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Dando un’occhiata ai commenti in rete circa il gesto aggressivo compiuto un paio di giorni fa da una donna di origini congolesi nei confronti di un uomo politico, in quel di Pontassieve, mi ha colpito che quasi nessuno abbia rilevato che ciò che lei ha detto è assai più grave di ciò che ha fatto (strappando a quel tale la camicia e un rosario che portava al collo, a quanto dicono). Mettere le mani addosso a qualcuno non va bene, ma dirgli «Io ti maledico!» è molto peggio.

Perché è grave, e perché è preoccupante che non ce ne accorgiamo? È grave per due ragioni, una soggettiva e l’altra oggettiva. La donna che ha pronunciato quella frase a quanto pare non è né una demente né una “disperata-perciò-esasperata” (adopero per una volta l’etichetta corrente, sulla quale ci sarebbe molto da discutere, ma ora lasciamo stare), bensì una persona da considerarsi sotto ogni profilo compos sui e quindi pienamente consapevole e responsabile dei propri atti, tanto più che il suo retaggio culturale la agevola nel comprendere il significato e il “peso” di una maledizione. (È per questo e non per altro che sopra vi ho fatto cenno). La seconda ragione sta appunto nella natura dell’enunciato da lei prodotto: «Io ti maledico!» è un enunciato performativo, cioè destinato a fare ciò che dice.

Non sono un linguista né tantomeno un filosofo del linguaggio, quindi da poveretto mi limito a far notare, alla buona e all’ingrosso, che tutti gli enunciati si possono distinguere e raggruppare in tre categorie: a) alcuni descrivono il mondo, com’è o come pensiamo che sia o come vorremmo che fosse. Se dico: «la terra è uno sferoide», faccio una descrizione (di un aspetto) della realtà. Se dico: «la terra è piatta», è la stessa cosa, solo che in questo caso l’enunciato è falso. Se dico: «la terra sarebbe un posto migliore se non ci fossero criminali», descrivo il mondo come vorrei che fosse, il che implica un giudizio di valore, in questo caso facilmente condivisibile da quasi tutti. Ma anche se dico: «la terra sarebbe un posto migliore senza gli ebrei (oppure senza i bianchi o senza i neri, è lo stesso)», o se dico: «la terra sarebbe un posto migliore senza Salvini (oppure senza chi volete voi, è uguale)», produco enunciati dello stesso tipo. La sola differenza è che essi potranno risultare assurdi o moralmente ripugnanti ad un numero più o meno grande di persone, mentre il primo sta bene a tutti. b) Altri enunciati (che a volte vengono chiamati conativi) non descrivono il mondo ma sono diretti a cambiarlo. Sono comandi, più o meno espliciti e diretti: «spegni la luce», «apri la porta»; ma anche: «arrestate quell’uomo!» oppure «liberatelo!», «andiamo a bruciare la sinagoga!» oppure «andiamo a salvare quei naufraghi!». c) Altri ancora creano il mondo che descrivono, in quanto pretendono di compiere ciò che enunciano (sopra li ho chiamati performativi). È questo, in un certo senso, il livello più alto e sacro del linguaggio umano. I sacramenti, non per nulla, consistono di enunciati di questo genere: «Io ti battezzo nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito santo» non descrive ma opera il battesimo; lo stesso fa la formula «Io ti sposo», o «Io ti assolvo». Anche una maledizione funziona così: «Io ti maledico» non è semplicemente una rappresentazione del proprio odio verso qualcuno, né una frase che istiga a compiere un atto conseguente a tale odio: è un’azione in se stessa. Un’azione di odio. Poco importa ora se noi alle maledizioni “ci crediamo” oppure no. Quella donna congolese sono sicuro che ci crede e penso anche che tutto sommato abbia ragione: noi europei di solito non ci crediamo affatto (o facciamo finta di non crederci), ma sfido qualsiasi illuminista su piazza a restare seriamente indifferente e interiormente impassibile di fronte ad una maledizione seriamente scagliata contro di lui con autentico odio. L’azione di odio non è mai senza effetti, anche quando non si estrinseca in alcuna violenza fisica e non sembra procurare sul momento alcun danno tangibile. Chi si sente oggetto di un odio non represso e non combattuto ma anzi espresso performativamente, sta male (spesso proprio nel senso che si ammala), e non c’è bisogno di appartenere a una cultura tradizionale e premoderna per saperlo, basta osservare la realtà.

