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Dopo la malinconia del «giorno […] che si more» e dopo la dolcezza della compieta in gregoriano, l’appello al lettore, che interviene come sempre a richiamare la nostra attenzione su un punto cruciale del percorso, ha un carattere singolare perché ci mette in guardia non verso la difficoltà del passo ma proprio nei confronti della sua facilità: «Aguzza qui, lettor, ben gli occhi al vero, / che ‘l velo è ora ben tanto leggero, certo che ‘l trapassar dentro è leggero» (vv. 19-21). Sembra esserci qualcosa di incongruo in questo avvertimento, poiché di solito si ammonisce il lettore ad aguzzare la vista quando la lettera del testo è oscura o problematica, sì da richiedere un’interpretazione allegorica che ne sveli il senso spirituale, e più il velo della lettera è spesso, maggiore dovrà essere lo sforzo dell’intelligenza per oltrepassarlo. Qui, invece, Dante dice esattamente il contrario: “sta molto attento, lettore, perché il velo è così sottile che è facilissimo trapassarlo senza scorgere il vero che avvolge” (si noti il gioco della paronomasia che riecheggia elegantemente sul piano del significante ciò che le parole dicono con il loro significato). In altri termini: il segno è così semplice e chiaro che si rischia di non percepirlo come tale.

Com’è possibile? Le parole di Dante sono sembrate strane a molti interpreti, ma in realtà non è difficile capirne e condividerne il senso. Se abbiamo degustato i versi precedenti solo sentimentalmente o esteticamente (malinconia della sera e magia del gregoriano), abbiamo compiuto esattamente lo stesso errore che ora ci sta dicendo di non commettere. In un testo, come nella vita, ci sono dei passaggi così difficili, problematici o addirittura scandalosi che necessitano di essere compresi “allegoricamente”, cioè con il richiamo ad un senso spirituale che ne trascende la “lettera” altrimenti inaccettabile. La loro stessa apparente mancanza di senso ci obbliga, prendendoci per il collo e quasi soffocandoci, a cercarne uno, a volte disperatamente. E ve ne sono altri che invece sono così “naturalmente belli”, così proporzionati a noi, corrispondenti alle nostre misure o aspettative che per nulla al mondo noi, di nostro, saremmo portati a imbarcarci nell’impresa di scoprirne il vero significato. La dolce malinconia della sera è se stessa, e basta. La bellezza di un canto basta a se stessa. E lo stesso si potrebbe dire – anzi, effettivamente pensiamo e diciamo – di tanti altri degli infiniti segni di cui è pieno il mondo. «L’uomo nella prosperità non comprende», commenta amaramente il salmo, e ciò vale non solo con riferimento all’orgoglio del ricco ma anche e soprattutto alla torpida scontatezza con cui quasi tutti prendiamo la normalità della vita.

Il paradosso di un velo così leggero da occultare, proprio con la sua trasparenza, il vero che contiene riguarda anche la liturgia e questo a me pare il senso profondo dell’avvertimento di Dante, volto a prepararci al rito che sta per compiersi nella valletta dei prìncipi. «Io vidi», dice il poeta, perché quello che sta raccontando è un fatto a cui ha assistito. Il fatto consiste innanzitutto in un’attesa, reale, che si percepisce nelle persone: «Io vidi quello essercito gentile / tacito poscia riguardare in sùe, / quasi aspettando, palido e umìle» (vv. 22-24). Si noti che la consistenza del gesto risiede tutta nell’intensità spirituale con cui le anime lo vivono: è un’azione (liturgica, come tra poco sarà evidente) non perché i suoi esecutori compiano movimenti o proferiscano parole, ma per il modo in cui stanno in attesa: i tre aggettivi («tacito», «palido e umìle») lo qualificano esaurientemente. A questo punto succede qualcosa: «e vidi uscir de l’alto e scender giùe / due angeli con due spade affocate, / tronche e private de le punte sue» (vv. 25-27). Il movimento, cioè l’azione nel senso esterno, percepibile dai sensi, è tutto di Dio, per il tramite dei suoi ministri. Opus Dei, come appunto la liturgia è, nella sua essenza. I due angeli – che Dante, per quanto può, ci descrive (vv. 28-36) – si pongono a guardia della valletta, «per lo serpente che verrà vie via» (v. 39), come veniamo a sapere dal solerte Sordello. Intuiamo così che quello che si sta svolgendo sotto i nostri occhi è un rito che si ripete, sempre uguale ogni sera.

Questo è un punto cruciale e delicato: come può un rito che si ripete sempre uguale, di cui sappiamo già in anticipo, ancor prima di compierlo, come si realizzerà e come andrà a finire, costituire per noi un evento, un fatto della vita reale, gravido di responsabilità e di conseguenze? Non si apparenta piuttosto al gioco, pur ad un diverso grado di impegno, per la caratteristica determinante della ripetibilità, per non dire della serialità? «Quidquid iterum fit, lusus est»: Tutto ciò che si ripete è un gioco. La folgorante, profondissima intuizione di Agostino fissa in modo decisivo la discriminante tra la serietà della vita, che è fatta di eventi unici, irripetibili e irrevocabili, e la dimensione ludica che sempre avvolge (anche con la sua grazia) tutto ciò che invece può darsi molteplici, se non infinite volte, a nostro piacere.

A quale ordine appartiene la liturgia: a quello dell’evento o a quello della rappresentazione, cioè in ultima analisi del “gioco” (nel senso che spero di aver chiarito sopra)? Questa è la vera questione. Questo dobbiamo comprendere, prima di ogni altra cosa. L’orario della messa di Natale viene dopo.