Che senso ha fare l’esame a uno che “tanto è già stato promosso”? Perché mai c’è bisogno di un’interrogazione, se tutti qui in Paradiso sanno già che Dante i compiti li ha fatti e le risposte le conosce bene? Direi per un motivo analogo a quello per cui sulla terra per avere il perdono di Dio c’è bisogno di prender su, andare da un prete, verbalizzare davanti a lui i nostri peccati e riceverne, se siamo pentiti, l’assoluzione, benché Dio conosca già perfettamente da sempre tanto i peccati quanto il pentimento.
Perché nella realtà umana nulla di veramente importante può restare totalmente ed esclusivamente privato. Intimo sì, privato no. Ciò che è radicalmente serio e decisivo, nella vita di un uomo, non può non avere, in un modo o nell’altro, prima o poi, una rilevanza “pubblica”, cioè pienamente relazionale. “Ti amo ma non ti sposo”: vuol dire che in fondo non è vero che l’ami. “Sono pentito, ma non vado a confessarmi e non riparo al male fatto”: vuol dire che non sei veramente pentito. “Sono dalla tua parte, condivido le tue idee e le tue battaglie, ma non mi espongo a sostenerle pubblicamente”: vuol dire che non ci credi veramente. “Lo so, ma non so dirlo”: sei sicuro di saperlo veramente? E potrei continuare …
Con l’ultimo esempio ho già toccato il nostro punto di oggi: certo che Dante, se è arrivato fin lassù, «ama bene e bene spera e crede», come san Pietro sa perfettamente, ma deve fare lo stesso la sua bella professione di fede ed essere disposto a farsi “tentare” «di punti lievi e gravi», cioè su tutte le parti della dottrina acquisita, dal suo esaminatore. Sgombriamo però il terreno da un equivoco molto comune: che gli esami servano essenzialmente per accertare cosa uno non sa, per scoprire falle e difetti nella sua preparazione. Questo può essere un risultato, mai lo scopo di un esame. L’esame, per come qui lo intendiamo e lo trattiamo, si fa per mettere in luce ciò che il candidato sa e soprattutto come lo sa: il positivo, non il negativo. Sarà solo l’eventuale assenza di positivo che darà spazio al negativo e causerà il fallimento della prova. Fatto per scovare le lacune e i limiti altrui, invece, l’esame si trasforma in un gioco stupido, meschino e crudele: un passatempo da sfigati che purtroppo ha sempre allignato e tuttora alligna nelle aule scolastiche. Ciascuno di noi infatti, nessuno escluso, trovandosi nella posizione di esaminatore sarebbe potenzialmente in grado di far cadere qualsiasi esaminando, semplicemente chiedendogli ciò che sa solo lui stesso e come lo sa lui stesso. Ne derivano esercizi di sadismo come quello magistralmente interpretato da Totò e Alberto Sordi in un vecchio film del cattivissimo Monicelli:
No, gli esami in Paradiso (e sulla terra, quando sono fatti come Dio vuole) sono tutt’altra cosa: servono a professare la verità, perché è solo professandola, cioè pubblicamente e personalmente dichiarandola in faccia al mondo, che la si possiede veramente anzi si diventa un tutt’uno con essa (come nel martirio). Tale dovere – che può anche sembrarci arduo e superiore alle nostre forze – ci attribuisce comunque un compito e ci conferisce una responsabilità. Esso in tal modo ci sfida, ci mette alla prova, sollecita e rinvigorisce ogni nostra capacità, o virtù come direbbe Dante. Nella trepidante attesa di dare inizio alla sua performance accademica, ecco il baccelliere si prepara mentalmente chiamando a raccolta ogni nozione acquisita in lunghi anni di studio e custodita nella memoria ed ogni sua energia intellettiva addestrata in tante occasioni precedenti: «così m’armava io d’ogne ragione» dice di sé il poeta, e come suona meravigliosamente vero, questo verso, agli orecchi di chiunque di noi abbia sostenuto prove d’esame davvero impegnative e da cui dipendeva molto per la nostra vita!
Ed ecco la domanda di san Pietro, che ci fa repentinamente uscire dalla scuola e spalanca davanti ai nostri occhi l’intero orizzonte della vita: «Dì, buon Cristiano, fatti manifesto: / fede che è?» (vv. 52-53). Questa domanda, infatti, non è solo per gli studenti di teologia. Dio la rivolge a ciascuno di noi ogni giorno e, specialmente in questo nostro tempo così opaco alla luce della rivelazione, è come se la sua voce ci ripetesse di continuo (per chi ha orecchi per intenderla): buon cristiano, fatti manifesto!
