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Gli ultimi quattro versetti (11, 27-30) della descrizione della chiesa di Antiochia con cui Luca apre la seconda parte di Atti ci danno alla svelta alcune informazioni apparentemente marginali che non possiamo però assolutamente trascurare perché contribuiscono a darci un’idea della vita quotidiana delle prime comunità cristiane. È una delle bellezze della storia antica, questa: sempre alle prese con la scarsità di fonti, lo storico del cristianesimo antico impara lo spirito di povertà, dando valore ad ogni minimo frustolo di notizia che può ricavare dai testi.

La “struttura ecclesiale” che ci era stata presentata finora, nella prima parte di Atti (1,1 – 11, 18), era fatta di pochissimi elementi: i Dodici (reintegrati sin dall’inizio con l’elezione di Mattia: cfr. 1, 15-26), i Sette (cfr. 6, 1-6), eletti d’urgenza per risolvere la crisi insorta a proposito del servizio delle mense, e la comunità vista nel suo insieme e nella sua unità (epì to autò), che ci viene più volte descritta nei sommari. Oltre agli apostoli e ai diaconi (e a Maria!), gli unici ad essere nominati come personaggi interni alla comunità sono Barnaba (peraltro messo in stretta correlazione con gli apostoli), Anania e Saffira (come esempio di “cattivi discepoli”), l’altro Anania (quello di Damasco), Enea di Lidda, Tabità e Simone il conciatore di Joppe. Poi ci sono degli outsider: Simone il mago di Samaria, Saulo il persecutore convertito e infine Cornelio il centurione. Altri nomi non ne abbiamo e ci dispiace, perché senza nome quei primi cristiani – tutti importantissimi, tutti in un certo senso “autorevoli” per noi perché erano la generazione che aveva conosciuto Gesù, l’aveva visto con i propri occhi e l’aveva sentito parlare – restano anche, per così dire, senza volto. Quella che ricaviamo dai primi capitoli di Atti è un’immagine di chiesa relativamente semplice, totalmente incentrata e quasi coincidente con il collegio apostolico, a sua volta incardinato su Pietro.

Ora il quadro comincia a farsi un po’ più complesso. Apprendiamo infatti che «In questi giorni scesero da Gerusalemme [alcuni] profeti (προφῆται) ad Antiochia» (11, 27). È la prima menzione di questa categoria, o ministero, che troviamo nel libro. Del carisma della profezia, insieme ad altri presenti nella chiesa primitiva, Paolo parla diffusamente nelle sue lettere, in particolare in 1 Cor 12, 4-11.28-31; 14, 1-5 e in Ef 4, 11-16. Che cosa sia la profezia, nell’accezione biblica, è abbastanza chiaro: l’espressione di un pensiero sulla realtà che non è frutto di una rielaborazione della mente umana ma piuttosto ispirazione (se non addirittura “dettatura”) dello Spirito Santo. Profeta è dunque colui che riceve, ed accoglie con fede, questo dono, che però è innanzitutto e soprattutto ecclesiale, come dimostra in modo definitivo la sua prima e fondamentale manifestazione, quella di Pentecoste, che si effonde su «tutti [quelli che] si trovavano insieme nello stesso luogo (ἦσαν πάντες ὁμοῦ ἐπὶ τὸ αὐτὸ)» (2, 1). Quanto poi nel corso degli anni il carisma profetico – che è dono di una capacità di giudizio ispirato sulla realtà che può spingersi fino alla previsione di eventi futuri – si sia connotato come una funzione specifica all’interno della comunità, un ministero esercitato particolarmente da alcuni soggetti a beneficio di tutti gli altri, è una questione complessa e difficile da risolvere, tanto quanto lo è quella del suo successivo declino: già Paolo in 1 Cor 14, 26-40 manifesta una preoccupazione per la corretta amministrazione comunitaria dei carismi e l’esigenza di sottoporli ad una disciplina ecclesiale. Qui ci basterà osservare che il modo in cui Luca ne parla (per la prima volta!) sembra indicare che quella del “profeta” è già una figura dal profilo ben distinto che identifica una categoria di persone all’interno della comunità.

