ragione ben più alta di qualsiasi dignità umana. Il tocco sublime, a questa rutilante scena da film, lo dà la smorfia della regina, che da una finestra del palazzo reale guarda la scena «sì come donna dispettosa e trista». Non so se le gentili lettrici potranno apprezzare fino in fondo la forza icastica di questo verso meraviglioso, che dice tutto, ma non c’è lettore maschio, io credo, che quella faccia non l’abbia vista, almeno una volta in vita sua. Qui, come dicevo, a venire in primo piano è l’aspetto ilare e giocoso dell’umiltà come assoluta libertà che deriva dall’ubbidienza di cui sopra. È perché Davide fa il volere di Dio che può essere così fanciullescamente festante e privo di inibizioni. Il nesso tra il primo e il secondo esempio, incardinato sul tema dell’umiltà come ubbidienza, è ribadito in modo sapientemente incidentale dal v. 57 («per che si teme officio non commesso»), che ricorda la tragica fine di Uzzà il benintenzionato temerario che si era permesso di sostenere l’arca pericolante, di sua iniziativa e violando la norma che consentiva solo ai sacerdoti di toccarla e morì immediatamente fulminato.
Di ironia è soffusa anche la terza lezione (vv. 73-93), che riguarda il potere e presenta l’umiltà di chi lo detiene sotto l’aspetto dell’ubbidienza alla verità. Protagonista della vicenda, notissima nel medioevo e riportata da molti autori che Dante poteva conoscere, è l’imperatore Traiano che, proprio mentre sta uscendo alla testa del suo esercito per andare a far la guerra, viene fermato da una «vedovella […] / di lagrime atteggiata e di dolore» (vv. 77-78) che gli chiede giustizia per il figlio che le è stato ucciso. Il contrasto tra la potenza imperiale del cavaliere e la trascurabile figura della poverina che gli è «al freno», cioè sta lì ferma vicina al morso del suo destriero, non potrebbe essere più clamoroso: da una parte c’è tutta la forza e la gloria di Roma, dall’altra una nullità, un’entità trascurabile, un’insignificante donnetta che non importa a nessuno. Eppure la vecchia (perché così sono sempre stato portato a immaginarmela, benché Dante non lo specifichi) non ha alcuna soggezione: con una parresia oggi praticamente introvabile anche ai piani alti delle gerarchie (civili ed ecclesiastiche), formula all’imperatore la sua richiesta, con il tono pacato ma fermo di chi rivendica un diritto. Traiano, che è l’optimus princeps e quindi deve per forza comportarsi bene, le risponde cortesemente che le farà giustizia al suo ritorno. “E se non torni?”, replica la donna, del tutto incurante della sfiga tremenda che sta portando al sovrano. Deciso a mantenere il suo primato di bontà, l’imperatore, invece di cacciarla via a pedate (dopo essersi ampiamente toccato i coglioni) replica senza fare una piega: “In questo caso ti farà giustizia il mio successore”, ma la vecchia, implacabile, ribatte: “E a te che merito ne verrà?”. Sarà anche una rompicoglioni, ma ha ragione. La verità obbliga, anche se sei l’imperatore romano, e quindi Traiano smonta da cavallo, fa fermare tutta la baracca dell’esercito in marcia (chissà le litanie di imprecazioni degli ufficiali e dei soldati!) e si siede a giudicare la causa della vedova: «giustizia vuole e pietà mi ritene» (v. 93).
Post scriptum: “o gran bontà dei cavalieri antichi!”. L’aneddoto è ovviamente inventato, ma è significativo che lo si potesse inventare, un raccontino del genere. Oggi, che viviamo in democrazia (seh!), non funzionerebbe: la vedovella se la vedrebbe brutta, perché al presidente, ma che dico al presidente, neanche all’ultimo sottosegretario grillino riuscirebbe ad avvicinarsi. Hanno tutti la scorta, che la manderebbe via. E se anche il politico di turno fosse in vena di fare il simpatico (in favore di telecamera), alla prima delle sue repliche la manderebbe a quel paese.
L’ha ripubblicato su Pastor Aeternus proteggi l'Italia.
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La virtu’si apprende osservandola in azione.
