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#Dante, Cacciaguida, Commedia, compito, don Abbondio, Esilio, Giobbe
Le cose, a questo mondo, si dividono in due categorie (ed è forse la divisione più importante che ci sia): quelle che toccano agli altri e quelle che toccano a me. Toccano a me perché toccano me: mi toccano, cioè mi prudono, mi pungono, talvolta mi feriscono e infine mi trafiggono. Me, e non gli altri.
Ignorare, trascurare, o peggio far finta di non vedere questo iato abissale impiomba di falsità ogni nostro discorso, anche il più alto e benintenzionato; lo grava di un irrimediabile fondo di vaniloquio che rende chiunque lo faccia simile a quegli insopportabili amici di Giobbe che, appena saputo delle sue disgrazie, si installano a casa sua a sentenziare sulla sua sorte e non se la finiscono più di tormentare quel poverocristo, tanto che alla fine del libro anche Dio si incazza con loro (Gb 42, 7-8).
La serietà del “tocca a me”, starei per dire la sua dignità, è ciò che dà consistenza alle “ragioni di don Abbondio”, nel drammatico colloquio con il cardinale Federigo, quando tutto l’apparato di sacra eloquenza esibito dal cardinale si infrange contro la roccia di quella elementare verità effettuale: «Gli è perché le ho viste io quelle facce, le ho sentite io quelle parole. Vossignoria illustrissima parla bene; ma bisognerebbe esser ne’ panni d’un povero prete, essersi trovato al punto». Avrebbe vinto, don Abbondio, se Federigo fosse solo un cardinale: invece è un vero cristiano, e come tale fa la cosa che il mondo non si aspetta: si inchina alla verità di don Abbondio e la fa sua, immedesimandosi con lui e condividendo ciò che gli tocca. Il cristianesimo è diverso da tutte le altre cose che ci sono al mondo perché Cristo ha dato la vita per me, per ciò che tocca a me, che ora tocca anche a Lui.
Di fronte a “ciò che tocca a me” sono solo e indifeso. Mi ammalo? Da quel momento, io sono malato e tutto il resto del mondo no (non della mia malattia, che è la sola che conti per me). Chi ha letto La morte di Ivan Ilich sa cosa intendo. Perdo il lavoro? Io l’ho perso, non mi serve a niente sapere che tanti altri sono messi come me, e la mia distanza da tutte le analisi, pur giuste, sul problema della disoccupazione è astrale. Devo compiere un atto da cui deriveranno gravi conseguenze per la mia vita e quella della mia famiglia? A me tocca decidere, e nessun altro può farlo al posto mio.
Tocca a me. Ma perché proprio a me? Perché mi tocca ciò che mi tocca? Perché tocca a me la cosa inaudita, indicibile, infinitamente ingiusta (dico con tremore la cosa peggiore che riesco a immaginare: la morte di un figlio), la cosa che non c’entra niente con me, con quello che sono, con tutta la mia vita? C’è in tutto ciò un senso, una ragione, e quindi un ordine (il che vuol dire anche, sub specie aeternitatis, una grazia e una bontà e bellezza, per quanto a noi indecifrabili)? Oppure possiamo solo ripetere all’infinito la cantilena di Tonio, scimunito dalla peste, nel capitolo XXXIII dei Promessi sposi: «A chi la tocca, la tocca». Nessun senso, nessuna spiegazione: a chi la tocca, la tocca. Ma se è così, al diavolo tutte le filosofie e tutte le interpretazioni del mondo, perché se non trovo il senso di quel che tocca a me, dell’universo francamente me ne frego.
L’eccezionalità del canto XVII del Paradiso, il suo valore peculiare, sta proprio nel fatto che qui Dante prende di petto, come mai ha fatto altrove, la questione del senso di ciò che è toccato a lui, e lo fa nel modo diretto, virile e limpido che gli è proprio; senza infingimenti e senza giri di parole. Sin dall’esordio, che evoca una similitudine con un personaggio del mito: Fetonte che va dalla madre per sapere se è vero quello che ha udito, cioè che suo padre, il Sole, non è veramente suo padre. Può immaginarsi una “cosa che mi riguarda” più pressante e decisiva di questa? «Qual venne a Climenè, per accertarsi / di ciò ch’avëa incontro a sé udito, / quei ch’ancor fa li padri ai figli scarsi» – il mito racconta che quel padre, per convincere il figlio del suo amore paterno, gli “fece guidare la macchina grossa”, e il figlio si schiantò (e a quel padre toccò quello!) – «tal era io e tal era sentito / e da Beatrice e da la santa lampa / che pria per me avea mutato sito» (vv. 1-6).
