Mi è stato chiesto di spiegare brevemente perché considero così importante dire subito al mattino, come primo nostro atto da svegli, la preghiera che ci hanno insegnato da bambini. (Ora, grazie al potente richiamo della peste, anch’io lo faccio proprio subito, al primo riemergere della coscienza; prima mi succedeva spesso di ricordarmene solo dopo un po’, lavandomi i denti o prendendo il caffé …).
Credevo di averne già parlato qui, ma non sono riuscito a ritrovare il pezzo (se mai l’ho scritto), quindi lo dico (o lo ridico) ora nel modo più conciso possibile.
Ti adoro mio Dio. La prima parola non è amore, ma adorazione. Eppure Amore è la definizione stessa di Dio (1 Gv 4, 8): dunque la prima parola non dovrebbe essere quella? No, perché “Ti adoro” dice innanzitutto la verità sul rapporto tra me e Dio. Mette, per così dire, ciascuno al proprio posto. Prende atto dell’infinita distanza, che l’amore divino colma, ma non annulla. “Chi sei Tu, Signore, e chi sono io” (Francesco d’Assisi). Senza il passo previo dell’adorazione, l’amore umano è esposto ad ogni equivoco, ad ogni riduzione, ad ogni “cattiva familiarità” di cui siamo capaci. Non a caso, infatti, è la parola più abusata del vocabolario. (I membri della comitiva dantesca sono già transitati dalle parti del canto V dell’Inferno e ne sanno abbastanza). Sì, Dio si è fatto prossimo a noi, incarnandosi e morendo in croce per noi. Si è fatto letteralmente mettere le mani addosso da alcuni di noi, durante la sua passione. Ma questo non significa che noi siamo autorizzati a “mettergli le mani addosso”, cioè a trattarlo con quella sorta di “familiarità impudente” ignara di ogni reverenza, che oggi talvolta viene addirittura propagandata da una certa pastorale. “Chi sei Tu, e chi sono io”: per questo è necessario che la prima parola sia: «Ti adoro».
E ti amo con tutto il cuore. Ora può venire l’amore, senza il quale l’adorazione potrebbe trasformarsi in soggezione da schiavi. E l’amore può essere solo «con tutto il cuore». Totalità ed esclusività gli appartengono essenzialmente. Non si può dire (a nessuno, non solo a Dio): “ti amo ma solo un po’”; oppure “ti amo, ma solo fino a domani (o fino al 2050, che fa lo stesso)”; oppure “ti amo, ma come amo tanti altri”. Questa pretesa, insita nell’amore, rende però evidente che noi non siamo capaci di corrispondervi. Nonostante questo (anzi, proprio per questo) è importante affermarla, davanti a Dio. “Ti amo con tutto il cuore”, almeno per quanto riguarda me, è solo una dichiarazione d’intenti. Sicuramente la smentirò mille volte nel corso della giornata. Quindi è vitale che la ripeta ogni mattina.
Ti ringrazio di avermi creato. Perché potevo benissimo non esserci, e invece ci sono. Non sono necessario, nel senso filosofico del termine (e il più delle volte neanche in quello comune). Ci sono perché mi hai voluto Tu. Grazie. Questo rendimento di grazie è già eucarestia, «culto spirituale» celebrato da ciascuno di noi (in forza del sacerdozio universale dei battezzati) quando ancora siamo nel letto, in pigiama.
Fatto cristiano. Perché non è per niente la stessa cosa essere cristiani o non esserlo. Dio vuole la salvezza di tutti gli uomini, tutti sono sue creature (ad immagine e somiglianza di Lui), e tutti Lui ama, anche quelli che hanno solo la Pachamama o neppure quella … ma diventiamo suoi figli (di adozione) solo con il battesimo, grazie al quale siamo uniti al Figlio unigenito. E, di nuovo, essere stati fatti cristiani è un puro dono che abbiamo ricevuto, dato che tutti noi – salvo rarissime eccezioni – lo siamo diventati a nostra insaputa perché altri ci hanno prima fatto battezzare e poi educati alla fede. Non è scontato: fossimo nati, che ne so, in Pakistan o in Cina, molto probabilmente non saremmo cristiani. Ora, come si fa a non ringraziare tutte le mattine per una cosa così grande? (Io, per quanto mi riguarda, aggiungerei anche un piccolo ringraziamento marginale all’imperatore Costantino, che ne avrà fatte di cotte e di crude come tutti i potenti della terra, ma indirettamente ha concorso a far sì che io fossi battezzato).
