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Gli ipocriti, a prima vista, sembra che siano tutta un’altra cosa dai barattieri.

Il loro canto si apre con una terzina piena di silenzio e di gravitas: «Taciti, soli, sanza compagnia / n’andavam l’un dinanzi e l’altro dopo, / come frati minor vanno per via» (vv.1-3), e lo stacco non potrebbe essere più netto. Dopo il trambusto, la volgarità sfrontatamente esibita e i movimenti fulminei e scomposti di diavoli e dannati della bolgia precedente, è come se, insieme con Virgilio e Dante, ora dovessimo anche noi decontaminarci, in silenziosa solitudine, dalla «fera compagnia» dei Malebranche, subita nel canto precedente (ma anche un po’ accettata in base al semplicistico e incauto assunto che bisogna andare «ne la chiesa / coi santi, e in taverna coi ghiottoni»). Qui, appunto, un sentore di atmosfera ecclesiastica, anzi fratesca, comincia ad avvertirsi, già nella similitudine del v.3: «come frati minor vanno per via».

Chiusa, nella prima metà del canto (vv. 4-57), la pratica coi diavoli della quinta bolgia, che inseguono Virgilio e Dante costringendoli a una precipitosa discesa nel fondo della sesta, dove essi per disposizioni superiori non possono spingersi, – e qui il movimento torna a farsi concitato com’era nel canto XXII (ma senza più alcuna connotazione farsesca: i Malebranche ora sono incazzati di brutto e fanno paura) – i due poeti si trovano in mezzo a «una gente dipinta / che giva intorno assai con lenti passi, / piangendo e nel sembiante stanca e vinta. // Elli avean cappe con cappucci bassi / dinanzi a li occhi, fatte de la taglia / che in Clugnì per li monaci fassi» (vv. 58-63).

Di nuovo i frati! Via dalla taverna, eccoci se non in chiesa almeno in sacrestia: questo ci vien fatto di pensare. Sì, ma attenzione perché niente è come sembra. Nella topografia di Malebolge, Dante ha voluto mettere i barattieri e gli ipocriti come “vicini di banco” e a prima vista l’effetto è quello di un contrasto stridente: quanto sbracati, volgari ed eccessivi si mostrano i primi (ed i loro guardiani!), tanto discreti, composti e malinconici si presentano i secondi. Ma è solo questo ciò che vuol farci provare?

Noi, che viviamo immersi nel brodo di coltura della società forse più ipocrita tra tutte quelle che si sono avvicendate nel corso della storia, potremmo essere tentati di pensare che questi pseudo-monaci «intenti al tristo pianto» (v.69) siano, pur nel comune destino di dannazione, “persone di qualità”, in qualche modo più rispettabili di quei fetenti di prima. Non è vero, sono uguali. Ecco il punto su cui, a mio parere, Dante ci provoca maggiormente in questo canto (anche se, forse perché lui viveva in tempi meno ipocriti dei nostri, non riesce a darci la sua lezione con tutta la forza di cui avremmo bisogno noi). I personaggi che ci presenta o che ci nomina, infatti, hanno un decisivo denominatore comune, che siano dell’una o dell’altra risma: sono dei politicanti disonesti. Cambiano le apparenze: lo stile, il look, l’eloquio, le frequentazioni, tutte quelle cose a cui da noi si dà somma importanza … ma la sostanza è la stessa.

C’è un bellissimo ritratto dell’ipocrita nel Policraticus di Giovanni di Salisbury, che riprendo dal commento dantesco di Anna Maria Chiavacci Leonardi e nel quale ciascuno di noi potrà agevolmente riconoscere i tratti di tanti pensosi intellettuali e politici dei nostri giorni, di tanti moralisti dalla penna d’oro, anime belle che sono sempre dalla parte giusta (cioè quella mainstream), intente a denunciare con dolore i mali del mondo e i vizi (altrui) … «Ostentano pallore nel volto, traggono profondi sospiri, si inondano di lacrime artificiose e ossequiose, tenendo il capo inclinato di fianco, con gli occhi chiusi, i capelli tagliati, il capo quasi raso, la voce dimessa, le labbra mosse in preghiera, l’andamento lento …».

Non sono migliori degli altri. Sono solo più tristi.