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Leggere il canto VII è come adorare il Santissimo. Si entra in chiesa, con la testa piena delle sciocchezze e del rumore di cui sono fatte le nostre giornate, ci si inginocchia davanti al Mistero e poi ci vuol tempo, silenzio e pazienza perché la mente e il cuore si liberino dell’ingombro dell’io ipertrofico che un po’ tutti ci opprime. E non è detto che succeda. Fortuna che almeno il corpo sta lì, almeno quello è relativamente facile comandarlo (come dice Eb 10, 5: «un corpo invece mi hai preparato». Che dono prezioso è averlo); perché lo spirito invece scappa da tutte le parti. Tutto, pur di non stare lì, davanti alla Presenza. Con pazienza e umiltà bisogna lasciare che torni a casa, e aspettare finché non accada che l’ostinato silenzio del Santissimo Sacramento ci parli. Magari non succede, come ho detto, e la nostra adorazione consisterà allora soltanto nel fatto che il nostro corpo è stato davanti al corpo di Cristo, faccia a faccia, a pochi metri di distanza, per un po’ di tempo. È già tantissimo.
Qui, nel VII canto, sarà un po’ la stessa cosa. Dante fa una meditazione altissima del mistero centrale della nostra fede, la creazione e l’incarnazione – strette in un nesso che mai è stato così splendidamente illustrato – e noi non siamo pronti, non siamo adeguati. Io, almeno, non lo sono proprio. Abbiamo la testa, come ho detto, da un’altra parte, piena di sciocchezze e di rumore.
Dobbiamo dunque prepararci. Un grande aiuto ce lo darà la ardua difficoltà del testo stesso, che costringe il lettore a “stare attento”, cioè tutto teso a captare le parole e il loro senso. Un’altra grazia concessa all’uomo, infatti, oltre a quella di avere un corpo e non essere puro spirito, è di essere messo talvolta alle strette. Costrizione contro distrazione. È una scoperta dei Padri (origeniana in particolare) quella che il testo biblico, con le sue asprezze, oscurità e provocazioni, è un grande aiuto all’intelligenza spirituale della Scrittura. Lo stesso vale per Dante: benedetta la fatica che, soprattutto il Paradiso, ci costringe a fare.
Occorre però anche una purificazione preliminare, e qui il maestro ce la somministra con il sorprendente esordio del canto: «Osanna, sanctus Deus sabaòth, / superillustrans claritate tua / felices ignes horum malacòth!» (vv. 1-3). Lo stacco dalla carovana consueta delle parole e dei pensieri che ci occupano da mane a sera non potrebbe essere più netto e più felice. Di primo acchito non si capisce neanche che razza di lingua sia (certo non la nostra!). Un po’ latino, un po’ ebraico, un po’ lingua dantesca (superillustrans è di suo conio); ma, presi da questa lingua altra, siamo portati nella dimensione della lode.
La lode è uno degli atti che noi fraintendiamo di più, perché tendiamo pervicacemente a concepirla come una nostra azione, una delle tante che facciamo. Come tale, essa è sempre ambigua perché rischiamo di confonderla con il complimento, se non addirittura con l’adulazione (che è la sua contraffazione diabolica). Si loda per rendersi graditi al lodato: questo è ciò che pensiamo. Al massimo, arriviamo a pensare che la lode sia una forma di approvazione, cioè un’estrinsecazione della nostra misura. Essa, invece, è quella dimensione dello spirito in cui si dà realmente tutto lo spazio all’Altro. Non è l’espressione di una mia valutazione positiva (“bravo Dio, sei promosso!”), ma il puro, amoroso riconoscimento dell’Altro: “Tu” (invece di io, come sempre, come tutto il santo giorno, come anche quando penso a te, insopportabilmente).
La lode”: “il puro, amoroso riconoscimento dell’Altro”.
Sì. È questo, è proprio questo, la lode.
Ma perché aggiungi, poi, quella così strana frase: ” “Tu” (invece di io, come sempre, come tutto il santo giorno, come anche quando penso a te, insopportabilmente)”?
Strana: per me assolutamente incomprensibile.
Signore, “Tu”.
È soltanto da quando ho cominciato a dire questo “Tu”, che il dire “io” non mi è stato più “insopportabile”.
Tu, “ed” io. Sì: “tutto il santo giorno”.
Tu ed io: Gratitudine.
Ti ringrazio di avermi creata.
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Padre Tyn raccomandava di rispondere, a chi ci avesse provocato con : “voi cattolici sembrate avere la verità in tasca”, così: “sì, sulle questioni eterne ce l’ abbiamo!”
Son passati quasi 40 anni, temo che ben pochi cattolici sarebbero disposti a dirlo; eppure è così, ed era così per Dante, e prima di lui per s.Agostino e s.Tommaso, e dopo di lui per il Tommaseo. La Verità, insostenibile e meravigliosa, della colpa e del Riscatto, della misericordia e della giustizia noi battezzati, elementarmente istruiti su di un catechismo per bambini, l’ “abbiamo in tasca”. Perché la teniamo nascosta? principalmente, penso io, per non dover parlare del Sacrificio di NSGC. Più facile raccontare il Natale: Dio si è fatto uno di noi, piccino e fragile; ma guai a dire, oggi, che quel bambino era già Vittima sacrificale (i doni dei Magi!, Simeone…).