E conservato in questa notte. Questo l’ho già spiegato qualche giorno fa (qui: https://leonardolugaresi.wordpress.com/2020/02/28/noi-moderni-il-sonno-la-peste-e-linfluenza/) quindi non ci spendo molte parole. Il realismo cristiano dice: “potevo benissimo morire questa notte. Invece prendo atto che hai deciso di tenermi ancora in vita e ti ringrazio, perché alla vita ci tengo”.
Ti offro tutte le azioni della giornata: fa’ che siano secondo la tua santa volontà. Come Dante ci spiegherà benissimo, nel nostro rapporto spaventosamente asimmetrico con Dio una sola cosa noi abbiamo da offrigli, una sola cosa a cui Egli tiene perché è la sola che non può (per Sua scelta) avere se non gliela diamo noi: la nostra libertà, cioè la nostra libera corrispondenza al Suo amore per noi. La forma naturale di espressione dell’amore è l’offerta. Cosa possiamo dunque offrirgli? «Tutte le azioni della giornata». Qui vale la stessa cosa detta sopra per «tutto il mio cuore»: quasi certamente il proposito del mattino sarà dimenticato n volte nel corso della giornata, ma non importa. Importa invece molto dichiarare il criterio che vogliamo adottare per l’intero nostro modo di stare al mondo. Si noti che non ci proponiamo di compiere azioni buone, efficaci, intelligenti, adeguate alle circostanze e ai bisogni eccetera eccetera, ma solo azioni «che siano secondo la tua volontà». Questo è il giudizio cristiano. Qui è il fondamento del lavoro culturale, senza il quale il cristianesimo non ha dignità e non ha rilevanza nel mondo.
E per la maggiore tua gloria. Ora diventa esplicito che tale cultura è “altra” rispetto a quella del mondo. Qui si palesa la “differenza cristiana”, e anche il carattere essenzialmente “anti-moderno” della fede cristiana (che non vuol dire che essa non sia attuale, anzi!). Perché noi abbiamo una cosa da dire, che oggi nessuno vuol sentire (e che anche la chiesa, purtroppo, dice poco, a bassa voce e quasi vergognandosene), perché non suona affatto bene alle orecchie nostre e dei nostri contemporanei, tutti infatuati del culto dell’uomo: noi non siamo al mondo per noi stessi, ma per la gloria di Dio. A.M.D.G (Ad maiorem Dei gloriam) era il motto con cui i gesuiti entrarono nella modernità a combattere la loro battaglia … e se si guarda come sono finiti molti di loro c’è da immaliconirsi, ma questo in definitiva non conta: quel motto resta valido. Il catechismo di san Pio X (che è quello che abbiamo imparato noi da bambini) alla domanda: “perché Dio ci ha creato?” rispondeva in questo modo, che oggi molti troverebbero raggelante: «Dio ci ha creati per conoscerlo, amarlo e servirlo in questa vita, e per goderlo poi nell’altra, in paradiso». Si dirà che noi dopo un secolo e più di progresso teologico siamo in grado di spiegare la cosa molto meglio … però il concetto è giusto. E il “caso serio”, come direbbe Balthasar, rimane quello.
Preservami dal peccato e da ogni male. Si osservi l’ordine, che è gerarchico. La prima cosa da cui chiediamo di essere preservati è il peccato (non il coronavirus). La seconda è ogni male (compreso, e ora in primis, il coronavirus). Di nuovo è all’opera il giudizio cristiano, di nuovo pregando si fa cultura.
La tua grazia sia sempre con me e con tutti i miei cari. Qui la nostra preghierina del mattino sembra invece farsi minimalista, rispetto agli orizzonti globali a cui ci hanno assuefatto i media e anche tante cattedre, laiche o religiose. E i migranti? E le vittime delle guerre che anche adesso infuriano in varie e remote parti del mondo? E quelli che sono colpiti dalla carestia in terre lontante? Come sembra angusta la dimensione di questa richiesta finale! D’accordo, forse è figlia di un mondo in cui non c’era quasi niente di “tele-”, e ciò che era reale per la gente era anche vicino. È giusto prendere atto che per noi non è più così. Tuttavia c’è in essa anche una dimensione di sano realismo che possiede una sua perenne validità. La totalità, come anche sopra si accennava, a noi uomini è preclusa: possiamo attingervi solo vivendo con piena adesione il nostro particolare. C’è dunque un ordine, una proporzione, nei rapporti e nelle cose, di cui non dobbiamo vergognarci o colpevolizzarci. Anche questo ci rammenta, con durezza, l’attuale pestilenza: ognuno di noi è preoccupato, innanzitutto, della propria salute, poi subito dopo di quella dei suoi cari, poi di quelli che conosce personalmente, poi di quelli che abitano nella sua città, poi dei suoi connazionali, poi degli altri … Aver messo in discussione, anche teoricamente, questa logica di prossimità e averla a volte demonizzata come se fosse frutto dell’egoismo è una delle responsabilità gravi di una deriva ideologica oggi corrente anche tra di noi, che ha meno a che fare con l’amore cristiano e più con una filantropia “stoicheggiante”.
