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Tra le tante idolatrie del mondo, una delle più miserabili e sciocche è il culto della furbizia. Universalmente praticato, esso viene da sempre officiato con particolare zelo qui da noi in Italia, dove “il furbo” è il vero eroe nazionale. Inclini per ogni altro aspetto all’autodenigrazione, anzi masochisticamente bramosi di umiliarci dichiarando la nostra inferiorità rispetto al resto del mondo in tutti gli altri campi (basti pensare alla nostra locuzione “fare le cose all’italiana”, il cui corrispettivo non è neppure pensabile nelle lingue di altri popoli), noi italiani solo su questo punto non siamo disposti a cedere ad alcuno il nostro «primato morale e civile»: furbi come noi, non ce n’è. Che poi questa fama di furbi – o di “machiavellici” come ci piace ancor più pensare – sia partecipata anche all’estero, è cosa che ci fa inorgoglire. Quanto ci sia di astuto in tale sentimento collettivo può facilmente vederlo chiunque ponga mente al fatto che, per fare davvero i furbi bisogna innanzitutto non parerlo affatto: compiacersi di averne la fama è da sciocchi. La prima mossa per praticare seriamente il machiavellismo – ammesso che farlo sia davvero conveniente (il che è falso, come tra un momento vedremo) – è quella di professare la più viva ripulsa della sua immoralità. Uno come Federico II re di Prussia, tanto per dire, che quanto a spregiudicatezza politica non si faceva mancare niente, nel 1739 dedicò un’operetta filosofica, intitolata Anti-Machiavel, a tale ipocrita esercizio. Cominciamo così a intravedere il tema dantesco di oggi: l’intima connessione tra coglioneria e furbizia.
Dante dedica la seconda parte del canto XXVII alla demolizione del mito della furbizia o, se preferite, alla rimozione chirurgica di questo bubbone maligno dal corpo della nazione. Opera di cui gli dovremmo essere grati, se lo avessimo ascoltato. L’intervento viene eseguito con la tecnica della distruzione morale di un campione di quell’arte: Guido da Montefeltro, che alla fine del XIII secolo era qualcuno («il più sagace e il più sottile uomo di guerra che a quei tempi fosse in Italia» lo definisce il Villani) ma che oggi – se non fosse per il nostro poeta – sarebbe noto solo ai medievisti e importante solo per chi ci avesse scritto sopra un articolo o una tesi di laurea.
Avendo fornito a questo tale un ragguaglio coi fiocchi sulla situazione della Romagna, Dante personaggio gli chiede in contraccambio di dirgli nome e cognome («Ora chi se’, ti priego che ne conte; / non esser duro più ch’altri sia stato», vv.56-57: Guido non ha ancora quasi aperto bocca e già siamo immersi il suo linguaggio, quello del do ut des, di un mondo in cui ciascuno bada ai suoi interessi). Dopo aver «rugghiato / al modo suo» un bel po’, quando la lingua di fuoco si decide a parlare esordisce così: «S’i’ credesse che mia risposta fosse / a persona che mai tornasse al monto, / questa fiamma staria sanza più scosse; / ma però che già mai di questo fondo / non tornò vivo alcun, s’i’ odo il vero, / sanza tema d’infamia ti rispondo» (vv.61-66). Ah, le certezze di quelli che la sanno lunga! Inoppugnabili, “scientifiche”, asseverate da una logica di ferro, per cui: a) dall’inferno non esce nessuno; b) il mio interlocutore è all’inferno e dunque (c) costui non certo può tornare nel mondo dei vivi a raccontare i miei affari. Così ragiona Guido; con la stessa sicumera ragionano i sapienti di questo mondo, gli “esperti”, quelli che “fanno le previsioni” e dicono come il mondo andrà, anzi come deve andare perché i loro calcoli non sbagliano. Collezionisti impavidi di figure di merda.
Segue l’autobiografia del furbo, dapprima sintetizzata in due terzine (vv. 67-72) e di seguito analiticamente raccontata nel resto del canto (vv. 73-129): La sintesi è questa: uomo d’azione, poi frate, infine vittima di una fregatura da parte del papa (accidenti a lui!). Il racconto ci spiega che Guido era stato nella sua prima vita un uomo politico abilissimo negli intrighi più che nelle imprese belliche («l’opere mie / non furon leonine, ma di volpe»: un verso che deve aver acceso la fantasia di Machiavelli), e che dall’esercizio di tale sopraffina furbizia gli era derivata una fama tale «ch’al fine de la terra il suono uscie» (v.78). In questo momento la memoria non mi soccorre (oppure è proprio ignoranza) e non saprei dire se e dove Machiavelli parli di lui, ma è esattamente il tipo d’uomo per cui il segretario fiorentino si sdilinquisce e va in orgasmo. Uno come il suo Cesare Borgia, uno bravissimo a fregare tutti gli altri … e che però poi alla fine viene fregato a sua volta. Perché il “momento del coglione” viene per tutti, almeno una volta nella vita; non solo, ma quando viene ciò che in esso si manifesta non è un incidente di percorso ma lo svelamento di una coglioneria che era sempre stata latente; un’epifania di quell’intimo legame tra furbizia e fessaggine di cui sopra si diceva.
