Leggo su Asia News che domenica scorsa «a conclusione della messa domenicale, p. Inayat Bernard, rettore della cattedrale del Sacro Cuore di Lahore, ha lanciato un appello: “Non commentate o mettete ‘mi piace’ o condividete nessun post sulle altre religioni. Abbiamo appena sofferto un doloroso tormento. Non lasciatevi coinvolgere in discussioni sulla religione al lavoro o con i vostri amici. Rispettate gli altri, promuovete la pace e l’armonia. Abbiate un ruolo positivo e rimanete saldi nella vostra fede”».
Sono parole sensate e ragionevoli, perché dette con cognizione di causa da un pastore giustamente sollecito dell’incolumità del suo gregge, in un paese come il Pakistan dove i cristiani li ammazzano, se si fanno notare un po’ troppo. Però mi mettono addosso un’infinita tristezza, e un senso amaro di inaccettabile ingiustizia. “Tenete gli occhi bassi e camminate rasente ai muri”: questo è in sostanza il messaggio, ed è molto simile alla sola cosa che potevano fare gli ebrei davanti alle SS nei ghetti dell’Europa di 75 anni fa.
Ora, è giusto, prudente e persino doveroso comportarsi così, quando è a rischio la vita (non solo la propria ma anche e soprattutto quella degli altri: congiunti, amici, correligionari). Il cristianesimo cattolico, cioè quello sano ed equilibrato, ha sempre professato che il martirio non va cercato, e neppure indirettamente provocato, ma accettato come un dono, una grazia terribile che solo Dio può, nel mistero della sua volontà, elargire a chi vuole, accordandogli nel contempo la forza soprannaturale per sostenere la prova. Noi, per parte nostra, siamo invitati a pregare ogni giorno il Padre di «non indurci in tentazione», cioè di «non metterci alla prova».
In uno dei più bei testi della letteratura martiriale protocristiana, il Martirio di Policarpo – vescovo di Smirne ucciso intorno alla metà del II secolo, la cui vicenda è dettagliatamente narrata in una lettera composta dalla sua chiesa poco dopo la sua morte – si trova ad un certo punto questo significativo dettaglio: assieme a Policarpo erano stati catturati altri cristiani, tra questi «uno di nome Quinto, frigio e dalla Frigia venuto di recente, alla vista delle belve s’intimorì. Era stato lui stesso a trascinare sé ed altri all’autodenuncia spontanea. Eppure il proconsole, molto incalzandolo, lo persuase a giurare e a sacrificare. È perciò, fratelli, che non lodiamo quanti si consegnano di propria iniziativa: non è questo che insegna il Vangelo» [Martyrium Policarpi 4]. L’insistenza del testo sull’origine frigia di quel tale ha fatto pensare agli studiosi che qui vi sia uno spunto di polemica antimontanista. Erano infatti i montanisti, aderenti ad una corrente cristiana originaria appunto della Frigia, a esaltare e promuovere la ricerca del martirio. La chiesa, nel suo insieme, non ha mai sposato questa linea di condotta.
Noi, però, nell’Europa del 2018 non rischiamo di essere ammazzati se ci comportiamo da cristiani. Non ancora, perlomeno. Da noi non è pericoloso andare a messa come in Egitto (anche se il martirio “eucaristico” di padre Hamel può essere un monito per le future generazioni); qui non si rischia la vita professandosi cristiani nella vita pubblica, prendendo posizioni controcorrente, giudicando alla luce del Vangelo la realtà del mondo in cui ci è dato di vivere. Si rischiano altre cose: la stima in certi ambienti, la popolarità, in certi casi la carriera, eccetera. Beghe, fastidi anche grossi. Ma non la vita.
Vale dunque anche per noi l’appello a “tenere gli occhi bassi e camminare rasente ai muri”? Nessuno lo dice esplicitamente, ma tante volte si ha l’impressione che di fatto sia così. Ci autocensuriamo e come, perché “parlare sarebbe peggio”, perché “non bisogna creare contrasti”, perché “andare d’accordo con tutti serve a creare un ambiente favorevole al messaggio cristiano”, e per tanti altri motivi. Le ragioni addotte sono molte, ma intanto il sale ha perso il sapore.