Fiorenza ha detto:
Ma, Leonardo, certo che “la domanda di san Pietro, spalanca davanti ai nostri occhi l’intero orizzonte della vita: «Dì, buon Cristiano, fatti manifesto: / fede che è?».” Certo che, come dici, questa domanda “non è solo per gli studenti di teologia. Dio la rivolge a ciascuno di noi ogni giorno e, specialmente in questo nostro tempo”. Credo fermamente questo.
Eccetera eccetera. Intendo dire che i vari esempi, le varie affermazioni che hai fatto, io le condivido.
Sono d’accordo su tutto: come potrei non esserlo? quello che dici è ciò in cui tutti noi crediamo. Ognuna di queste tue affermazioni è giusta e vera e, se non la considerassi tale, non non sarei cattolica, e nemmeno sarei qui né ti avrei seguito per tutto questo tempo.
Solo che ognuna di queste tue affermazioni per me ha senso qui: sulla terra, nel mondo, nell’intero “orizzonte della vita”, della vita terrena, nel nostro orizzonte terreno che è l’unico che per ora conosciamo.
Ho sempre condiviso la tua convinzione che Dante in paradiso ci sia veramente stato. So bene che non è l’unico. Grandi santi, grandi mistici, hanno ricevuto lo stesso dono. Mai però, nei secoli, la Chiesa ci ha chiesto di fare delle loro estasi, delle loro rivelazioni, delle loro esperienze di paradiso (con esami o no) e delle grandi opere di poesia con cui ce le hanno trasmesse, una sorta di nuovo Catechismo. Né tu puoi chiedermi di fare un’eccezione per la Divina Commedia. Puoi invitarmi a leggerla di più, a leggerla meglio, e ti questo ti sarò sempre grata. Ma non puoi sostituirti alla mia coscienza, né alla mia guida spirituale né al mio confessore.
Era un po’ questo che avevo cercato di dire anche prima.
Poi non so, può darsi che ti abbia frainteso.
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leonardolugaresi ha detto:
Temo di non aver afferrato il punto che vuoi indicare. Posso dire di non aver certo l’intenzione di sostituirmi alla coscienza di alcuno né quella di far da guida spirituale (anche nel limitatissimo ruolo di lettore della Commedia, mi limito a presentare quel che vedo nel testo), ma non saprei neanche dire quali mie parole possano averti dato questa impressione. Se me le segnali, posso cercare di chiarire meglio ciò che intendo.
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Maria Cristina ha detto:
“Di Buon Cristiano, fatti manifesto, fede che e’ .
Tutto quello che dice il professore e’ vero , pero’ Arrivati al culmine del Paradiso questa domanda a Dante mi suona un poco come dire “ dilatoria” . Come se in una storia d’ amore arrivati al dunque, cioe’ finalmente il protagonista dopo mille peripezie finalmente unito con l’ amata , dopo il santo vincolo del matrimonio, nella prima notte di nozze, l’ innamorato invece di agire cominciasse a chiedere all’ amata , di’ buona moglie, fatti manifesta, amore che e’ .
Come minimo la moglie resterebbe un po’ delusa se la notte passasse in disquisizioni e definizioni , piuttosto che in atti.
Io trovo che il gusto medioevale della ragione, del ragionamento superi qui un poco la poesia o almeno che sia . Forse siamo diversi dalla mentalita’ di Dante , , poiche’ Non possiamo non dirci romantici.
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leonardolugaresi ha detto:
Purtroppo. Ma la Commedia, appunto, ci serve anche da antidoto 🙂
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Vanni ha detto:
Comunque il post di Maria Cristina è divertente.
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Fiorenza ha detto:
Se sia vero che “gli esami ci vogliono” io non lo so .