Nella nostra preghierina del mattino non ci facciamo carico di imprese eroiche, su scala planetaria: chiediamo semplicemente la grazia per noi e per i nostri cari. Ciascuno faccia altrettanto per sé e per i suoi: di grazia ce n’è per tutti.
Grazie, ho gradito molto.
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Anch’ io fui svezzato col catechismo di Papa Sarto, caro professore. Ma poi, che successe? Ci dissero (o ci dicemmo da soli?, insomma qualcuno disse…) che le formule non andavan piu’ bene, che la Fede doveva essere “esperienza”, che le forme del passato erano da adeguarsi ai tempi ec. ec. Nel frattempo il seminario della mia citta’ si svuoto’, letteralmente, nel giro di due o tre anni! Nella nostra vita di adolescenti e giovani adulti le nuove formule e le nuove forme furono quelle della politica.
1963, Paolo Vl all’ Onu pare essere investito quasi del ruolo di guida morale mondiale!
1968, esce l’ Humanae Vitae: il Papa non viene ascoltato neppure dal suo gregge…..
Da quell’ anno in italia la Chiesa Cattolica (visibile) diventa marginale. Woitila popolarissimo (per noi anticomunisti, poi…), anche Benedetto, molto amato, ma quanti hanno dato loro ascolto? e comunque per trent’ anni e piu’ nelle universita’ pontificie, nelle scuole, nei corsi parrocchiali, che dottrina è stata insegnata?
Il deserto (visibile) di oggi ha incominciato a inaridirsi in quegli anni ormai lontani, da quando, non lo scopro io, invece di essere misura del mondo, la Chiesa (visibile) si è fatta “misurare” dal mondo. Eppure si sarebbe dovuto sapere quale metro usa il mondo!
Un disastro? Si’, ma il pericolo piu’ grave è, parlo per me, impiegare le proprie energie per denunciare questo, innegabile, disastro e non pensare alla propria conversione. Ho ricompreto il Catechismo di Pio X, vado alla Messa tridentina, ma non credo che cio’ basti a NSGC.
Bisogna sforzarsi di esser santi (e non stoici, Lei ha ragione), e questo è stato vero ai tempi di Costantino, di S. Tommaso, di Bousset e di …Papa Francesco.
(P.s. l’ ho letto da poco: meglio sarebbe stato non fare quel discorso all’ ONU…)
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Al mio paesello in montagna, ultimo al mondo a parlare il cimbro, forse un antico tedesco dell’anno mille, il catechismo veniva impartito in italiano, ed in italiano imparavamo le “risposte” e le preghiere. Era per piccoli e grandi l’impegno più importante: mia madre mi faceva ripetizioni di “catechissimo” (così lo chiamavamo)anche mentre piantavamo le patate. Nella mia parlata non c’è un termine equivalente ad adorare, pertanto a casa, dove stavo imparando a memoria questa preghiera (declinata al plurale e non al singolare: col Voi e non con il Tu), chiesi a mia nonna che cosa volesse dire questa parola. Mi guardò comprensiva e mi disse (in cimbro): Dio stesso è la strada luminosa e preziosa che ci porta ad amarlo. Chiesi conferma al parroco catechista che sorrise e mi spiegò che forse la nonna aveva sempre capito e pregato il “Via d’oro”, che è un’altra cosa. Per riscattare la nonna e far vedere al parroco che questa preghiera non era così semplice, gli chiesi come mai dovessimo dare del “Voi”, seconda persona plurale, a Dio che è uno solo. Il parroco teologo mi rispose: “perché Dio è Uno in Tre Persone!”.