Guido poi racconta che, seguendo il suo ben congegnato programma di vita, una volta arrivato alle soglie della vecchiaia, si era dato alla vita religiosa: «Quando mi vidi giunto in quella parte / di mia etade ove ciascun dovrebbe / calar le vele e raccoglier le sarte» (vv.79-81). Impossibile qui non sentire l’eco di Ulisse! Certo, son modi opposti di intendere la vecchiaia e di organizzarsi la pensione. Qui Guido è davvero l’anti-Ulisse, ma noi saremmo quasi tentati di considerare più giudizioso lui di quel vecchio pazzo che invece di tornare a casa si era messo per l’alto mare aperto. Dopo aver fatto gli affari e i comodi suoi per tutta la vita, la decisione più accorta che Guido potesse prendere, tenuto conto di quanto presumibilmente gli restava da vivere, era di mettersi a posto con Dio: «ciò che pria mi piacea allor m’increbbe, / e pentuto e confesso mi rendei; / ahi miser lasso! e giovato sarebbe» (vv. 82-84). Si è dunque convertito? Noi, che siamo schizzinosi (con gli altri), avremmo qualche dubbio: più che un vero e radicale pentimento, il suo ci sembra un adeguamento del vecchio programma (fare sempre i propri interessi) alle mutate circostanze della vita. Avvicinandosi alla morte, la vecchia volpe della politica sistema i conti in sospeso con Dio. Il punto da notare bene, qui, è l’affermazione di Dante che quei conti, anche se fatti a quella maniera, sarebbero tornati. Dio non è schizzinoso, né fa la raccolta differenziata: prende anche tutti i rifiuti che gli uomini gli consegnano («la bontà infinita ha sì gran braccia / che prende quel che si rivolge a lei» si dirà in un luogo del Purgatorio che ha molto a che fare con questi ragionamenti). Accetta anche un “pentimento” che non sia il frutto di una contrizione perfetta, cioè del puro dolore per il male commesso in spregio all’amore divino, ma derivi soltanto da quella che i teologi morali una volta chiamavano attrizione, cioè un dolore provocato dalla paura del castigo divino; il che non sarà molto nobile ai nostri occhi, ma basta per guadagnare la salvezza, se accompagnato dalla confessione sacramentale. Come Guido ha diligentemente fatto: «pentuto e confesso mi rendei». Che gran furbacchione, commenterebbe ammirato il mondo a questo punto: ecco uno che prima ha fatto quel che gli pareva, poi, quando è stato il momento, ha fatto pace con Dio e si è guadagnato anche il paradiso, sia pure pagando il presumibile scotto di un bel po’ di purgatorio (per quanto, a forza di lucrare indulgenze, anche su questo avrà ottenuto i suoi bravi sconti).
Tutto filerebbe liscio, ma ci si mette di mezzo un papa. (Guarda te, che razza di storia ci viene a raccontare Dante: quella di un vecchio marpione della politica che si fa frate per salvarsi l’anima e di un papa politico e furbacchione che lo fa dannare riportandolo ai peccati della sua vecchia vita). Anche Bonifacio VIII è un uomo di potere e di guerra, e non contro gli infedeli ma contro altri cristiani («ché ciascun suo nemico era cristiano», v.88), e ha bisogno di un consiglio fraudolento per prendere la rocca di Palestrina. «E io tacetti / perché le sue parole parver ebbre» (vv. 98-99): che cosa può fare un religioso, tenuto all’obbedienza, di fronte ad un papa che straparla così scandalosamente? Quel silenzio, che è a suo modo un giudizio, e che rappresenta forse il momento di maggior dignità della vita di Guido, non scalfisce minimamente la sicurezza dell’altro: «Tuo cuor non sospetti; / finor t’assolvo, e tu m’insegna fare / sì come Prenestino a terra getti. // Lo ciel poss’io serrare e diserrare, / come tu sai; però son due le chiavi / che ‘l mio antecessor non ebbe care» (vv. 100-105). Quel fesso che era papa prima di me e si è dimesso!
