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Il bellissimo “Padre Nostro pregato” di Dante prosegue, dopo l’iniziale contemplazione di Dio che sta nel cielo, sempre sulla stessa falsariga di una dizione poetica che è pura meditazione del testo evangelico e va dentro, non oltre la lettera del testo sacro.
Santificetur nomen tuum fiorisce in «laudato sia ‘l tuo nome e ‘l tuo valore / da ogne creatura, com’è degno / di render grazie al tuo dolce vapore» (vv. 4-6), una terzina in cui il riconoscimento dell’impronta trinitaria nel volto del Padre (nome – valore – vapore, che richiamano il Figlio, il Padre stesso e lo Spirito Santo) apre alla gratitudine perché Egli si é rivelato a noi: «com’è degno / di render grazie al tuo dolce vapore». E come si è rivelato? Come un dolce soffio di vento che ci accarezza il volto: così è il dono dello Spirito.
Adveniat regnum tuum si dispiega in «Vegna ver’ noi la pace del tuo regno, / ché noi ad essa non potem da noi, / s’ella non vien con tutto nostro ingegno» (vv. 7-9). Pronunciata così, la seconda invocazione impressiona, sia per l’identificazione del regno con la pace, sia per la dichiarazione dell’impossibilità umana della pace stessa, da cui la lettura straordinariamente pregnante di quel “venga”, che significa: “venga lui” perché solo se “avviene” lui, il Regno che coincide con la persona di Cristo, come un dono inaspettato, come una cosa bella che capita senza alcun nostro merito, è possibile che venga. Altrimenti no.
Fiat voluntas tua sicut in caelo et in terra rivela, nella trascrizione dantesca, tutta la forza cogente del sacrificio che tale preghiera implica. L’affermazione della volontà di Dio, infatti, è il sacrificio di ogni altra volontà. Ma un sacrificio lieto, gioioso, che si compie e si esprime in un canto, il canto degli angeli. Ecco quindi un’altra cosa dell’altro mondo, una cosa celeste, che viene introdotta in questo mondo: «Come del suo voler li angeli tuoi / fan sacrificio a te, cantando osanna, / così facciano li uomini de’ suoi» (vv. 10-12).
Panem nostrum cotidianum da nobis hodie sarebbe, in realtà, la vera crux per i traduttori, perché nel testo greco dei vangeli lì c’è una parola, ἐπιούσιος, che, come ben sanno gli esperti, non è per nulla facile da intendere, anché perché si trova praticamente solo lì. Che vorrà mai dire epiousios, che letteralmente dovrebbe valere “soprasostanziale”? Il latino se l’è cavata (anche brillantemente, a modo suo) con cotidianus, che poi è pianamente transitato nel nostro “pane quotidiano”, una forma concreta come una pagnotta, che il buon popolo di Dio ha sempre applicato, senza incertezze e senza farsi troppi problemi, essenzialmente al carboidrato fondamentale della sua povera dieta, la cui “quotidianità” era troppo spesso minacciata dalla miseria e dalle carestie. Ora, la fame va rispettata, sempre e comunque, perché è cosa troppo seria perché chi è a pancia piena possa permettersi di darle lezioni, quindi quell’esegesi popolare dev’essere accolta e benedetta. Bene hanno fatto dunque i vescovi a non darsi pensiero di cambiare la formula in uso. Continuiamo pure a chiedere a Dio di darci il “pane quotidiano”, però ricordiamoci anche che il Padreterno, sfrattando i progenitori dal giardino dell’Eden, non garantì loro alcun “reddito di cittadinanza”, anzi li avvertì che da quel momento in poi si sarebbero dovuti procurare il pane con il sudore della fronte. Se la società è così ingiusta e malfatta che tanti non hanno lavoro e non hanno reddito, la colpa è solo nostra e la responsabilità di rimediare pure. Dante, senza toccare quell’aggettivo tanto caro al buon popolo di Dio (che deve mangiare “tutti i giorni”), lavora sul sostantivo, traducendo panem con manna, e apre così genialmente la porta all’interpretazione spirituale del passo (quella che gli esperti raccomanderebbero), ma lo fa in modo tanto piano e semplice che tutti possano capire: «Dà oggi a noi la cotidiana manna, / sanza la qual per questo aspro diserto / di retro va chi più di gir s’affanna» (vv. 13-15). Che è tra l’altro la ripresa puntuale del concetto già espresso alla fine del canto precedente: «O superbi cristian, miseri lassi, / che, della vista de la mente infermi, / fidanza avete ne’ retrosi passi» (X, vv. 121-123). Senza quel pane lì, nella vita si crede di andare avanti, invece si va indietro.
