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«Io fei gibetto a me de le mie case» (v.151).

Pensandoci bene, è questo il verso – l’ultimo del canto – che in tutti questi anni ha scavato di più dentro di me, come un tarlo nel legno della memoria. Lo pronuncia un anonimo suicida fiorentino, sconciamente straziato dalle cagne che si avventano su Iacopo da Santo Andrea, nascosto tra le fronde del suo cespuglio.

Impossibile dargli un nome sicuro: «i fiorentini impiccati furono troppi in quel tempo perché si possa riconoscerne uno» (Chiavacci Leonardi). Impossibile sapere perché si è ucciso. Impossibile saperlo, in verità, di ogni suicida. Così, dopo aver sviscerato da par suo la vicenda di Pier delle Vigne, Dante affida a questo anonimo personaggio, la sola parola possibile di fronte ad un fatto enorme come il suicidio, la morte voluta.

È un verso pieno di silenzio attonito, di freddo e di vuoto. Un verso finale in tutti i sensi: prima aveva parlato il fiorentino, con otto versi (vv.143-150) che ricostruiscono la storia della città dal suo primo patrono pagano, Marte, al Battista: una storia di disgrazie e di violenze, vista da un punto di vista popolare (un po’ superstizioso) che non può certo essere  quello di Dante. Poi c’è un punto, come a staccare bene quell’opinabile discorso dalla definitiva, incontrovertibile verità fattuale di quest’unico verso in cui l’anonimo – a questo punto non più fiorentino, ma universale – condensa il suo destino: «Io fei gibetto», cioè feci una forca, «a me de le mie case».

Non so come avvenga, ma so che questo verso ha il potere di farmi vedere, ogni volta che lo leggo o lo pronuncio, il corpo di un impiccato in una casa deserta, nel silenzio e nel vuoto di uno spazio dilatato; e di farmene sentire il freddo. (Sentite la differenza che fa un tocco lievissimo come un plurale invece del singolare? Provate a compitare: «Io fei gibetto a me de la mia casa» e vi accorgete che è un altro verso)

Restiamo così, Dante, io e non so quanti altri lettori: con gli occhi sbarrati, senza alcuna parola da dire, davanti a quel corpo che pende da un trave del soffitto. E in casa non c’è nessuno.