Vinti gli scrupoli, calcolato mentalmente che continuare a tacere sarebbe stato peggio («la ‘ve ‘l tacer mi fu avviso ‘l peggio», v. 107), finalmente la volpe dà quel consiglio tanto prezioso e bramato: «lunga promessa con l’attender corto / ti farà trïunfar ne l’alto seggio» (vv. 110-111). E qui davvero ci cadono le braccia: è tutto qui il capolavoro di astuzia politica che solo il grande Guido da Montefeltro poteva consigliare? Sì è tutto qui. Capiamo allora un’altra cosa: che non ci vuole una grande intelligenza per essere furbi e che, molto spesso la furbizia che il mondo tanto esalta a questo si riduce, mentire.
Il testo non dice che cosa sia successo immediatamente dopo, e noi siamo liberi di pensare che fra Guido sia tornato in convento ai suoi esercizi di pietà e al suo metodico lavoro per guadagnarsi la salvezza: con una felicissima ellissi narrativa – che fa capire come il resto della sua esistenza non conti più nulla, poco o tanto che sia durata, poiché ormai se l’era giocata e aveva perso – siamo subito trasportati al post mortem. Ecco San Francesco che viene a prendere l’anima di quel suo fraticello per condurla in cielo, ma viene fermato da un diavolo: «Non portar, non mi far torto» (v. 114). Il diavolo che reclama i suoi diritti e chiede che non gli venga fatto un torto! Anche questa è bella. Con diligenza notarile il demonio spiega che Guido «venir se ne dee giù tra ‘ miei meschini / perché diede ‘l consiglio frodolente, / dal quale in qua stato li sono a’ crini; // ch’assolver non si può chi non si pente, / né pentere e volere insieme puossi / per la contradizion che nol consente» (vv. 115-120). C.S. Lewis deve essersi ispirato a questo anonimo funzionario dell’inferno dantesco, che ha nel suo “candore” qualcosa dello humour del suo Berlicche. Dio può permettersi di esser largo di manica nella sua contabilità, e forse se fosse solo per Lui in paradiso di straforo ci si entrerebbe più facilmente, ma il diavolo è un esattore preciso e implacabile. Quel che gli è dovuto vuole riscuoterlo, e per tutelare il suo credito sta sul collo dei debitori. Questo è forse il dettaglio più impressionante di tutta la storia: fra’ Guido tornato alla vita religiosa e convinto di condurla per il meglio e invece già fottuto a sua insaputa, col diavolo che gli alita sul collo.
La conclusione è fulminea e brutale come il risveglio da un brutto sogno. «Oh me dolente! Come mi riscossi / quando mi prese dicendomi: “Forse / tu non pensavi ch’io löico fossi!» (vv. 121-123). Che tradotto vuol dire: “sei un coglione, Guido da Montefeltro!”.
Post scriptum: nel cristianesimo, le colpe dei padri non ricadono sui figli. Con i Montefeltro per fortuna non abbiamo finito, perché nel Purgatorio ci attende il racconto della sorte ben diversa del figlio di Guido, Buonconte.
Maria Cristina ha detto:
“assolver non si può chi non si pente, / né pentere e volere insieme puossi / per la contradizion che nol consente» (vv. 115-120).
chissà se questo verso di Dante sia mai venuto in mente a coloro ( interi episcopati) che interpretando “furbescamente” oops…misericordiosamente certi paragrafi dell’ l’Amoris laetitie non dicono le cose chiaramente sui divorziati risposati ma parlano di “accompagnamento” e “percorso” dei divorziati risposati che vogliono si’ essere assolti e fare la comunione ma non vogliono smettere di vivere in peccato mortale col secondo partner , oppure vorrebbero si ..ma non possono….
Come dare l’assoluzione e quindi la Comunione se non c’è il fermo proposito di non perseverare nella situazione di peccato? Come si può pensare che sia “obbigato” chiunque a continuare a peccare?
a me pare una contradizion che nol consente”. evidentemente molti vescovi e teologi oggi sono della stirpe di Bonifacio ottavo e Guido da Montefeltro , ma anche a loro forse , al momento della morte il diavolo starà sul collo……( a loro e forse non ai fedeli che hanno tratto in inganno …)
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leonardolugaresi ha detto:
In effetti il principio di non contraddizione non è più molto in voga in certi ambienti ecclesiastici.