Perché allora nell’episodio di Pontassieve questo aspetto così importante non è stato notato, proprio oggi che siamo tanto sensibili, per non dire iper-sensibili, al tema del discorso di odio, alla necessità di non offendere nessuno e all’obbligo del politically correct? Credo che in parte sia colpa proprio di quella stessa ideologia dello hate speech, che si è diffusa dappertutto e come un cancro sta distruggendo uno dei valori fondamentali della nostra civiltà, la libertà di parola. Come una malapianta invasiva, essa ci sta soffocando, ottunde la menti, inibisce il pensiero impedendo di distinguere ciò che va distinto, col risultato paradossale di far scendere su di noi “la notte in cui tutte le vacche sono nere” e nella quale non abbiamo più il criterio per riconoscere e combattere il vero discorso di odio quando esso si manifesta.

L’errore fondamentale di tale ideologia, infatti, è di trattare – nella sua folle, menzognera (e perciò satanica) pretesa di bandire per legge l’odio dal mondo – tutti gli atti di parola allo stesso modo, quando invece è essenziale distinguere tra quelli che abbiamo chiamato sopra descrittivi e quelli conativi perché vi è una differenza abissale. Gli uni stanno al di qua e gli altri stanno al di là della linea che separa i pensieri/parole dalle parole/azioni. Se si ha veramente a cuore la libertà dell’uomo, bisogna difenderla e promuoverla integralmente, senza alcun limite tranne quello che essa incontra quando lede altri beni essenziali: la vita e la libertà di altri soggetti. La libertà di manifestazione del pensiero, pertanto, deve essere assoluta quando si estrinseca in enunciati del primo tipo, perché è evidente che “descrivere male il mondo”, sia pure con gli enunciati più assurdi e/o moralmente ripugnanti, non lede mai il diritto degli altri di descriverlo in modo vero e giusto. Una società è libera solo se tutti i suoi membri sono tutelati nel loro diritto di dire anche cose stupide e orribili. Tutte le norme di legge e tutte le pratiche sociali che reprimono tale libertà vanno perciò respinte e combattute. Il razzista, il “negazionista”, il teorizzatore delle visioni del mondo più aberranti non possono mai essere criminalizzati per le loro aberrazioni mentali. Li combatteremo intellettualmente, non daremo loro nessun aiuto, ma non possiamo accettare che qualcuno vada in galera o subisca altre sanzioni perché non “pensa e non parla bene”. Gli enunciati del secondo tipo, al contrario, vanno trattati esattamente come si trattano le azioni, perché tali sono, in fin dei conti. Qui sì che si può delineare il concetto di discorso di odio, ma esistono già gli strumenti giuridici per sanzionarlo (si pensi al reato di istigazione a delinquere).

La falsa coscienza a cui l’ideologia del politicamente corretto ci ha costretti ha creato un clima velenoso e opaco. Obbligati a far finta di essere buoni, abituati a scandalizzarci fintamente e a comando per la “parola scorretta” sfuggita a Tizio o intercettata nella conversazione privata di Caio; nauseati dalle continue tempeste di merda scatenate per punire chi “ha parlato male”, nauseati dall’ipocrisia del doppio standard (in pubblico in un modo in privato all’opposto; con gli amici in un modo coi nemici all’opposto), siamo divenuti ormai incapaci di riconoscere e di ribellarci ad una parola veramente cattiva come «io ti maledico». Da chiunque sia detta, a chiunque.