Una cosa così importante uno deve dirla, esprimerla con le parole anche se non ce ne sarebbe bisogno perché gli altri due, che in Dio vedono tutto presente, la sanno già. Dante deve dirlo per sé (e per noi), nel modo più chiaro e diretto possibile: «mentre ch’io era a Virgilio congiunto / su per lo monte che l’anime cura / e discendendo nel mondo defunto, // dette mi fuor di mia vita futura / parole gravi, avvegna ch’io mi senta / ben tetragono ai colpi di ventura; // per che la voglia mia saria contenta / d’intender qual fortuna mi s’appressa: / ché saetta previsa vien più lenta» (vv. 19-27). Cosa mi succederà? Non so se nel comportamento di Dante mi intenerisca di più quel suo darsi l’aria di non aver paura di niente, per farsi coraggio («avvegna ch’io mi senta / ben tetragono» – la parola dovrebbe proteggerlo, catafratta com’è sin nel suo suono, perché noi siamo così, ci consoliamo con le parole – «ai colpi di ventura»), oppure il candore con cui ammette che, se sapesse già quel che lo aspetta, potrebbe illudersi di sentire meno male (in realtà, come egli sa benissimo, una «saetta previsa» viaggia alla stessa velocità di quella inaspettata).
Cosa mi succederà? Che ne sarà della mia vita? Uno schifo. Il padre Cacciaguida, dice la verità al figlio Dante che gliela chiede, perché questo devono fare i padri, senza sconti e senza orpelli: nei versi che vanno dal 46 al 69 non c’è una sola cosa buona. C’è un crescendo di cattive notizie, annunciate con spietata referenzialità: te ne dovrai andare da Firenze, perché è ciò che vuole il papa (addirittura) e, come sempre succede ai perdenti, la colpa sarà addebitata a te. «Tu» – tu, non altri: tocca a te – «lascerai ogne cosa diletta / più caramente; e questo è quello strale / che l’arco de lo essilio pria saetta» (vv. 55-57). Guardatevi attorno, contemplate le persone e le cose che vi sono care, che formano il “vostro mondo”, dunque che “sono il mondo” per voi. Ora pensate di perderle tutte, all’improvviso, da un giorno all’altro: finisce il mondo. L’esilio è come la morte; è una sembianza della morte. Ma non è tutto, dice Cacciaguida a Dante (e Dante a noi): questo è solo il primo dolore. Poi ce ne sarà un altro, forse ancor più aspro e durevole, quello di vivere in un altro mondo, un mondo alieno: «Tu proverai sì come sa di sale / lo pane altrui, e come è duro calle / lo scendere e’l salir per l’altrui scale» (vv. 58-60). Terzina tra le più proverbializzate dell’intera Commedia e perciò anche a rischio di essere banalizzata. Dice invece una cosa molto profonda: nel “mondo alieno”, anche il bene non è buono. Più esattamente, non è mai completamente buono. Buono è il pane, e fuori di Toscana tutti sanno che per esser buono deve essere anche salato, sia pur con misura. Lamentarsi che sa di sale significa dunque affermare che, in quanto “altrui”, non è buono nel suo stesso esser buono. Così come l’ospitalità, che è un gran bene – a cui non per nulla lo stesso Dante dedica versi pieni di gratitudine dal 70 in poi – viene per così dire ridimensionata e imbruttita con quella potente sineddoche del v. 60, per cui “le scale” stanno al posto della casa. Le scale, cioè il posto più inospitale della casa, come emblema dei rifugi e degli ostelli che accoglieranno l’esule, compreso dunque quello della famiglia della Scala tanto celebrato poco dopo. (Si accostino i vv. 59-60: «come è duro calle / lo scendere e ‘l salir per l’altrui scale» e i vv. 71-72: «la cortesia del gran Lombardo / che ‘n su la scala porta il santo uccello». Un caso, questa risonanza?).