No, il Sacrificio-risarcimento cerchiamo proprio di evitarlo…..Dante vi dedica un canto.
P.s. uno decide di non esser polemico, di capire anche le ragioni dei novatori, e poi s’ imbatte in un verso che gli ricorda una delle prime “censure” iper-irenistiche, il “disarmo” di quel Dio degli eserciti, risarcito, bontà nostra, coll’ universo…….
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Nel “Lodare Dio”, in “quella dimensione dello spirito in cui si dà realmente tutto lo spazio all’Altro”, cioè nella dimensione in cui vivono i santi, che cosa dicono, all’Altro, i santi? Santa Chiara, per esempio, che viveva stabilmente nella Lode di Dio, che cosa dice, nel suo ultimo momento, a Dio? Quali sono le sue ultime parole? Gli ripete, a voce alta, e le sorelle lo trascrivono, quello che a Lui aveva detto, tacitamente, in ogni istante della sua vita consacrata: “E Tu, Signore, che mi hai creato, sii benedetto”: Tu, che hai creato Me. E’ solo “l’io ipertrofico”, che non sa nulla di un Tu, a scomparire. L’Io rimane: viene, anzi, scoperto solo allora. Quello che è cominciato, e che non finirà mai, è un dialogo. C’è un Tu: quindi c’ è anche un Io. L’Io che dice “Tu”. La faccio semplice, perché così mi è stato insegnato. Mi fu detto, proprio all’inizio del cammino: “Bisogna essere semplici con il Signore”. Mi furono date anche vite di santi. Per esempio quella di santa Margherita da Cortona, che mi parve sbalorditiva. Lei arrivava, nel suo ininterrotto colloquio, anche al rimprovero. O all’approvazione (l’equivalente di “Bravo Dio, sei promosso”). Questo ti scandalizza? No, certamente. Ma, allora, perché…. .
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Del Cantico delle Creature di San Francesco d’ Assisi , oggi si dimentica il primo e fondamentale verso “ Laudato sii mi’ Signore” . Dopo c’ e’ la lode tutte le creature , il sole , la luna , le stelle, ma prima e “ fondamentalmente” c’ e’ la lode del Creatore,del Principio , poiche’ le creature e la loro bellezza e bonta’ ( eDio vide che era cosa buona… dice il Genesi) rimandano alla bonta’ di Dio. Un altro santo francescano , San Bonaventura , molto caro a papa Benedetto XVI, scrisse l’ Itinerarium mentis in Deum , al monte della Verna , dopo aver meditato sulla visione avuta da San Francesco in quello stesso luogo, trenta anni prima: egli inizia il suo libro con le parole “ all’ inizio di questo itinerario invoco il primo Principio, dal quale come “ Padre della Luce”, discende ogni illuminazione spirituale , ogni cosac eccellente e ogni dono perfetto”.
Dunque la metafora dell” itinerario o del “ cammino” come si dice oggi i, e’ sempre stata presente nell’ anima cristiana, con la differenza che oggi di questo “ cammino” pare si sia persa la concezione di un Principio e di una Fine. Viene predicato il cammino in se’ stesso. Si dice che la chiesa e’ il popolo in cammino, che il,sinodo e’ un cammino, ma si omette di dire da dove e verso dove. Senza glorificare il Principio, senza lodare Dio , sembra che esistano solo le creature, si arriva a lodare la terra , senza rimandare al suo Fondamento.
Una religione del tutto orizzontale, lamentano molti, ma inascoltati, poiche’ oggi
il “ cammino” al quale teologi e vescovi ci invitano non e’ un itinerario dell’ anima a Dio , come insegnava San Bonaventura, ma una marcia senza un fine , nelle tenebre come poeticamente e sinteticamente scritto da uno scrittore maledetto dei nostri tempi : Viaggio al termine della notte. ( La nostra vita e’ un viaggio nell’ inverno e nella notte)
Di San Francesco e della spiritualita’ francescana oggi si parla tanto a sproposito, lo si arruola in tutte le ideologie alla moda , senza aver capito che egli era agli ANTIPODI di quella ideologia tutta orizzontale di oggi. Egli dava lode e glorificava il Signore, mentre oggi abbiamo assistito all’ orrore di vedere dei frati francescani prosternarsi davanti alla Pachamama , nei giardini Vaticani.
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Guarda caso, poco fa, cercando materiali da inserire in una mia bacheca Pinterest, la prima cosa che mi è caduta sotto gli occhi è questo titolo di un libro di don Giussani: “L’ io rinasce in un incontro”.
La cosa mi ha fatto grande impressione. Sembrava (era), quel titolo, il riassunto, la sintesi, l’essenziale, di quanto avevo scritto (balbettato) nel commento di stanotte.