Dimitte nobis debita nostra sicut et nos dimittimus debitoribus nostris viene chiosato con una finissima spiegazione di che cosa siano i crediti e i debiti di cui si parla, in modo da sottrarre la nostra lettura al rischio di un’interpretazione da bottegai o ad una contabilità da ragionieri (con tutto il rispetto per entrambe le categorie). Dice semplicemente: «E come noi lo mal ch’avem sofferto / perdoniamo a ciascun, e tu perdona / benigno, e non guardar lo nostro merto» (vv. 15-18). Quando pensiamo ai nostri presunti crediti, noi tendiamo a considerare in primo luogo il bene che abbiamo fatto (o che presumiamo di aver fatto), ma quel bene, di solito, è condito di tanto amor proprio e soddisfazione di sé che il suo credito forse ce lo siamo già riscosso. Forse, in quel computo del dare e dell’avere, valgono di più le sofferenze che ingiustamente patiamo, lo «mal ch’avem sofferto». Mi ricordo che una volta, quando ci si andava a confessare, il sacerdote al momento dell’assoluzione recitava una preghiera che diceva, mi pare: «Passio Domini nostri Jesu Christi, merita beatæ Mariæ Virginis, et omnium sanctorum, quidquid boni feceris, et mali sustinueris, sint tibi in remissionem peccatorum, augmentum gratiæ, et præmium vitæ æternæ». Formula perfetta, in cui le nostre eventuali “buone opere” sono sì annoverate, ma al loro posto (che non è il più importante), un tassello tra gli altri di un’opera fondata sulla passio Domini nostri Iesu Christi.
Infine ecco l’espressione che tanto ha angustiato i nostri vescovi da indurli a cambiare la carrozzeria del Padre Nostro (il motore speriamo resti sempre quello!). Et ne nos inducas in tentationem sed libera nos a malo era stato letteralmente reso in italiano con quel “non ci indurre in tentazione ma liberaci dal male”, che io continuo tranquillamente ad usare nella recita privata dell’oratio dominica, ma che a quanto pare non si poteva più sentire in chiesa. La soluzione che i nostri pastori hanno adottato è, a mio avviso, peggiore da tutti i punti di vista (come mi pare che tutti gli esperti abbiano fatto notare nei mesi passati, con argomenti che non è qui il caso di ripetere). Chissà, magari se fossero stati più familiari con la lettura della Commedia forse sarebbero stati aiutati, nella loro scelta, proprio dalla limpida esegesi dantesca, che sgombra ogni equivoco: «Nostra virtù che di legger s’adona, / non spermentar con l’antico avversaro, / ma libera da lui che sì la sprona» (vv. 19-21). È come dire: “Signore, nostro Dio, tu certo puoi metterci alla prova, e in effetti spesso lo fai, e noi crediamo che lo fai per il nostro bene … però lo vedi come siamo: «nostra virtù di legger s’adona», lo sai che resistiamo ben poco contro l’antico avversaro … allora ti preghiamo: «non metterci alla prova»”. Cosa può esserci di più semplice di così, di più aderente al testo greco, di più espressivo di un sentimento filiale verso il Padre?
Paolo VI nel 1965, il giorno prima della chiusura del concilio Vaticano II, pubblicò una lettera apostolica, Altissimi Cantus, dedicata all’illustrazione del magistero teologico di Dante, un testo di grande spessore che bisognerà tornare a leggere e meditare, e donò una copia della Divina Commedia a ciascun padre conciliare. Così facendo, quel papa coltissimo diede a tutta la chiesa un’indicazione preziosa. Caduta nel vuoto, come tante altre, temo. Nel tempo incolto in cui viviamo, sarebbe il caso che qualcuno la riprendesse.
Fiorenza ha detto:
“Dimitte nobis debita nostra sicut et nos dimittimus debitoribus nostris”.