Ma la notizia peggiore di tutte è che Dante sarà solo, in quell’esilio. Il “suo partito”, infatti è peggiore dei suoi nemici. In verità, egli non ce l’ha affatto un partito: il suo partito è lui solo: «sì ch’a te fia bello / averti fatta parte per te stesso» (vv. 68-69). Cacciato dal mio mondo; condannato a vivere in un mondo alieno; da solo. Perché mi succede tutto questo? Perché mi tocca? A questa domanda, il cristiano Cacciaguida risponde, cristianamente, non adducendo una spiegazione causale bensì additando una meta, perciò un senso, perciò un compito per la vita di Dante: «Figlio, queste son le chiose / di quel che ti fu detto; ecco le ‘nsidie / che dietro a pochi giri son nascose. // Non vo’ però ch’a’ tuoi vicini invidie» – non girarti da una parte e dall’altra chiedendoti “perché a me e non a lui? Perché a me sta merda e a lui tutto quel dolce?” – «poscia che s’infutura la tua vita / via più là che ‘l punir di lor perfidie» (vv. 94-99). Ecco la meta, lo scopo della vita di Dante, il compito, l’opera a cui tutta la vita va sacrificata, la perla preziosa che vale qualsiasi prezzo: la Commedia, in cui quella vita s’infutura ben più in là delle vicende meschine dei suoi contemporanei.
L’ultima parte del canto, dal v. 106 alla fine, è dedicata a dettagliarlo, questo conto che Dante deve pagare. Se Dio lo ha scelto per ricevere una rivelazione come quella contenuta nella Commedia (e non vi è dubbio che per Dante le cose stanno così), il poeta ha un dovere preciso, quello di dire la verità tutta intera (che è l’unica vera). Gliene verranno altri guai. Di nuovo qui Dante ci intenerisce, quando confessa il suo umano timore di scontentare e dispiacere (vv. 116-117: «ho io appreso quel che s’io ridico, / a molti fia sapor di forte agrume»). “Che problema hai?” “Faccio fatica!” “Va bene, falla!”: questo, ridotto a sketch, il senso dell’ultima parte del dialogo paterno-filiale tra Caccaguida e Dante.
La fatica che tocca a me non mi è tolta, ma nella consapevolezza del compito, che pure tocca a me, essa riceve pienezza di senso. La vita, così, può ricomporsi anche nella piccola morte dell’esilio. (Questo è stato così vero, anche storicamente, nella vita di Dante Alighieri che, una volta conclusa l’opera, pure la sua esistenza è terminata. A cinquantasei anni, appena scritto l’ultimo verso del Paradiso, per Dante è finito l’esilio).
Mi sembra incredibile che tu, a suo tempo, abbia dubitato di poterci portare con te e con Dante in Paradiso, caro Maestro.
Mai e mai avremmo saputo che cosa ci eravamo persi. Grazie.
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Dante, finalmente! Ti aspettavo e, nell’attesa che tu tornassi, io ero tornata ai miei polacchi.
Ora c’è il testo della lezione, però. Bello bello bello. Lo dovrò rileggere più volte prima di poterne dire qualcosa.
Intanto, annoto questo passaggio che mi ha molto colpito: “Guardatevi attorno, contemplate le persone e le cose che vi sono care, che formano il “vostro mondo”, dunque che “sono il mondo” per voi. Ora pensate di perderle tutte, all’improvviso, da un giorno all’altro: finisce il mondo.”
Ecco, queste parole mi hanno riportato a una delle cose lette in questi giorni: “A Song on the End of the World”, di Milosz. Così, è con questa che, per ora, commento e ringrazio:
Czesław Miłosz, Canzone della fine del mondo
Nel giorno della fine del mondo
L’ape vola e si posa sui nasturzi,
Il pescatore ripara la sua lucente rete.
Saltano in mare allegri i delfini,
I passerotti si aggrappano alle grondaie
E il serpente ha la pelle dorata, come deve avere.
Nel giorno della fine del mondo
Le donne vanno nel campo sotto gli ombrelli,
L’ubriaco si addormenta sul bordo di un’aiola,
Chiamano sulla strada gli erbivendoli
E una barca con la vela gialla raggiunge l’isola,
Il suono di un violino si diffonde nell’aria
E la notte si apre alle stelle.
E chi si aspettava lampi e fulmini,
Resta deluso.
E chi si aspettava segni e trombe di arcangeli,
Non crede che stia già avvenendo.
Finché il sole e la luna restano lassù,
Finché il bombo visita la rosa,
Finché i bambini nascono rosati,
Nessuno crede che stia già avvenendo.
Solo un vecchio canuto che sarebbe un profeta,
Ma profeta non è, perché ha altre occupazioni,
Dice legando i pomodori:
Una diversa fine del mondo non si sarà,
Una diversa fine del mondo non ci sarà.
(Traduzione di Paolo Statuti)
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“Il cristianesimo è diverso da tutte le altre cose che ci sono al mondo perché Cristo ha dato la vita per me, per ciò che tocca a me, che ora tocca anche a Lui.”
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La rogna, la rogna, la rogna …
La “verità” è un balsamo che, passato sulla rogna, o produce guarigione e si smette di grattarsi o produce infiammazione e ci si gratta ancora di più.