E direi anche il contrario’ se non la si osserva in azione, o nelle azioni , la virtu’ proclamata solennemente a parole e’solo ipocrisia.Mai come in questo momento sentiamo da tutti i pulpiti , politici e religiosi, predicare virtu” morali come il rispetto reciproco , la ricerca dell’ unita’ per il bene comune, la pacificazione , il sacrificio del proprio io , poi vediamo che tali lezioni di virtù sono impartite a suon di censure, damnatio memoriae ,cancel culture e linciaggio mediatico per gli avversari politici.
Almeno i romani erano meno ipocriti quando dicevano Vae victis, oggi i vincitori spietati coi vinti esattamente che come al tempo dei romani , vogliono pure sembrare esempi di virtu’ morale.
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Qualche nota su queste “Tre lezioni sulla (vera) umiltà”.
Prima “lezione”, quella di Maria, che “avea in atto impressa esta favella / Ecce ancilla Dei”. Primo sublime esempio di quello che Dante chiama “visibile parlare”
Seconda lezione sull’umiltà, altra storia “ne la roccia imposta”, quella di David. David che, rinunciando alla gravità e alla compostezza regale, umilmente (e “in iubilo”) danza “trescando alzato” davanti all’arca del Signore (come potrei non pensare a quel “re delle feste” che si spoglia di tutta l’autorità che aveva in Assisi, quel mio santo prediletto che si fa joculator Domini?) e, di contro, la superba Micòl che, da una finestra, nulla comprendendo e, nel suo “malo amor”, nulla condividendo, lo guarda “dispettosa e trista” (“et despexit eum in corde suo”) (fedelissimo al testo biblico è il racconto di Dante: non solo, ma mi aiuta a leggerlo meglio).
Ma è questo che vorrei cercare di dire: che, secondo me, è, anche questa seconda, così come la prima, esattamente una delle abituali lezioni che al tempo di Dante i fedeli ancora “ascoltavano” guardando: prima all’esterno e poi all’interno delle loro chiese, nei portali istoriati, nelle facciate adorne, nella profusione di immagini sacre scolpite e dipinte su cui, ovunque si volgessero, potevano “leggere” (tutti, anche gli analfabeti, e soprattutto loro) e udire, chiaramente, il “visibile parlare” di quella mirabile Biblia pauperum di cui pian piano si è perduta ogni traccia. Di molti di questi vivi e parlanti splendori si sono fatti inerti oggetti da museo. Di quel poco che ne resta nella casa di Dio, noi, proprio come accadeva alla trista Micòl, ormai non capiamo più nulla. In più, come lei, crediamo che pauper equivalga a miserabile, a ciò che è tutto il contrario di un re. E siamo fortunati oggi, così si pensa, ad essere così informati che delle lezioni di quel “visibile parlare” (che parla soltanto ai piccoli) non abbiamo più alcun bisogno.
Mi sorprende, Leonardo, leggere che “la smorfia della regina” tu l’hai vista solo nelle donne, in certe donne: io la vedo anche nei maschi. Perfino negli adolescenti, in cui, fino a pochi anni fa, ancora era riposta tutta la mia speranza per il domani. Esagero? Vabbè, sto un po’ esagerando, lo so…
Aggiungo solo un’altra minuscola nota personale: come mi commuove quel commento di Dante alla sua esperienza di fissare lo sguardo sulla gente intorno a David scolpita “lì nel marmo stesso” e “partita in sette cori”: gente scolpita di cui l’ udito non può che dire: “non canta” ma che la vista deve ammettere: “sì, canta”. Perché quello è, appunto, un “visibile parlare” e un visibile cantare ma, anche, perché gli occhi del nostro poeta sono in grado di udirlo e con una tale precisione da poterlo far arrivare anche anche a noi, quel parlare, quel canto. “Udire con gli occhi”, dice Shakespeare, “appartiene al sottile ingegno d’amore” (“To hear with eyes belongs to love’s fine wit”) (Sonetto 23),
Terza lezione, quella in cui Dante sostiene che la sua vista ha potuto udire l’ intero (lungo articolato, emozionante) colloquio attraverso il quale “l’alta gloria” di “Traiano imperatore” fu condotta a volgersi in umiltà: così bella.
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Ecco David trescando alzato!
https://www.bing.com/videos/search?q=gere+david&docid=608049532966011623&mid=D347BA2F92ED29FC2B1BD347BA2F92ED29FC2B1B&view=detail&FORM=VIRE
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