«Alzatosi, uno di loro, di nome Agabo, segnalò (ἐσήμανεν) per impulso dello Spirito che vi sarebbe stata una grande carestia su tutta la terra abitata (ἐφ᾽ ὅλην οἰκουμένην); essa avvenne sotto Claudio» (11, 28). Ecco un altro nome da aggiungere al nostro sparuto elenco di primi cristiani da ricordare con venerazione: questo Agabo, profeta che ritroveremo molto più avanti nel racconto, in quel di Cesarea, sempre intento a predire calamità (cfr 21, 10-11). Ignoro se Sant’Agabo sia patrono di qualche categoria: fossi papa io, lo nominerei “patrono dei profeti di sventure ma anche degli ottimisti”, affidandogli il compito di tenere a bada la nostra smania di prevedere il futuro. In questo caso, gli tocca preannunciare l’imminente arrivo di una carestia – puntualmente verificatasi sotto il regno di Claudio, come annota diligentemente l’autore, fornendoci un’indicazione cronologica interessante ma problematica. Il regno di Claudio va dal 41 al 54. Se l’episodio di cui stiamo parlando va collocato prima della morte di Erode Agrippa narrata nel capitolo 12 ai vv. 20-23, che avvenne nel 44, la “carestia mondiale” in questione ci sarebbe stata in uno dei tre anni precedenti, ma nessuna fonte storica ce ne parla. Bisognerà dunque pensare che quando dice «in tutta l’ecumene» Luca si riferisca, in realtà, solo a quella parte di mondo a cui ancora si limitava la diffusione del cristianesimo, cioè in sostanza la Giudea e le zone limitrofe.

L’annuncio di Agabo, suscita nella comunità antiochena una reazione immediata, e degna del massimo rilievo: «Tra i discepoli (τῶν δὲ μαθητῶν), secondo i mezzi che ognuno aveva, decisero ciascuno di loro di inviare [qualcosa] per il servizio (εἰς διακονίαν) ai fratelli (ἀδελφοῖς) abitanti in Giudea; cosa che fecero, inviandolo agli anziani (πρὸς τοὺς πρεσβυτέρους) per mano di Barnaba e di Saulo» (11, 29-30). Tre annotazioni telegrafiche, ma importanti per cogliere il messaggio di Luca: 1) la Chiesa è una, anche se comincia a disseminarsi in tante comunità distanti tra loro, geograficamente, etnicamente e culturalmente. L’idea della chiesa come corpo, prima di essere un teologumeno paolino è una realtà concretamente sperimentata fin da subito dai «discepoli» (così, significativamente, il testo torna a chiamare, come all’inizio, i “cristiani” di Antiochia). Come ogni corpo, anche questo ha un “cuore”, e sta a Gerusalemme. 2) La forma fondamentale di tale esperienza di unità è quella dell’esercizio della carità vicendevole, che arriva fino al soccorso materiale, cioè alla diaconia della mensa, nella modalità della colletta. Essa richiama e al tempo stesso si differenzia da quella della condivisione dei beni attuata per breve tempo nella prima comunità gerosolimitana. I segnali anche linguistici della somiglianza sono appunto nell’uso del termine diaconia che avevamo incontrato a 6,1-2, e dell’espressione «secondo i mezzi di ciascuno» che ricorda da vicino quella di 4, 35b («secondo il bisogno di ciascuno»). La differenza è che siamo passati da un sistema di condivisione generale dei beni, sia pure su base volontaria e proporzionale alle risorse individuale, ad uno di libera donazione contingente, determinata dall’insorgere di particolari situazioni di bisogno. 3) Fa la sua comparsa una nuova categoria ecclesiastica, quella degli anziani, che Luca finora non aveva mai nominato. Dobbiamo pensare che ad una visione della chiesa di Gerusalemme totalmente “apostolocentrica” come quella dei primi capitoli se ne vada sostituendo un’altra, più articolata, in cui accanto agli apostoli – (ma siamo sicuri che, nei primi anni quaranta siano ancora tutti stabilmente residenti a Gerusalemme?) – si profilano altri personaggi “autorevoli”? Difficile raggiungere certezze in proposito, ci torneremo sopra. Per ora registriamo che è la prima volta, negli Atti, che una faccenda non viene, per così dire, “deposta ai piedi degli apostoli”, come Luca si era espresso a 4, 37.