Stessa malattia, stesso balsamo, è l’ammalato che fa la differenza.
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Dopo una brutta notizia, stasera, mi chiedo se, peggio di quello che può capitare a me
non ci sia quello che capita a una persona che mi è cara. Leonardo, perché esistono anche professori così cattivi? Hanno bocciato con un 4 e un 5 ora a settembre un ragazzo di 15 anni geniale, timido, introverso, ansioso, ipersensibile, che a giugno aveva nelle altre materie tutti 7 e 8 e anche un 9 a Storia, e tutti i compagni di classe (che ora perderà) gli volevano bene e tutti i prof lo stimavano tranne questi due, non si capisce perché. Tu dirai che, in confronto a quello di cui stiamo parlando, queste sono cose da nulla, ed è vero ma anche no…Io non lo so quali conseguenze potrà avere nell’anima di un ragazzo così una non-lezione come questa. Lui non me lo dirà mai che cosa prova. Ma io li conosco i ragazzi. Chiedo scusa per questo sfogo, ho saputo questa cosa due ore fa… avevo bisogno di condividerla… Scusatemi.
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Mi dispiace molto per questo ragazzo. So che gli starai vicino come potrai. Immagino che sia facilmente vulnerabile, perché quasi tutti i ragazzi oggi lo sono. Oltre alla cause individuali, psicologiche, credo che ce ne sia una collettiva, che dipende dalla cultura in cui siamo immersi. Privi di un orizzonte di fede, non respiriamo più, sin dalla nascita, la certezza condivisa di essere “creature di Dio”. Ci manca perciò il fondamento della stima di noi stessi. Sapere che esisto perché sono stato voluto, proprio io, da Dio in persona, il quale anche in questo momento “mi fa” (perché se smettesse anche un solo istante di volermi, io precipiterei nel nulla): può esserci un basic trust (per dirla con Erikson) più forte di questo? “Sarà quel che Dio vuole” è stato degradato a espressione di un fatalismo ottuso e retrogrado, ma in realtà tante volte era l’espressione di una “fiducia basilare” che rendeva i nostri maggiori assai più forti di noi. Prendi ad esempio l’arrivo di un altro figlio, un figlio non programmato: oggi scatena quasi sempre, anche in chi lo accoglie con amore, un’ondata di apprensione (come faremo a far quadrare i conti? E a gestire le complessità della vita quotidiana? E che sarà di lui, in un mondo brutto come questo?) e immagino che lui la senta, già dal grembo materno. Poi sarà sempre così: crescerà tra adulti pieni di paura che gli succeda qualcosa … adulti che credono poco in Dio (anche se vanno in parrocchia), affidano poco alla Madonna, e pensano che l’angelo custode sia una favola.
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Tutto vero, tutto da meditare, cosa che farò.
Per ora, stanno sempre in agguato pensieri neri: mi viene in mente soltanto che il mondo (la Firenze-mondo di Cacciaguida non tornerà mai più e che la Firenze tragica del tempo dell’Esilio-Calvario di Dante è rimasta, invece.
Quando ho letto, però, questo che dici (“pensano che l’angelo custode sia una favola”), mi sono ricordata che il primo pensiero per questo ragazzo era stato, ieri, proprio quello di affidarlo al suo angelo custode. E, poi, mi ero anche ripetuta queste parole di Cristina Campo (come da ora in poi mi ripeterò le tue): “Di rado si sa verso dove si vada, o anche solo verso che cosa si vada… La meta cammina al fianco del viaggiatore come l’Arcangelo Raffaele, custode di Tobiolo.”
Grazie. Grazie.
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Quando qualcuno vuole trovare un “senso” a quello che accade ( A chi la tocca la tocca) mi viene sempre in mente la storia ” Il ponte di San Luis Rey” di Thornton Wilder in cui si parla di un evento accaduto nel 1714 , in Peru’, il piu’ bel ponte del Peru’ che crolla precipitando cinque viaggiatori nell’ abisso. Un teologo francescano ,tale fra’ Ginepro, non potendo credere ad una mera fatalita’ senza
alcun senso,( perche’ proprio quei cinque?) decise di indagare sulla vita delle vittime ,pensando di poter arrivare a dimostrare perche’ la Provvidenza divina avesse riservato proprio a loro tale morte improvvisa.Gia’ nel prologo ci viene detto che il frutto delle ricerche del fraticello fu un tomo enorme ,che spiega perche’ Iddio scelse proprio quelle persone e stabili quel giorno per manifestare la propria saggezza”, tomo che pero’ ” venne pubblicamente bruciato in una bella mattina di primavera nella piazza principale di Lima”.
