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Troppe bellezze in questo canto, l’ho già detto. E noi ci sentiamo un po’ come bambini capitati in un immenso salone pieno di giocattoli meravigliosi, che non sanno decidersi a quale dedicarsi e temono che non ci sarà tempo per provarli tutti.
C’è la bellezza del numero tre (altro che solitudine dei numeri primi!), cantata (e contata) con precisione matematica musicale e teologica nei vv. 28-33. («Quell’uno e due e tre che sempre vive / e regna sempre in tre e ‘n due e ‘n uno, non circunscritto, e tutto circunscrive»: può esservi terzina più circolarmente euclidea di questa?).
C’è, al vv. 35-36 «una voce modesta / forse qual fu da l’angelo a Maria», che Anna Maria Chiavacci Leonardi molto acutamente pone «tre le più straordinarie invenzioni del genio poetico di Dante», perché chi mai, prima o dopo di lui, si è soffermato a pensare come fosse il tono della voce dell’angelo a Maria? Di solito, i più sensibili commentatori di quel passo del vangelo si concentrano sulle sfumature delle risposte della Vergine: chi mai avrebbe potuto pensare che forse Dio, l’Onnipotente, potrebbe essersi mostrato, per il tramite del suo angelo, «modesto» nel rivolgersi alla libertà della sua creatura? “Modesto”, come colui che non impone, non pretende, non obbliga, ma chiede; col rispetto, la discrezione, quasi mi verrebbe da dire la timidezza che sempre si ha quando si domanda all’altro qualcosa che egli potrebbe darci o non darci … La voce che parla a Dante, in questo punto del canto, dalla luce più luminosa della prima corona di spiriti sapienti che lo circonda (è il grande Salomone), è «una voce modesta»!
C’è la festa di paradiso dei vv. 37-38, che è già uno straordinario sintagma di suo, ma qui viene esaltato dalla posizione finale nel verso, in coda a «Quanto fia lunga la festa» – che già lo dilata – e in enjambement («festa / di paradiso») che ancor più spalanca ad una durata infinita, facendoci intravedere la prospettiva, totalmente ed esclusivamente paradisiaca, di una festa che non finisce mai e che non ci stanca (per cui a una cert’ora vogliamo andare a casa, perché ci siamo stufati anche del più bel divertimento e della più gaia compagnia). Festa di paradiso, mentre qui da noi le feste – quando ci sono e ammesso che ci siano – durano sempre troppo poco o troppo a lungo (il che alla fine è la stessa cosa). (Quelli della mia età ricorderanno e compatiranno che, mentre scrivevo, mi sia affiorata alla mente il primo verso di una canzone di quando ero giovane: https://www.youtube.com/watch?v=5Vhkk8vu1hU).
C’è anche, e non sembri un dettaglio erudito, l’anadiplosi dei vv. 40-41 («La sua chiarezza seguita l’ardore; / l’ardor la visïone, e quella è tanta») che dà una spinta entusiasmante al moto ascensionale della poesia in cui l’animo nostro viene coinvolto.
Ma di tutte queste cose non parliamo. Sono come fiori che non cogliamo, accontentandoci di rimirarli di sfuggita, mentre passiamo. Oggi non abbiamo occhi e cuore che per lo scrigno del v. 43 e per l’espressione magnifica che contiene: «la carne glorïosa e santa». Oggi la meditiamo. Domani proviamo a dirne qualcosa.