I “debita nostra”, “le sofferenze che ingiustamente patiamo”: «lo mal ch’avem sofferto»: perdonare queste cose è possibile. Così, questa richiesta che anche il Padre, allo stesso modo, perdoni noi, io l’ho sempre ripetuta con un senso di pace, una pace confidente, fiduciosa. C’è una domanda, però, che da tempo mi assilla ed è questa: e le sofferenze che ingiustamente soffrono gli altri? In quanto ci diventano note, ci raggiungono, ci feriscono, ci coinvolgono (mali che ci fanno atrocemente soffrire) rientrano anch’esse tra i “debita nostra”? Perché, ecco, quelle, in certi casi, io non le posso perdonare In quali casi? Quelli in cui non c’è verso di poter dire, di coloro che di tanta sofferenza inflitta sono la causa: “non sanno quello che fanno”. E a me pare che questi casi siano sempre più frequenti. Un esempio? Uno piccolo (!), recente: di due o tre giorni fa. Visto a un telegiornale della Toscana. Un filmato, terribile, girato di nascosto in un carcere. Un giovane prigioniero prelevato da una cella da 15 guardie carcerarie che si muovono all’unisono per compiere su di lui, sotto gli occhi di tutti gli altri carcerati immobili dietro le barre, nell’assoluto silenzio, qualcosa di spietato, di premeditato, lente, fredde, implacabili, come gelide macchine, con la stessa precisione di marchingegni telecomandati e che….
Basta..
Il mio pensiero, poi, è stato questo: una cosa simile, nemmeno nell’inferno di Dante.
E quella sofferenza vista patire da un altro, che è come se l’avessi patita io (anzi, peggio) e che non mi lascia, io non riesco in alcun modo a perdonarla. Come posso, dunque, addirittura modificare, a mio vantaggio, la preghiera e chiedere al Padre, “Tu (però) perdonami”?
Che fare?
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leonardolugaresi ha detto:
Non so rispondere. Don Dolindo Ruotolo consigliava, quando le cose sono troppo complicate per le nostre forze, di chiudere gli occhi e dire semplicemente, ma con tutta la forza possibile, “Gesù, pensaci tu”.
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Fiorenza ha detto:
Ah, Don Dolindo… Ecco di che cosa avevo bisogno…Proprio ora… E non lo sapevo.
Che Dio ti benedica.
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Maria Cristina ha detto:
“ Nostra virtù che di legger s’adona, / non spermentar con l’antico avversaro, / ma libera da lui che sì la sprona» (vv. 19-21).
pare di ravvisare qui cio’ che e’ descritto nel libro di Giobbe: nel caso di quel giusto, Dio in effetti permise che l’ Antico Avversario sperimentasse, cioe’ mettesse alla prova, la virtu ‘ e la fede di Giobbe.Certo i discepoli ’ di Gesu’ , da pii ebrei conoscevano l’ antico testo e forse si potrebbe dire che nella preghiera insegnata ai discepoli Gesu’ nel “ non ci indurre in tentazione” allude a questa storia biblica cosi’ paradigmatica e per noi uomini difficile da capire. I discepoli di Gesu’ probabilmente capivano al volo tutti i rimandi alle Antiche Scritture contenuti nella predicazione di Gesu’ . E ai tempi di Dante ancora era cosi’. Noi cristiani moderni invece ci avviamo piuttosto verso un marcionismo , dovuto piu’ che altro all’ ignoranza, sia cambiando le parole del Padre Nostro ( dimenticando Giobbe indotto letteralmente in tentazione) sia proclamando che Dio non castiga mai ( il diluvio, Sodoma e Gomorra, le piaghe d’ Egitto dimenticati?rimossi?). sia fraintendendo spesso il,Nuovo Testamento nei rapporti con là Torah ( eppure Gesu’ ha proclamato che neppure uno iota dell’ Antica Scrittura Lui era venuto a cambiare)
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Fiorenza ha detto:
Sul “Non ci indurre in tentazione”, Maria Cristina, oltre alle sacrosante cose che hai scritto, c’è anche le lezione impeccabile di san Francesco (oh “se i vescovi leggessero” san Francesco, invece che Francesco e basta…). Il mio amato (il più amato tra i miei santi) non ci spende neanche una parola, nel suo Commento al Pater Noster, su quel “non ci indurre”, tanto quella espressione era per lui già perfetta (completa in se stessa, perfettamente adeguata, perfettamente chiara, perfettamente inequivocabile). E per questo egli va, secondo me, ben oltre la “limpida esegesi dantesca, che sgombra ogni equivoco”: non fa nessuna esegesi, il piccolo grandissimo santo, perché secondo lui non ce n’è alcun bisogno. Si limita ad aggiungere alcuni aggettivi alla parola “tentazione”. Solo per far capire che Gesù intendeva “ogni” tipo di tentazione, “nascosta o manifesta, improvvisa o insistente”: tutto qui. Così suona l’originale: “Et ne nos inducas in tentationem, occultam vel mnifestam, subitam vel importunam.” Punto e stop.
