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I versi 100-102 del V canto si possono leggere in due modi. Uno è quello che, da umile scudiero della più grande dantista dell’ultimo secolo, Anna Maria Chiavacci Leonardi, ho adottato io: «Quivi perdei la vista e la parola; / nel nome di Maria fini’,» – cioè morii – «e quivi / caddi, e rimase la mia carne sola.»; l’altro, difeso anch’esso da illustri studiosi di Dante, che legge: «Quivi perdei la vista, e la parola / nel nome di Maria finì, e quivi / caddi, e rimase la mia carne sola.».

Fiorenza, gentile compagna della comitiva dantesca che per la poesia ha sensi finissimi, sostiene animosamente quest’ultima lettura, in questo intervento che si può già leggere nei commenti al post del 6 novembre. Poiché penso che alcuni leggano i post ma non i commenti, lo metto anche qui, perché è troppo importante perché non venga conosciuto.

«”Quivi perdei la vista”.
“Quivi”: qui dove? Bonconte è ora già lontano da Campaldino: difficile dire “qual forza o qual ventura” sia riuscita a farlo arrivare fin qui, presso al luogo dove l’Archiano sfocia nell’Arno dopo aver attraversato la piana casentinese.
C’è come un parallelismo tra il percorso del fiume e la corsa di lui che è andato attraversando e “sanguinando il piano” (l’etica dei luoghi, insieme alla poesia dei luoghi, come sempre, in Dante).
“Quivi” dunque, proprio in questo punto designato, lo attendono la morte e Dio.
“Quivi perdei la vista”; non si tratta, qui, come dicono quelli dell’interpunzione sbagliata, del momento della morte ma di quello in cui la vista si ottenebra e che precede la morte: il momento in cui il mondo si fa buio, scompare. Chi ha assistito un morente, sa bene questo, è stato impotente testimone di questo.
Poi, che avviene poi? Straordinaria è la precisione di linguaggio di questo uomo straordinario, che dice: “la parola / nel nome di Maria fini'” E questo è il momento successivo a quello del buio: non è ancora, nemmeno questo, il momento del morire ma quello in cui, ormai, anche la capacità di parlare, dopo quella di vedere, viene meno, si spegne. Così Bonconte rievoca, con la sua (così unica, così “sua”) sobrietà, l’attimo (perché è solo un attimo) solenne, in cui tutto per lui si decide: io “finii” di parlare, cessai, terminai la mia vita di parlante, di dialogante, mentre la morte già si stava annunciando, con questa, che fu la mia parola, la mia invocazione ultima: “Maria”.
Non so come ti sia venuto in mente che io potessi alludere, invece, a, come dici, “un discorso (parola) precedente che finisca nel nome di Maria”, a una sua lunga orazione che precede l’invocazione di quel nome…. eccetera. Difficile che io riesca ad essere chiara. Pazienza.
Passiamo ad altro.
Quella frase (nel nome di Maria fini’), staccata dal resto e che, senza il resto, è del tutto priva della sua aura, del suo senso, che cosa significa, per voi? Quel “finii” equivale a dire “morii” ? Cioè significa, anche per te, questo: non finì, venne meno, morì la mia parola, ma “io morii”? Bonconte avrebbe detto, dunque, per la seconda volta, “morii”? Non è incompatibile, questo, con la sua sobrietà, con la sovrana sobrietà di quel discorso indimenticabile? Ma, soprattutto, in questo modo, isolando con l’interpunzione quella frase da ciò che la precede, voi fate dire a Bonconte “morii nel nome di Maria”, il che è una espressione, a dire il minimo, poco felice, via, ammettiamolo. Senza contare che, se davvero avesse parlato in questo modo, Bonconte avrebbe messo l’accento più sulla morte (“finii'”) che sul nome a cui deve la sua salvezza. Potresti dire, immagino, che le due cose in realtà coincidono; invece no, non coincidono affatto. Tra la “parola” (la possibilità di continuare a parlare, che finisce pronunciando il nome benedetto) (e che è tutt’uno, come sapremo poi, con l’ultimo gesto, quello di porre le mani sul petto in croce), e l’istante della morte, si apre l’immensità, l’insondabile mistero divino.
Ed eccola, infine, la morte (nominata adesso per la prima volta. Nella vostra lettura, invece, un ripetitivo Bonconte la starebbe rinominando, ora, per ben la terza volta): “e quivi caddi”.
“Quivi”: solo il luogo è sempre quello. Il tempo, no. Sono momenti successivi, e l’infinito si stende tra l’uno e l’altro. Riesco a spiegarmi? dentro di me la cosa è chiarissima, ma comunicarla impossibile.
,,,”e rimase la mia carne sola”: eccolo, ciò che rimane. Ma no, nemmeno questa è la fine: non so dire quanto tragica sia la vista di quel corpo abbandonato: quella distinzione tra l’ io” (io “caddi”) e “la mia carne sola”, eppure anche questo passerà. Bastano pochi versi ancora per arrivare al punto in cui Bonconte, parlando del suo corpo morto e abbandonato allo scempio non dice che la furia del fiume sospinse inesorabilmente quel corpo, quella cosa morta, “gelata”, che era la sua carne, disponendone come di un qualsiasi pezzo della natura, voltandola e rivoltandola impunemente, disfacendo, anche, quell’estremo gesto delle braccia incrociate sul petto. No: dice “voltommi”. Voltò, rivoltò, trascinandomi, “me”. Dice “mi coperse”: coperse coi detriti trasportati dalla furibonda corrente non quella “carne sola” ma “me”. “Io”, io e “la mia carne”, il mio corpo, ricongiunti. E siamo al punto che avevo in mente e che era sottinteso fin dall’inizio nelle cose che avevo scritto ieri: ogni minimo particolare, in questa vicenda di Bonconte a cui abbiamo partecipato, è Liturgia, è un’azione liturgica, un mistero liturgico, e non siamo autorizzati ad alterare a nostro comodo il suo ordine, la sua esattissima scansione, la sua “punteggiatura”. “Un ordine stellare è poca cosa al confronto”.»

(Sull’ultima parte del racconto di Bonconte, di cui non ho detto nulla nel post precedente e a proposito della quale Fiorenza fa un’osservazione molto pertinente e acuta dirò la mia domani, prima di parlare del terzo personaggio del canto V, Pia de’ Tolomei).