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Grazie di questo documento, ennesima conferma di una grande verità storica che in tanti oggi ignorano o trascurano: il cristianesimo è in se stesso una “scuola” e la chiesa ha sempre preso sul serio la missione di “insegnare”. La portata di questo lavoro culturale che la chiesa ha condotto nel corso dei secoli, rivolgendosi a tutti, nessuno escluso (e questo credo sia un unicum nella storia) è immensa e incalcolabile. Non esonerando nessuno, neppure nel più sperduto angolo della terra, dal dovere di “imparare la dottrina” essa ha preso sul serio l’intelligenza e l’umanità di tutti e ha contribuito più di qualsiasi altra istituzione al progresso dell’umanità. L’ondata “anti-dottrinaria”, “anti-intellettuale”, “anti-teologica” che ha travolto la chiesa negli ultimo secolo, per quante apparenti o reali giustificazioni possa aver avuto nel suo spunto iniziale, ha finito per renderla – come diceva il compianto cardinale Caffarra – non “più pastorale” ma solo più ignorante. E dunque più sprovveduta, come anche in questo frangente si vede.
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Un urrah per la nonna 😄
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Sì davvero, perché “Via d’oro” è un bellissimo titolo che si può perfettamente applicare al Verbo incarnato (che dice di sé: «Io sono la via, la verità e la vita») e quindi, per l’unità di sostanza delle tre persone divine, estendersi alla Trinità. La sapientia cordis della nonna ci aveva visto bene, anche nell’errore.
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🔝
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Tanti ricordi, anch’io…
Contiene tutto l’essenziale, questa preghiera. Che bello ritrovarla qui.
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per la festa di San Giuseppe che si celebra oggi vorrei riportare queste parole
da une meditazione di don Divo Barsotti nella festa di San Giuseppe, Casa san Sergio 19 marzo 1973)
“Dobbiamo lasciar giocare Dio, ecco quello che c’insegna la vita di san Giuseppe: dobbiamo lasciare che Dio giochi con noi, rimettendoci a Lui.
Fidiamoci di Dio, lasciamoci portare da Lui con semplicità ed
amore, con abbandono perfetto, serenamente.
Non ci turbiamo per tutto quello che avviene.
Son proprio sfortunati quelli che sono vissuti in tempi di
pace, di serenità, quando tutto andava bene ma allora potevano avere meno fede di noi.
Pensate la nostra fortuna!
Vivendo in tempi così calamitosi, in tempi così bui, in tempi così tenebrosi, non possiamo fare altro che chiudere gli occhi e gettarci nelle mani di Dio.
Bisogna fidarci del Signore, avere una fede assoluta in Dio il quale ci porta attraverso una via di oscurità, ma che sfocia nella luce di una sua presenza, nella manifestazione di una sua divina potenza.
Ed è questo meraviglioso: che alcune volte questo sfociare nella luce avviene soltanto nel momento della morte, come certamente è avvenuto per Giuseppe perché questo pover’uomo è vissuto tutta la vita in questa fede e non ha visto nulla. Ha dovuto credere fino in fondo, e mai il Signore è uscito dal suo silenzio, ma gli ha chiesto la fede fino all’ultimo giorno e solo chiudendo gli occhi alla luce di quaggiù egli li ha aperti alla rivelazione di quel mistero che si era compiuto anche attraverso di lui, perché, attraverso di lui il Cristo, il Figlio di Dio, era entrato nel mondo.
Miei cari fratelli, la grandezza di Giuseppe!
Di questa fede assoluta in un Dio che, sì, operava attraverso di lui e ha compiuto attraverso di lui l’opera sua ma in un modo così sconcertante per gli uomini, in un modo che andava al di là di ogni previsione umana.
E tuttavia Giuseppe rimaneva tranquillo, sereno, non si lasciava turbare. Proseguiva il suo cammino lavorando ogni giorno senza veder nulla. Forse non ha visto nemmeno il primo miracolo di Gesù, forse era già morto quando Gesù iniziava la vita pubblica.
È vissuto sotto il medesimo tetto con il Figlio di Dio senza che gli apparisse mai nemmeno uno spiraglio, umanamente parlando, di quell’avvenimento che proprio sotto il suo tetto giorno per giorno si realizzava.
Vivere così! Del resto anche noi viviamo così, più o meno, perché anche in noi il Signore è presente, anche attraverso di noi il Signore vuole operare.
Fede, fede umile in Dio, ecco che cosa ci dice la festa di oggi.”
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Grazie per la bella catechesi.
La nota finale condensa l’essenza della Fede in poche brevi parole: “di grazia ce n’è per tutti”.
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Grazie di cuore bellissimo testo.
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