“Alcuni sostengono che non sapremo mai perché ci tocca una sorte piuttosto che un ‘ altra
Altri dicono che persino i passeri non perdono una penna senza che il dito di Dio di muova per farla cadere.”
Perche’ tocca a me? Non dico che cio’ che accade non abbia senso, ma che e’ molto difficile trovare quaggiu’ una spiegazione razionale e tali spiegazioni ,quando vi sono ,sono molto spesso volontaristiche e precostituite ,volte a dimostrare una qualche idea che ci facciamo noi stessi o che vogliamo farci .Come fra Ginepro siamo sempre tentati di cercare di ” capire” cio’ che ci sembra inspiegabile.
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“Perché tocca a me?”. “Ma perché proprio a me?”, “perché a me e non a lui?”
Tanto per continuare con i “fuori tema”, ecco che cosa mi è venuto in mente nel leggere questo ripetersi del “perché a me? perché a me? perché a me?”: i Fioretti di San Francesco, il capitolo 10 dei Fioretti. Era una implicita citazione? Era un rinvio (voluto o involontario?) a questa fonte? Era un avvicinamento del superbo Dante al poverello? Impossibile. Però:
“…uno dì tornando santo Francesco dalla selva e dalla orazione, e sendo allo uscire della selva, frate Masseo volle provare sì com’egli fusse umile, e fecieglisi incontra, e quasi proverbiando disse: “Perché a te, perché a te, perché a te?”.
Santo Francesco risponde: «Che è quello che tu vuoi dire?».
Disse frate Masseo: “Dico, perché a te tutto il mondo viene dirieto, e ogni persona pare che desideri di vederti e d’udirti e d’ubbidirti? Tu non se’ bello uomo del corpo tu non se’ di grande scienza, tu non se’ nobile; onde dunque a te che tutto il mondo ti venga dietro?”.
Udendo questo santo Francesco, tutto rallegrato in ispirito rizzando la faccia al cielo, per grande spazio istette colla mente levata in Dio; e poi ritornando in sé, s’inginocchiò e rendette laude e grazia a Dio; e poi con grande fervore di spirito si rivolse a frate Masseo e disse:
“Vuoi sapere perché a me? vuoi sapere perché a me?”
“Vuoi sapere perché a me tutto ’l mondo mi venga dietro? Questo io ho da quelli occhi dello altissimo Iddio, li quali in ogni luogo contemplano i buoni e li rei: imperciò che quelli occhi santissimi non hanno veduto fra li peccatori nessuno più vile, né più insufficiente, né più grande peccatore di me; e però a fare quell’operazione maravigliosa, la quale egli intende di fare, non ha trovato più vile creatura sopra la terra; e perciò ha eletto me, acciò che si conosca ch’ogni virtù e ogni bene è da lui, e non dalla creatura e nessuna persona si possa gloriare nel cospetto suo; ma chi si gloria, si glorii nel Signore, a cui è ogni onore e gloria in eterno”.
“Allora frate Masseo a così umile risposta, detta con fervore, sì si spaventò e conobbe certamente che santo Francesco era veramente fondato in umiltà.”.
Le mie “libere associazioni”.
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Perché anche a me, inevitabilmente, come a tutti, piace tantissimo questo canto? Per mille e una ragione, e anche il commento mi è piaciuto per come ce ne mostra il senso, che non avevo mai colto per intero.
In più, mi coinvolge il fatto che è interamente, dall’inizio alla fine, un colloquio.
“Noi siamo un colloquio”…
E anche a Dante piace, “questo” colloquio: questo in particolare. E lo prolunga, lo chiede, e ci dice anche perché lo chiede:
“io cominciai, come colui che brama, /dubitando, consiglio da persona / che vede e vuol dirittamente e ama”.
Sembra che mi abbia letto nel pensiero, perché anch’o, “dubitando”, ma anche non dubitando, è proprio questo che bramo, sempre.
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La terzina vv. 103-105 («Io cominciai …») è una perla che andava assolutamente raccolta. Io l’avevo lasciata indietro. Grazie di aver rimediato. Così si fa!
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Non so se leggere Dante sia davvero un lavoro interminabile, come dice Mandel’stam. Credo di sì.
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Per esempio: pensavo che seguire delle lezioni avrebbe reso il cammino più spedito, più facile, più breve. Non è così: a ogni passo la strada si allunga a dismisura. E, se non fosse che arriva una lezione nuova, sarei ancora al primo canto.
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L’ha ripubblicato su Briciole filosofiche.
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