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Questa lapide ha contato qualcosa, nella mia vita. Si trova in una chiesa dove, quand’ero studente liceale, andavo quasi tutti i giorni, insieme con decine di altri ragazzi e ragazze della mia età, a “fare compieta” (dicevamo così, non so perché, dato che in realtà erano i vespri). Ora è stata trasformata in una sala dove ogni tanto si tengono delle mostre e ieri, passandoci davanti e trovandola aperta, vi ho rimesso piede dopo chissà quanto tempo. Eccola qui:

Non ricordavo che fosse così piccola: quand’era piena di giovani sembrava, anzi no, non sembrava ma era molto più grande. Lo era, perché alla derisoria domanda del filosofo Vittorino, che si riteneva “cristiano dentro” senza bisogno di andare in chiesa, «ergo parietes faciunt christianos?» (“sono dunque le pareti che fanno i cristiani?” in Agostino, Conf. 8,2,4) si dovrebbe appunto rispondere: immo christiani faciunt parietes! Perché sono i cristiani, riempiendo le chiese, a farle grandi. Vuote, o solo visitate da turisti, le chiese non sono più niente, Basilica di San Pietro compresa.

Ma non è questo il punto di cui vorrei parlare. Il punto è quella lapide, che ho letto mille volte in gioventù, ogni volta restandone colpito, che so a memoria e che trovo anche oggi «poeticissima», come direbbe Leopardi. Poeticissima per la qualità delle parole, che a me pare alta e sicura, ed anche per la loro distribuzione nelle righe del testo, che sarà anche dovuta banalmente a come lo scalpellino si è arrangiato con lo spazio che aveva, ma, per una sorta di “colpo di dadi” eccezionalmente fortunato, ha dato vita a una scansione in versi liberi intensamente espressiva.

Pregate Dio / per l’anima: il primo distico si impone per la nettezza con cui va al sodo, senza orpelli e col ciglio asciutto di chi non ha bisogno di commuovere, perché sa di aver titolo ad ordinare. «Pregate Dio per l’anima»: e io, per parte mia, più di una volta ho ubbidito.

Del fu signor conte: la freddezza dell’inizio si scioglie già, con pudore, nel terzo verso che, pur restando contegnoso, è di una malinconia così struggente che comincia già a prendermi alla gola (e non vorrei). Oggi magari mi verrebbe in mente che quel «fu signor conte» è anche un po’ dantesco («io fui di Montefeltro, io son Bonconte»), ma la reminiscenza letteraria è superflua: è già così possente di per sé, che aggiungerci qualcosa toglie.

Alessandro Torelli: chi ha seguito il nostro viaggio nella Commedia sa quale incanto ci sia per me nella “poesia dei nomi”, e quindi potrebbe collocare là il senso poetico che trovo in questo “nome-verso”. Però, anche se io adesso sto facendo un po’ di letteratura, non dimentico, e prego l’eventuale lettore di non dimenticare, che questa è storia, non letteratura. Non stiamo a fare l’Antologia di Spoon River, né Alessandro Torelli è il bel nome di un personaggio da romanzo (un po’ dannunziano, se si vuole). Alessandro Torelli è come Leonardo Lugaresi: un uomo in carne ed ossa, come me e come te che stai leggendo, veramente vissuto; vissuto non meno di me e di te. Solo che è morto (e noi ancora no). Dov’è?

Ultimo di sua famiglia: quando, compitando l’epigrafe, arrivavo qui, la commozione avrebbe forse preso il sopravvento, insieme allo sgomento di fronte all’abisso di oblio che questo verso spalanca. Morto il signor conte, ultimo di sua famiglia, chi mai si sarà ricordato di lui, per chi avrà contato qualcosa – una volta esaurite le disposizioni testamentarie (tra cui probabilmente il mandato al parroco di far incidere e murare in chiesa quella lapide)? Per chi sarà mai più esistito? Per fortuna, la temuta e detestata commozione era, ed è tuttora, sormontata e assorbita dall’immaginazione (virtù precipua dello storico!), che a questo punto si disfrenava e molte volte mi ha narrato la vita di quest’ultimo di sua famiglia.

Morì: orsù, poeti, vi sfido. Scrivetelo voi, se ne siete capaci, un verso più concentrato e più definitivo di questo. Ma non è un verso, è un fatto. Quell’uomo morì. “Quando?”, chiede subito lo storico

Li XXV gennaro / MDCCXXXVII: ecco che cosa distingue l’immaginazione storica da tutte le altre immaginazioni umane, i fatti. Perché i fatti ci sono, e non sono così stupidi come si dice; sono anzi importanti e preziosi. La ridotta conoscenza che sempre ne abbiamo ci faccia umili e guardinghi; la scarsità delle nostre informazioni sulla realtà ci renda rispettosissimi di ogni particolare, attenti raccoglitori di ogni frustolo che le fonti ci hanno preservato (come appunto dev’essere lo storico). Che so io di Alessandro Torelli, che ora mi sta tanto a cuore? Che era conte, che era l’ultimo di sua famiglia, che morì il 25 gennaio del 1787 (ma la scrittura in numeri romani, togliendo la possibilità del “colpo d’occhio”, ci ha costretti a decifrarla lettera per lettera, questa data, e anche questo è servito a pesarla bene). È poco, ed è tanto:

In età di anni LIX / e mesi X: ecco un costume umanissimo che noi oggi abbiamo perso, e che invece nell’epigrafia funeraria romana si spingeva fino a computare spesso l’età del defunto includendovi anche i giorni. Come è giusto, perché la vita umana è preziosa. Se muoio questa notte, scommetto che nel manifesto scriverebbero “Leonardo Lugaresi di anni 69”, ma non è vero. Io oltre che 69 anni ho anche dieci mesi (e quattro giorni) in più, che sono unici, irripetibili e preziosissimi: con quale diritto vengono trascurati? E d’altra parte, come si potrebbe darmi del settantenne, così, come se niente fosse, gratuitamente, senza averli ricevuti quei tre mesi che mi mancano? Se Alessandro Torelli fosse morto il 25 di febbraio o il 25 di marzo di quel 1787 – mentre il mondo andava avanti per conto suo e, tanto per dire, nella Francia di Luigi XVI stremata dalla crisi finanziaria cominciava a farsi strada l’idea di convocare gli Stati Generali – per lui non sarebbe mica stata la stessa cosa! Avrebbe fatto una gran differenza: che ne so, avrebbe avuto il tempo di vedere i primi segni della primavera incipiente, e chissà, magari godere qualche giornata di sole abbastanza mite da poter mettere il naso fuori di casa. In limine mortis è tanto. In questi ultimi versi c’è dunque assai più che l’indiretta collocazione della sua nascita al marzo 1727.

Ma che c’entra tutto questo con la storia e con il perché e il come la si deve studiare? A me è sempre parso evidente: la presa d’atto, in quei termini, dell’esistenza di Alessandro Torelli impone a tutti noi una considerazione. Che ne è di lui? Una volta che tutti l’hanno dimenticato, quando nessuno si cura di lui, quando non è più niente per nessuno, che cos’è se non niente? E se ciò che è stato adesso è niente, che importa se un tempo (un passato che ora è niente anch’esso) è stato o non è stato? Il nichilismo sarebbe davvero l’unica possibilità, se non ci fosse Dio, il grande storico – l’unico storico, come diceva Marrou, davvero adeguato alla misura dell’infinita complessità della storia (perché è Lui che la fa). L’unico che sa tutti i fatti, in tutte le loro innumerevoli concatenazioni, l’unico che li ricorda tutti continuamente, simultaneamente, per l’eternità. Lui che conosce a menadito ogni piega della vita di Alessandro Torelli; Lui che è familiare ad ogni suo moto dell’animo, anche il più riposto; Lui che vede ogni istante dei suoi cinquantanove anni e dieci mesi; Lui che saprebbe recitare a memoria tutto l’albero genealogico della famiglia su fino al primo che agguantò il titolo nobiliare; Lui che sa tutto di tutto ciò che accadeva nel mondo quel venticinque gennaio 1787 (era un giovedì) in cui Alessandro Torelli esalò l’ultimo respiro, all’insaputa di quasi tutti gli altri esseri umani. Lui che non solo conosce, ma ama tutto questo.

Dopo Dio, c’è lo storico. Il piccolo storico, lo storico umano: un umile individuo, che diversamente dal grande storico divino, quasi niente sa e meno ancora capisce di ciò che è accaduto; però, se è veramente uno storico, anche lui ama gli uomini di cui si occupa, tanto da scegliersi come mestiere appunto quello di coltivarne la memoria. È questa pietas a costituire, almeno ai miei occhi, il vero titolo di merito, la vera nobiltà dell’impresa storiografica. Dio nella sua infinita grandezza, e lo storico nel suo piccolo, fanno lo stesso lavoro: salvano l’umanità dal nichilismo in cui la morte la precipiterebbe.

Post scriptum autoironico. Dopo tutte queste chiacchiere, forse qualcuno mi obietterà: allora perché non hai mai neanche provato a fare una ricerca d’archivio e a scrivere qualcosa su Alessandro Torelli, visto che pensi di essere l’unico ad aver cura di lui, oltre al Padreterno? Per due motivi, uno decente e l’altro ignobile. Quello decente è che sono un tardoantichista e la storia moderna non è il mio campo; quello ignobile è l’accidia. Posso solo addurre, a mia discolpa, che nei riguardi degli uomini di cui mi sono occupato io ho tuttavia cercato di avere la stessa pietas che provo per il fu signor conte Alessandro Torelli, ultimo di sua famiglia.