Ho detto di condividere tutto quello che degli esami hai detto perché altra soluzione in questo mondo non c’è, o non siamo stati capaci di trovarla, ma, “in cuor mio”, gli esami li abolirei tutti quanti. La mia speranza (la mia idea non condivisibile ma a nessuno chiederei mai di condividerla) è sempre stata questa: esami e scuola finiranno, finalmente, con questa vita, a meno che non veniamo condannati all’inferno. Già era stato un brutto colpo, per me, il titolo che avevi scelto per il libro sul Purgatorio, che nominava sia la scuola che gli esami, ma non ero mica obbligata a condividerla, quella scelta. Erano fatti tuoi e basta. Ora però è impossibile considerare “fatti tuoi” le tue idee di un cielo con gli esami e la prospettiva mi pare quella di non poter continuare a interpretare questi tre canti del Paradiso solo come opera di Poesia, cioè che non si tratti più di stare alla scuola di un poeta (cosa che ho sempre fatto da quando ho imparato a leggere) ma di dover fare un atto di Fede come se stessimo leggendo la Bibbia. Questo mi crea un problema di coscienza. Tutto qui. Era questo “il punto”.
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leonardolugaresi ha detto:
Grazie, ora credo di aver capito e provo a chiarire: non pretendo che la Commedia sia una sorta di quinto vangelo (o addirittura di supervangelo) a cui si debba prestare ubbidienza di fede come parola di Dio. È un’opera umana, e in quanto tale fallibile e discutibile benché nel suo caso sostanziata di un eccezionale grado di immedesimazione dell’autore nel mistero della rivelazione divina. Penso però che sul piano della convenzione letteraria, cioè del patto che si stabilisce tra autore e lettore, per farne una lettura davvero proficua si dovrebbe concedere a Dante un credito “incondizionato”, cioè provare a prendere sul serio (= a prender per buone) le sue idee, anche quando (soprattutto quando) sono distanti dalle nostre. “Fare come se avesse ragione lui”, e vedere cosa succede dentro di noi.
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Fiorenza ha detto:
Si, questo è giusto. E potrei anche provare a “fare come se” io fossi in grado di farlo.
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IMMATURO IRRESPONSABILE ha detto:
Cedo, doverosamente la parola al maestro di Sebenico: 《 […] s.Pietro lo cinge della sua luce; non per dargli missione d’ apostolo, di messia, di Maometto novelĺo [ ! ] ( cosa da Dante condannata più volte ), ma a coronare la schietta fede di lui. E se uomini quali Dante, Tommaso, Agostino, credono i misteri cristiani, bello è stare con loro, e avere contro sè que’ chiarissimi che sappiamo. 》, “…che sappiamo” ?
P.s. sottovoce, e chiedendo licenza, formulo l’ ipotesi che ” romanticismo” sia inteso un po’ differentemente da Maria Cristina e dal professore.
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Fiorenza ha detto:
“Persino il più gran santo è
trasportato come un fuscello dalla formica della fede.”
(Jan Twardowski)
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Fiorenza ha detto:
Ancora su “fede che è”. Ancora un mio piccolo dono: anche questo da parte di Jan Twardowski. Mi viene da leggere lui, ora che si parla di fede: non per contrapporlo a Dante o perché io lo preferisca a lui. Li amo e li preferisco entrambi e, specialmente se il tema è la fede, ho bisogno di tutti e due, che sembrano l’uno l’opposto dell’altro. Ci sono molte dimore.
Allora, la poesia-dono di oggi è questa:
“Perché”
Non perché sei risorto dal sepolcro
non perché sei asceso al cielo
ma perché Ti hanno fatto lo sgambetto
Ti hanno spogliato nudo
perché in croce hai ripiegato il collo come un airone
perché sei morto come un Dio che non assomiglia a un Dio
senza medicine e panno molle sulla testa
perché i Tuoi occhi erano più grandi della guerra
come quelli dei caduti in trincea con il nontiscordardimé –
perché sporco di lacrime Ti alzo
sempre durante la Messa
come un agnello al quale tirano le orecchie.
(Jan Twardowski. Che diceva di non essere e di non voler essere un poeta ma solo un prete che scrive versi.)
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Vanni ha detto:
Un controdono: Padre Jan sulla panchina
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Fiorenza ha detto:
Chissà come faceva Vanni a sapere che mi piacciono le panchine.
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Fiorenza ha detto:
“credere vuol dire non chiedere nemmeno
per quanto ancora dobbiamo ancora andare al buio”
(Jan Twardowski)
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Fiorenza ha detto:
Mi ricordavo che a Leonardo l’ “Ode allo sconforto” era molto piaciuta, perciò ho lasciato che JanTwardowski ritornasse a sedersi un po’ qui sulla sua panchina, senza nemmeno chiedere il permesso.
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