Non lo avevo letto, il libro, non ne conoscevo neanche l’esistenza (conosco pochissimo di don Giussani) eppure, se ho capito bene dalla breve presentazione che ne fa l’editore, lì c’è proprio l’eco, la risposta, la conferma di quello che da ieri mi occupa la mente. Provocata da un paio di tue considerazioni, certo del tutto marginali nel tuo testo, che apre a cose ben più grandi, ma che, comunque, trovavo così strane, la mia mente su questo non cessava di interrogarsi.
Ed ecco che ora, “per caso”, trovo scritto qualcosa che è esattamente il mio pensiero, la mia certezza, tutta la mia esperienza di vita… Questo, proprio questo: che solo imbattendosi in un Tu (nel Tu) ci si imbatte nel nostro io, si prende coscienza di essere un io, si nasce come io…
Che dire? Non ho parole….
(Scusatemi, e scusami, Leonardo, per questa specie di “diario in pubblico”: avvertimi, se non è il caso.)
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Anzi, sono parole preziose. E questo spazio è soprattutto vostro; io intervengo di rado, ma leggo e rifletto su ciò che scrivete. Grazie a voi.
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Prometto (promesse da marinaio) che poi su questo tema non dirò più nulla, ma lasciatemi aggiungere almeno questo:
Perché, perché mai, dovremmo sentire, “insopportabilmente”, come un ingombro, ll perdurare della presenza del nostro io? Perché il sospetto perfino sulla lode? (“tendiamo pervicacemente a concepirla come una nostra azione, una delle tante che facciamo. Come tale, essa è sempre ambigua perché….). Perché guardare al nostro povero io con tanta insofferenza, quando compare il Tu? Non lo fa nemmeno Dante che, appena udito cantare l’altissimo inno di lode, tornerà, come vedremo, immediatamente a se stesso (“Io dubitava e dicea ‘Dille, dille!’ / fra me, ‘dille’, dicea, ‘a la mia donna / … “.
E’ questo, in estrema sintesi, , ciò che mi disorienta: cioè, che mi aveva disorientato.
La risposta provvisoria che ora mi sono data, in assenza di risposte da parte vostra, è questa: che il nostro Leonardo sia troppo severo.
E non è nemmeno la prima volta che ho avuto questa impressione.
Per conto mio, “io” sto, in pace, nel ringraziamento e nella lode.
Sto nella Pace senza ombre del mio Salmo prediletto: ” Signore, tu mi scuti e mi conosci, / tu sai quando mi siedo e quando mi alzo … dove fuggire dalla tua presenza?… Sei tu che hai creato le mie viscere, e mi hai tessuto nel seno di mia madre. Ti lodo, perché mi hai fatto come un prodigio… “.
Confesso che mi scopro a ripetere queste parole, ogni volta, con lo stupore di chi mai e poi mai, “prima”, prima che il Tu si imponesse come la Presenza, avrebbe potuto guardare se stesso in questa tenera- abbagliante Luce di accoglienza e di rivelazione. Forse, mi dico, chi con la lode e con la presenza di Dio è vissuto da sempre, ne sa di più, e sa che è necessaria anche la severità con se stessi. La mia storia, purtroppo, è differente. Venivo da una tale severità nei miei confronti che era assenza di Speranza, disperazione…
Poi, all’improvviso: Signore, “Tu”…
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”Signore, tu mi scruti e mi conosci, / tu sai…”
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È tutto vero, mi pare, ciò che scrive Fiorenza a proposito dell’io generato e abbracciato dal Tu divino («Io sono Tu che mi fai», nella formula tante vole usata da don Giussani). Ma c’è anche quell’altro io, quello che Gadda definiva, «il più lurido di tutti i pronomi», quello che ci ingombra e ci ingaglioffa, che ci è di continuo inciampo ad ogni onrata impresa, prima fra tutte la lode di Dio. Quello di cui sempre Gadda scrive così: «Quando l’immensità si coagula, quando la verità si aggrinza in una palandrana… da deputato al Congresso,… io, tu… in una tirchia e rattrappita persona, quando la giusta ira si appesantisce in una pancia… nella mia per esempio… che ha per suo fine e destino unico, nell’universo, di insaccare tonnellate di bismuto, a cinque pesos il decagrammo… giù, giù, nel duodeno… bismuto a palate… attendendo… un giorno dopo l’altro, fino alla fine degli anni… Quando l’essere si parzializza, in un sacco, in una lercia trippa, i di cui confini sono più miserabili e più fessi di questo fesso muro pagatasse… che lei me lo scavalca in un salto… quando succede questo bel fatto… allora… è allora che l’io si determina, con la sua brava mònade in coppa, come il càppero sull’acciuga arrotolata sulla fetta di limone sulla costoletta alla viennese… Allora, allora! è allora, proprio, in quel preciso momento, che spunta fuori quello sparagone d’un io… pimpante… eretto… impennacchiato di attributi di ogni maniera… paonazzo, e pennuto, e teso, e turgido… come un tacchino… in una ruota di diplomi ingegnereschi, di titoli cavallereschi… saturo di glorie di famiglia… onusto di chincaglieria e di gusci di arselle come un re negro…».
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“… l’io d’ombra, l’animalesco io delle selve…”
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L’ha ripubblicato su Pastor Aeternus proteggi l'Italia.
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