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Maria Grazia Miccheli ha detto:
L’ha ripubblicato su Pastor Aeternus proteggi l'Italia.
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Fiorenza ha detto:
Due parole su questo Guido avevo proprio voglia di dirle (ora, guarita da un mezzo avvelenamento e, soprattutto, appena riavuto – anche lui sanificato – il computer e quindi non più obbligata a scrivere solo con un tablet che non ha funzionato mai o, peggio ancora, col cellulare che mi sta così antipatico che spero solo che me lo ri-rubino, posso finalmente farlo). Dunque: quest’uomo tragico ha, per me, nonostante tutto, qualcosa per cui mi verrebbe, in fondo in fondo, da compatirlo più che da condannarlo: forse il fatto che ha avuto un figliolo come Bonconte, e questo qualcosa vorrà pur dire, forse perché sfuggire a un tentatore come il principe dé nuovi Farisei non doveva essere facile per nessuno (imperversava tanto che lo troviamo evocato, sempre da protagonista, nell’inferno quando ancora era vivo, più infernale di tutti), forse perché Dante proprio un coglione non lo doveva considerare se gli fa dire una frase che rivela un lampo di intelligenza non spenta mai del tutto dalla disgraziata coltre della furbizia: quell'”io tacetti / perché le sue parole parver ebbre”. Solo l’intelligenza, la visione disinteressata delle cose, può captare, credo, la follia altrui. Purtroppo, preso infine nelle grinfie del gran prete, povero Guido da Montefeltro, nemmeno quel piccolo lampo può più, ormai, essergli di aiuto alcuno.
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Fiorenza ha detto:
“O papa Bonifazio molt’ài iocato al mondo / pensome che iocondo non te ‘n porrai partire!” (Jacopone da Todi)
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IMMATURO IRRESPONSABILE ha detto:
Contrizione, timor di Dio, paura dell’ inferno……tutto molto comprensibile, serissimo e semplice assieme; il figliol prodigo torna a casa non per lo schifo di sè, ma perchè ha finito il contante. Torna a casa per la paura di mangiar carrube a vita; e al Padre basta!
Non basta a un predicatore odierno, che ho sentito alla radio (“ascolta si fa sera”) lodare il gaudente, non per il timore, ma per “essersi messo in discussione” (così ho capito perchè a molti non par così grave che si finisca a putt……e !)
Per la verità, la genialata di disprezzare la paura dell’ inferno non è solo modernista; Fenelon riteneva che si dovesse amare Dio nè per paura della pena eterna, nè per desiderio del paradiso. Giustamente Bousset condannò tale inumana e irrazionale dottrina, che noi oggi potremmo considerare errore all’ estremo opposto, ma della stessa origine del lassismo attuale.
Guido si rovina perchè ha più paura del Papa che di Dio.
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IMMATURO IRRESPONSABILE ha detto:
Scusatemi, integro il mio intervento: “essersi messo in discussione” riferito all’ abbandono della casa paterna. Così opinava il commentatore radiofonico.
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Fiorenza ha detto:
Ma che significa dire “Guido si rovina perché ha più paura del Papa che di Dio”?
Anche se si rende conto di trovarsi di fronte a un uomo ebbro di potere, Guido, come cattolico, sa soprattutto che quello è, comunque, il Papa e che è Parola di Dio (Mt, XVI,19) che, in quanto tale, egli può “serrare e disserrare” le porte del cielo. Ci vorrà solo un Dante ormai in Purgatorio, ormai purificato, per affermare che “per lor maladizion sì non si perde… “. Lo stesso beato Jacopone da Todi, nemico con tutta l’anima di quel papa indegno, e che non si è mai piegato di fronte a lui, né mai ha pensato di pregarlo perché lo liberasse dalle torture e dall’infame carcere a vita a cui era stato condannato, quando sente ormai vicina la morte non esita a implorarlo (ma inutilmente) perché dalla scomunica (da questa sì), lo liberi (dovrà aspettare il successore di papa Bonifacio perché questa grazia gli venga finalmente concessa).
Dante allude, in questo canto, a contraddizioni insolubili: a una tragedia spaventosa, e di enormi proporzioni (tragedia, anche, di tutto il Francescanesimo), legata alla presenza sul trono di Pietro di un personaggio simile che trascina con sé, nella sua perdizione, un intero mondo. Va ben al di là della tragedia di Guido, questo canto terribile. A me pare, quasi, il più terribile di tutti i canti dell’Inferno.
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Vanni ha detto:
Quanti spunti per rileggere, riflettere e approfondire: bravi tutti.
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