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La semantica dell’amore compare tardi nel canto V, e di soppiatto, al v.61, con un aggettivo usato in funzione avverbiale: «L’altra è colei che s’ancise amorosa». Tutti i commentatori, ovviamente, spiegano: “si uccise per amore”, ma così facendo sciolgono l’ossimoro disturbante che la giuntura dantesca invece mette avanti. Provate a sostituire il verbo con uno più consono e sentite subito, per contrasto, quant’è stridente l’espressione scelta dal poeta: [la mamma] assiste amorosa [il figlio malato]; [la giovane moglie] guarda amorosa [il ritratto del marito lontano]; [la donna tradita] si uccide amorosa

Attenzione: non è il tema “romantico” di Amore e Morte. Questo canto è il più anti-romantico che si possa immaginare e una sua lettura “sentimentale” è possibile solo a lettori molto distratti e inconsapevoli delle trappole che contiene.

Prima del verso 61, di amore non si era parlato affatto. Tutto era pianto rabbioso, disperazione e lussuria. Una volta entrato, però, l’amore non se ne va più: nei nove versi dal 61 al 69 compare tre volte, sempre in collegamento con la negazione di se stesso: «s’ancise amorosa»; «con amore … combatteo» (v.66); «amor di nostra vita dipartille» (v.69). Non quindi amore e morte, ma amore che fa morire.

Dopo il quasi-smarrimento del v. 72, Dante prende l’iniziativa («I’ cominciai») e osa fare una precisa richiesta a Virgilio: «volentieri / parlerei a quei due che ‘nsieme vanno» (v.74). Attenti, come ho detto questo canto è pieno di trappole. Qui per esempio è innegabile che ci sia qualcosa di unico, di eccezionale, che attira in modo irresistibile Dante con tutto il suo bisogno di capire il senso di ciò che gli viene mostrato (fa il viaggio per quello). Due vanno insieme.

Ma se veramente due vanno insieme, non sono più all’inferno. L’inferno non c’è. Tutti conoscono una frase famosa di Dostoevskij che nei Fratelli Karamazov definisce l’inferno come «la sofferenza di non poter amare»; forse potremmo dire l’impossibilità di amare. Se c’è amore non c’è inferno. Bene, questo è rigorosamente vero in tutto l’Inferno dantesco, dove l’amore è totalmente assente, con l’unica (e in senso proprio assurda) eccezione rappresentata proprio da Dante stesso, che scende agli inferi essendo ancora vivo, dunque non nell’impossibilità di amare. Il lettore non dimentichi mai questo criterio ermeneutico fondamentale: tutto ciò che di “umano” e persino di nobile e di grande incontrerà qui, nell’Inferno, è dovuto – direttamente o indirettamente – alla presenza di Dante, cioè di un uomo vivo, per quanto piccolo, debole e peccatore. Le grandezze di Francesca, di Farinata, di Brunetto, di Ulisse e di qualche altro sono tali solo in quanto si riverberano nell’animo di Dante.

Al quale Dante, «quei due che ‘nsieme vanno» «paion sì al vento esser leggieri» (v.75). Continua, anzi si accentua, l’ambiguità di cui sopra abbiamo notato i primi segni e che sarà la caratteristica dominante del canto. La leggerezza, a noi che siamo tutti calviniani (io no, veramente), sembra d’istinto una cosa bella, ma dipende: se tira un gran vento sarebbe molto meglio essere pesanti. Le cose si fanno ancora più complicate al v.78, quando è Virgilio stesso a certificare che lì ci sarebbe amore: «e tu allor li priega / per quello amor che i mena». Sagacissimo  il commento di don Giacomo Poletto, uno studioso ottocentesco di Dante – di cui confesso di non sapere niente ma che sospetto valga assai più di quello che i dantisti mainstream del suo tempo lo stimarono (forse perché era un prete), e che forse bisognerebbe andare a leggere– : «La bufera è qui identificata, senza residui, con quello amor che in vita travolse le due anime». Noi potremmo dire: è “un amore che mena” e in questo caso il fraintendimento del verbo coglierebbe nel segno.

Di qui in avanti, a prima vista è tutta dolcezza, tutto sentimento sublime, tutto gentil core, tutto Amore con l’A maiuscola. Se è lecito lo sberleffo: Love love love. There’s nothing you can do that can’t be done. Nothing you can sing that can’t be sung. All you need is love.

A prima vista. Cioè alla vista dei tanti, troppi lettori (anche critici e poeti laureati) che si fermano alla prima vista. Alla superficie di un testo genialmente intriso di quello stesso veleno letterario di cui si propone di essere l’antidoto. Perché questa mi pare sia l’impresa prodigiosa riuscita a Dante: dar vita alla più grande espressione di quella stessa cultura di cui decreta la condanna a morte.

Di qui il doppio registro. «Quali colombe dal disio chiamate …»: come non inumidirsi di commozione? ma subito dopo ci avverte che «cotali uscir de la schiera ov’è Dido» (v.85). E sappiamo che razza di gente sia. «O animal grazïoso e benigno»: quanta dolce signorilità di tratto in questa apostrofe! Ma subito dopo: «noi che tignemmo il mondo di sanguigno». Un’iperbole espressionistica, con la quale – nota finemente Anna Maria Chiavacci Leonardi – «s’intona sul suo vero registro quella storia che pare così piena di dolcezza».

A questo punto ci imbattiamo in una preghiera:«Se fosse amico il re dell’universo, / noi pregheremmo lui de la tua pace». Qui davvero non bisogna perdere l’orientamento perché è facilissimo smarrirsi. Ok, che sia un periodo ipotetico del terzo tipo lo vede chiunque: Francesca non prega perché Dio non è amico, ma pregherebbe se lo fosse. Ma qualunque lettore è in grado, specialmente al giorno d’oggi che siamo tutti per la misericordia, di fare il passo successivo: “sì, ma questa è la preghiera del pubblicano, la più gradita al Signore! Dio, io non ti posso pregare perché ho rotto l’amicizia con te, ma se potessi ti pregherei”. Se dico così, di fatto ti prego, e Gesù ci ha insegnato che questa preghiera vale eccome, anzi vale più di tutte le altre. Eccoci in trappola: se c’è preghiera non c’è inferno. Perché se c’è preghiera c’è relazione, e in definitiva c’è amore. Se all’inferno la sofferenza di non poter pregare vale come preghiera, se cioè la sofferenza di non poter amare vale come amore, l’inferno non c’è. O meglio, diabolicamente, l’inferno è [come] il paradiso.

Di qui la necessità di richiamare il principio ermeneutico enunciato sopra. La quasi-preghiera di Francesca, che per lei è assolutamente una non-preghiera, fiorisce solo per la presenza «affettuosa» di Dante, l’unico uomovivo lì presente, l’unico che può pregare. Del resto la terzina dantesca lo dichiara esplicitamente, con un nesso causale che non mi pare sia solitamente rilevato con sufficiente chiarezza dai commentatori: «noi pregheremmo lui de la tua pace, / poi ch’hai pietà del nostro mal perverso» [vv. 92-93].

[domani e lunedì sono fuori sede. Finiamo martedì]