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Fiorenza ha detto:
“Che fare?” mi chiedevo. Era una citazione da un verso di Osip Mandel’stam, il più grande poeta e anche il più grande dantista del nostro tempo terribile.
Intanto, il video straziante a cui avevo accennato, quello con il pestaggio in un carcere, 15 contro 1, video che era misteriosamente ricomparso due o tre giorni fa e per intero, dopo più di due anni da quando il fatto era avvenuto, è di nuovo sparito.
“Mi sono perso nel cielo – che fare?
Chi lo ha vicino risponda!” (Osip Mandel’stam)
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Fiorenza ha detto:
Questa, pregata dai superbi, è l’unica delle tante preghiere liturgiche che sentiamo risuonare nel Purgatorio dantesco che non sia detta in latino. Perché? Perché una tale eccezione, una simile anomalia? Perché non è affatto un’anomalia: Dante, nella sua lunga, e intensa, frequentazione dei francescani per tutto il corso della sua vita, chissà quante volte avrà udito recitare l’Ufficio Divino dai frati ma, anche, quell’Ufficio particolare che san Francesco aveva previsto per i frati non chierici, per i piccoli frati illetterati. Lo dice chiaro, il santo, nel suo Testamento: “Officium dicebamus clerici secundum alios clericos, laici dicebant: Pater Noster”. E questa doveva essere una prassi liturgica ormai consolidata e a tutti ben nota: i frati erano ormai migliaia, una presenza consueta in ogni cappella di ogni più sperduto villaggio, in ogni strada, in ogni sentiero, e a tutti era familiare non solo il loro rozzo saio ma anche quel loro devotissimo ripetere, innumerevoli volte, alle ore canoniche ma anche “sempre”, il Padre nostro in volgare. Che tu, Leonardo, non abbia voluto fare alcun cenno alle indirette, non esplicite ma evidentissime testimonianze che Dante ci dà del suo “debito” nei confronti di san Francesco, io non me lo so spiegare. Eppure, così felice è la sua scelta di ricordare, e di farci venire in mente, il più umile degli uomini qui: proprio qui, dove fa pregare i superbi. Davvero non ti capisco, prof.
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leonardolugaresi ha detto:
La spiegazione è nella mia ignoranza. Conosco pochissimo san Francesco. Qualcosa ne imparo da quello che qui ne scrivi.
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Fiorenza ha detto:
E sul “Panem nostrum quotidianum”, San Francesco che aveva detto mai? Aveva detto la cosa più divinamente semplice, quella più aderente al Vangelo: “Panem nostrum quotidianum: dilectum Filium tuum, Dominum nostrum Jesum Christum, da nobis hodie”.
Macché manna e manna: Jesus, panis vitae eucharisticus, è il vero pane, il pane “soprasostanziale”. “Ego sum panis vivus. Patres vestri manducaverunt manna in deserto et mortui sunt” (Gv. 6, 48-49).
E a Dante, dunque, qui, che gli ha preso? perché non segue più la traccia che san Francesco gli ha pur dato? Io non lo so. L’unica spiegazione (una pseudo spiegazione un po’ campata in aria, una “bischerata”, direbbe Vanni ) che mi viene in mente è che egli forse, chissà, non si azzardi a mettere in bocca ai suoi peccatori parole come quelle che, nella loro cristallina trasparenza, dovevano essere, per i superbi non ancora purificati, del tutto incomprensibili, anzi impronunciabili, e che se la cavi dunque così, “traducendo panem con manna”: espressione che, in realtà, in bocca a dei superbi ci sta proprio bene.
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Fiorenza ha detto:
E’ arrivato!!! E’ arrivato il tuo libro, Leonardo! Proprio ora, mentre stavo rileggendo questa pagina! Come per farsi perdonare la lunga attesa che ho dovuto sopportare, Amazon me l’ha spedito subito appena l’ha avuto “disponibile”, e me l’ha consegnato ora, di domenica!!! cosa mai accaduta prima…E’ bellissimo, questo volume che sto sfogliando emozionata, e anche della misura giusta per poter stare nel mio zaino e accompagnarmi dappertutto. Ora non mi resta che aspettare che, entro l’anno, escano anche Purgatorio e Paradiso (speriamo)… Che bello. Ammetto che, specialmente in certi momenti di buio, mi è stato di conforto essere qui, in compagnia della “comitiva dantesca”, ma non c’è niente, niente, di paragonabile al ben più reale conforto di poter aprire un libro e, in silenzio, in solitudine, leggerlo, leggerlo tutto.
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